Kawhi Leonard
Toccando il cielo
California, 18 gennaio 2008. In una piccola casa di Riverside squilla il telefono. Kim Robertson solleva la cornetta e sente la voce di sua figlia. Il pianto spezza le sue parole: «Papà è morto! Gli hanno sparato!» Il signor Mark Leonard è appena stato freddato nel suo autolavaggio di Compton e il suo baby piomba nella stanza dove mamma Kim si è persa in un dolore muto: sente che l’aria nasconde qualcosa di strano, ma i suoi occhi da cerbiatto non hanno la forza di immaginare la tragedia che sta per esplodere nel suo cuore. «Kawhi, papà non c’è più. Devi farti forza».
Il respiro del ragazzino si perde nel vuoto, il dolore bagna le sue guance e si attorciglia alle sue splendide treccine, le lacrime bagnano le ali del tempo. Tutto sprofonda. L’uomo che ha dipinto nel suo nome uno scorcio fonetico delle Hawaii e che gli ha insegnato le meraviglie delle fatiche sportive non riempie più il paesaggio di Compton con il sudore e il sapone del suo autolavaggio. Le corse a perdifiato sulle colline, i progetti sul football, i sogni del parquet, le ore passate a pulire carrozzerie impresentabili sotto il sole della California, l’anima del ghetto, l’orgoglio del lavoro, gli abbracci virili scorrono nei suoi occhi come immagini eterne; Kawhi non vuole che escano dalla sua vita insieme alle lacrime.
Capisce che deve crescere, crede che le sue braccia possano accarezzare il cielo. Coltiva il silenzio con la forza del suo animo; lascia che sia l’amore per il basket a pronunciare le sue prime parole da uomo. «Mamma, io domani sera scenderò in campo. Batterò Compton Dominguez High School e guarderò il cielo».
Quando si allaccia le scarpe, la gola si annoda: il cuore batte, ma il cervello non smette di pensare al suo obiettivo. Kawhi lotta, corre, salta, segna diciassette punti, ma non basta: Riverside King perde 68-60 e gli occhi da cerbiatto esplodono in un pianto incontenibile. Le braccia più lunghe della California cercano l’abbraccio di mamma Kim: coach Sweeney sospira, ma sa che quel ragazzo sta scalando la montagna più difficile della sua vita con il passo giusto.
Kawhi non si ferma neppure un attimo: lavora sui fondamentali d’attacco, migliora il tiro, studia le letture tattiche, torchia i suoi muscoli con la spietata determinazione di un malato del gioco. Il basket è la sua vita, ma sa che le sconfitte sono semplici battute d’arresto: tutti gli imprevisti offrono possibilità di apprendere lezioni fondamentali per la carriera.
L’approdo tra gli Spurs
I reclutatori di San Diego State University si accorgono della sua grande anima e lo accolgono fra gli Aztecs; quando i suoi duecentouno centimetri esplodono sulla costa del Pacifico in un tripudio di doppie-doppie, gli Stati Uniti notano questo flessuoso blocco d’ebano: le linee del suo corpo sembrano uscite dallo scalpello di Prassitele, ma le mani e le braccia lasciano tutti senza fiato. Sono troppo lunghe, troppo grandi per appartenere a un ragazzo di quelle dimensioni; Kawhi se le gode sul campo e tace.
Nella primavera del 2011, la più efficiente organizzazione sportiva d’America getta gli occhi su di lui: la dirigenza dei San Antonio Spurs è attratta dalla sua etica del lavoro e dal mix di atletismo e silenzio che ha sempre offerto ai suoi allenatori, ma il timoniere della corazzata nero-argento è scettico. Gregg Popovich stima molto la sua point-guard di riserva, il placido George Hill: è il luogotenente disciplinato che tiene a freno le stravaganze di Tony Parker, ha in testa tutti i codici segreti della squadra, i veterani dello spogliatoio lo adorano. È perfetto, ma è l’unica pedina di scambio in un roster che alterna diamanti a carneadi, e questo Kawhi merita una possibilità all’ombra dell’Alamo. Le illazioni assumono concretezza il 23 giugno 2011: gli Indiana Pacers si vedono recapitare George Hill in cambio della quindicesima scelta assoluta del Draft, Mister Leonard.
Coach Pop schiuma di rabbia, ma quando incrocia gli occhi da cerbiatto della sua nuova ala, si innamora della sua dedizione totale: quel ragazzo si adatta perfettamente ai suoi metodi e lavora come un ossesso per migliorare il suo gioco. È il nuovo volto degli Spurs e segue con riverenza l’esempio della grande anima muta dell’NBA: Tim Duncan.
La consacrazione del 2014
Nei primi due anni all’AT&T Center, Kawhi cresce con una progressione aritmetica e impara quanto sanno di sale le sconfitte, ma il suo cuore assorbe ogni emozione: non ha paura, non si abbatte. Non si perde neanche quando il miglior giocatore della terra gli strappa di mano il vantaggio più prezioso della sua carriera, il fattore-campo delle NBA Finals 2014: vuole salire di livello e ascolta la musica del gioco.
Gli occhi da cerbiatto si accendono: sentono la magia del sole di Compton, si immergono nelle spugne dell’autolavaggio, accarezzano il pallone come un volto amico. Kawhi travolge i Miami Heat: ventinove punti, 10/13 dal campo e un impatto totale. Quarantotto ore dopo dimentica la lezione di Niccolò Paganini e ripete: LeBron James è ancora devastante, ma non riesce a scrollarsi la sua ombra di dosso. Si arrende. Capitola. Gara 5 è l’apoteosi: altri ventidue punti, altri dieci rimbalzi e altre migliaia di mascelle cadute al cospetto delle sue giocate inedite.
Quando Adam Silver annuncia al mondo che Kawhi Leonard è diventato l’MVP delle Finals, le leggende degli Spurs festeggiano con una gioia smisurata. Ride anche Coach Pop. Sa che il suo timidissimo ragazzo deve parlare alle telecamere del mondo e non vede l’ora di assistere alla scena, ma Kawhi – come al solito – sorprende tutti. Non si capacita del traguardo che ha appena raggiunto e lo condivide con i suoi compagni, poi alza gli occhi al cielo: sa che è il 15 giugno 2014 e che l’America celebra il Father’s Day. Le sue dita accarezzano il trofeo e accendono un sorriso: ormai non può più avere dubbi, papà Mark sarebbe davvero orgoglioso di lui.
Daniel Degli Esposti
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