Arnold “Red” Auerbach

Ritratto di Red Auerbach a Boston nel 1996 (© Greg Foster/NBAE/Getty Images)

Ritratto di Red Auerbach a Boston nel 1996
(© Greg Foster/NBAE/Getty Images)

 

L’invincibile Rosso

Boston, l’estate del 1950 galoppa tra i venti del bipolarismo. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica hanno appena trasformato una delle innumerevoli schermaglie militari intorno a un fazzoletto del trentottesimo parallelo nella guerra di Corea e la National Basketball Association ha concluso da poco e con relativo successo la sua prima stagione di vita. I giocatori dei Celtics si barcamenano fra l’umile lavoro quotidiano e le ferie, poiché non sanno se la loro franchigia riuscirà ad allestire la squadra per il campionato successivo. Il presidente Walter Brown non vuole tradire la città e il suo spirito irlandese, ma non ha i soldi che servirebbero per prendere un allenatore di successo e un dirigente avveduto; sta per lasciare il campo allo sconforto, ma il suo uomo di fiducia e vice Lou Pieri gli fa una proposta piuttosto strana: «Conosco un trentenne ebreo di Brooklyn che ha studiato a Washington e odia con tutto se stesso l’atmosfera paludata del Madison Square Garden: ha un carattere perfetto per il nostro mondo. Piccolo corollario: sembra ruvido e arrogante, ma conosce la pallacanestro meglio delle sue tasche. Prova a chiamarlo, magari accetta!».

Brown alza il telefono e sbianca: il soggetto in questione chiede tre anni di contratto; i Celtics possono garantirgli solamente una stagione poiché le loro casse non sono abbastanza profonde per assicurare all’intera squadra un orizzonte triennale. Le malelingue preconizzano una rapida estinzione dello shamrock del Massachussetts; i signori di New York non vedono l’ora di ricordare al mondo che la loro Grande Mela ha generato gli Original Celtics e che quella creatura si sta spegnendo poiché si è allontanata dal suo vero habitat.

L’ultimo treno

Quel coach un po’ bizzoso e irriverente storce il naso, ma non rifiuta subito; percepisce che l’ambiente di Boston ha qualcosa di speciale e crede che la squadra stia aspettando l’ultimo treno. Proprio come lui, che non è nato per allenare i grandi college e ripudia gli unici palcoscenici in cui i dollari si muovono con facilità. Anche se le sue esperienze nella Marina hanno affinato la sua ruvida intelligenza di ragazzo di strada e i suoi contatti politici lo hanno indotto a diffidare delle offerte dei presidenti disperati, sente che quell’uomo ha qualcosa di interessante da proporgli e accetta di incontrarlo.

Arnold "Red" Auerbach e Bob Cousy (© National Portrait Gallery, Smithsonian Institution)

Arnold “Red” Auerbach e Bob Cousy
(© National Portrait Gallery, Smithsonian Institution)

 

Pochi giorni dopo, Arnold Jacob Auerbach porta i suoi capelli rossi nell’ufficio di Walter Brown, firma il suo primo contratto con i Boston Celtics e cambia per sempre la storia dello sport americano. Arriva al “campo di allenamento” e si presenta sulla panchina come un ruvido ragazzo di strada di Brooklyn; il suo approccio empatico e dissacrante conquista i giocatori e li trasforma nel suo esercito di pretoriani. Nessuno dei suoi uomini immagina che potrebbe essere allenato da un altro coach poiché “Red” – soprannome che gli deriva dalla chioma fulva – viaggia tra le pieghe delle sue emozioni e si fa sentire indispensabile. Pregiudizi razziali? Limitazioni per i neri? Neanche per idea: la città più “bianca” d’America diventa il fulcro di una sorprendente metamorfosi culturale.

Auerbach è il figlio di un ebreo che ha lasciato la Bielorussia per evitare i morsi della fame e le minacce dei pogrom: anche se ha vissuto solamente da lontano i drammi del secondo conflitto mondiale, conosce le tragedie che l’integralismo religioso ha perpetrato nel mondo e non condivide il fervore razzista che anima i nostalgici dello schiavismo. Non si cura della fede dei suoi giocatori, non guarda la loro pelle; va oltre, scruta la loro anima. Si accorge che Chuch Cooper, uno studente universitario afroamericano, arde della passione per il basket ed è disposto a buttarsi sui chiodi pur di aiutare i suoi compagni a vincere le partite.

La dinastia

Il Draft del 1950 consegna alla storia del gioco il nome di questo giovane nero: Red Auerbach lo vuole a tutti i costi e lo fa diventare il primo colored a essere scelto da una franchigia NBA, poi lo mette in campo accanto a un giocatore che non lo convince pienamente. Questo ragazzo ha origini irlandesi ed è l’idolo del pubblico locale, ma Red pensa che la sua fama non sia giustificata dal suo talento. Appena lo vede giocare, cambia idea e capisce che quel piccoletto diventerà Bob Cousy, il motore mobile del suo nuovo sistema: dal momento che quel curioso folletto palleggia attraverso il campo con una rapidità impressionante, perché non affidargli le chiavi del suo inedito fast break? Un playmaker eretico, un allenatore iconoclasta, un play-book con sette semplici principi e un cantiere aperto all’integrazione razziale. Risultato? La più grande dinastia della storia dello sport mondiale: lo spogliatoio dei Celtics diventa un serbatoio di ambizione e si specchia nello spirito irriverente del suo condottiero, ma non ha ancora le armi che servono ad arginare lo strapotere di Mikan e Johnstone.

L’NBA degli anni Cinquanta è dominata dai pivot: se vuole vincere, Boston deve trovare il suo. Auerbach indossa i panni del dirigente e comincia a muoversi, ma non è facile scovare l’ultima tessera di un mosaico così particolare. In uno strano giorno del 1955 riceve una chiamata da uno dei suoi vecchi pretoriani; quest’uomo gli suggerisce di scegliere un fascio di muscoli ed ebano di 203 centimetri che sta dominando la scena collegiale di San Francisco e sta cambiando il modo di interpretare la pallacanestro. La sua tecnica è tutt’altro che invidiabile, ma è un atleta sontuoso, ha un’intelligenza cestistica fuori dal comune: si chiama William Felton Russell, ma gli addetti ai lavori lo conoscono come “Bill”.

"Bill" e "Red"

“Bill” e “Red”

 

Red si fida del suo vecchio amico e sceglie questo timido afroamericano: quando lo conosce, capisce che la sua forza interiore innescherà la voglia di vincere del suo spogliatoio. Non gli parla mai, ma comunica con lui attraverso il linguaggio del rispetto e della lealtà: fa capire a Russell che la sua squadra non lo giudicherà né per il colore della sua pelle, né in base alle sue statistiche; innesta il suo atletismo nel sistema dei Celtics e fa decollare il contropiede. Bill difende per tutti, stoppa, cattura i rimbalzi e lancia la volata di Bob Cousy: Boston corre, decolla, vola. Non si ferma più. Fra il 1957 e il 1966 Russell e i suoi compagni vincono otto titoli NBA: perdono soltanto nel 1958, quando il grande centro si infortuna a una caviglia e non riesce a blindare il suo canestro.

Se Bill e Bob formano l’asse che regge il quintetto bianco-verde, Red è il segreto di Pulcinella degli irlandesi del Massachussetts: costruisce rapporti personali con tutti i suoi giocatori e li convince della loro forza; trasforma specialisti difensivi come K.C. Jones e Tom Heinsohn in Hall of Famers; fa uscire dalla panchina i suoi migliori talenti offensivi – Frank Ramsey e John Havlicek – per spezzare le certezze degli avversari e punire le debolezze dei loro secondi quintetti; domina psicologicamente gli arbitri e gli altri allenatori. Vince con una frequenza compulsiva e sottolinea i suoi successi con il sigaro del relax: diventa il simbolo dei Boston Celtics e il faro di una società che non smette di guardare avanti. Quando inizia a sentire la fatica, progetta il suo ritiro: nel 1966, dopo il suo nono titolo da coach, lascia la panchina a Bill Russell – che sarà allenatore-giocatore per tre anni – e continua a gestire la franchigia come General Manager. Così, fra il 1967 e il 1986 i Celtics vincono altri sette titoli ed entrano nella leggenda dello sport mondiale. La fortuna degli irlandesi, la mistica del Boston Garden, il talento dei giocatori, il carisma di un personaggio unico: Arnold Jacob Auerbach.

Daniel Degli Esposti
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