Alfredo Binda
Il “vizio” di vincere
«Ghe voeren i garun!». «Ci vogliono le uova fresche!».
Ventotto ne ingoiò Alfredo Binda per vincere il Giro di Lombardia del 1926. Rispondendo alle domande dei cronisti nel dialetto di Cittiglio, il comune del varesotto in cui era nato ventiquattro anni prima, al termine di una corsa epica svelò lui stesso la sua arma segreta in un’epoca in cui la parola doping non era ancora entrata nel vocabolario del ciclismo.
Ma a far di lui – quel giorno e negli anni a venire – l’Alfredo dei record fu soprattutto la sua pedalata rotonda: elegante e senza strappi, quasi la fatica neanche sfiorasse le sue gambe. Una sobrietà così stonata nel pentagramma di uno sport che esige sofferenza, da impedirgli di diventare l’idolo delle folle, come Costante Girardengo prima, Fausto Coppi e Gino Bartali dopo. Lui che vinse quanto e più di loro.
La giovinezza e i primi successi
In realtà, il morso della fatica Binda lo conosceva fin da bambino: decimo di quattordici figli, emigrò giovanissimo a Nizza, dove uno zio materno lo aveva preso a lavorare nella sua ditta di stuccatura insieme al fratello Primo. In Costa Azzurra Alfredo scopre due passioni: quella per la musica, che coltiva strimpellando una trombetta (da cui il soprannome Il trombettiere di Cittiglio), e quella per la bicicletta. Su e giù ogni domenica per le colline provenzali, Binda si iscrive alla sua prima corsa il 4 settembre 1921. L’italien – così prendono a chiamarlo oltralpe – si distrae e non risponde al secondo appello: una leggerezza che gli costa la vittoria, conquistata in gara ma invalidata dalla squalifica dei commissari sportivi. Poco male. Binda ha dimostrato di avere stoffa e di lì a breve compie il salto nel ciclismo professionistico.
In Francia il corridore di Cittiglio raccoglie trentotto successi, tra cui la classica Nizza-Mont Chauve, in cui si lascia alle spalle persino il suo mito Girardengo. Il pulcino, scrivono i giornali transalpini, ha battuto l’aquila. Alfredo firma per una società parigina, la marca di biciclette Diamant, che gli offre uno stipendio di cinquecento franchi al mese, ma vuole tornare in Italia per tornare a sfidare il Gira.
Le sue ambizioni sembrano concretizzarsi già nell’autunno del 1924, quando si iscrive al Giro di Lombardia, allettato anche dalle cinquecento lire in palio per il vincitore. Binda stacca tutti sul Ghisallo, ma poi si fa raggiungere in pianura, arrivando quarto al traguardo. Tanto basta per suscitare l’interesse di Eberardo Pavesi, direttore sportivo della Legnano, che gli propone di unirsi alla sua squadra offrendogli dodici lire al chilometro per le classiche e quindicimila lire per la vittoria al Giro. Binda non se lo fa ripetere due volte e onora il contratto fino in fondo: pur correndo senza gregari, nel 1925 diventa il numero uno del ciclismo italiano, mettendo in riga Costante Girardengo e Gaetano Belloni. Non pago, vince anche il Giro di Lombardia, ripetendosi nel 1926.
Quell’anno la gara parte da Como in un clima apocalittico: una bufera si è abbattuta sulla città, il lago è straripato e una pioggia violenta rende quasi nulla la visibilità. Eppure, sui tornanti sterrati, resi ancor più impraticabili dalla fanghiglia, che si arrampicano a gomito sul Ghisallo, si scatena la lotta: Ottavio Bottecchia, il primo italiano a vincere il Tour de France, prova a bruciare tutti in una fuga che pare decisiva. Binda, tuttavia, non si perde d’animo e reagisce: lo riprende una prima volta, si fa nuovamente staccare, quindi gli manda alle calcagna il proprio gregario per poi raggiungerlo e lanciarsi in una fuga eroica. Trenta minuti di vantaggio: è il distacco di Alfredo dai suoi avversari al traguardo.
Nel 1927 Binda ascende di diritto nell’olimpo dei campionissimi. Con dodici gare vinte su quindici domina il Giro d’Italia, per la gioia di un amico che all’indomani della decima tappa gli invia un telegramma supplicandolo di conquistarne altre due: ha scommesso dieci a uno che Alfredo se ne sarebbe aggiudicate dodici e quei soldi possono cambiargli la vita. Binda vince, per lui e per sé. Poi centra il terzo Giro di Lombardia consecutivo e il primo di tre titoli iridati su strada ad Adenau, in Germania. Perché non cercare la vittoria anche nella Milano-Sanremo del 1928?
Alfredo ci prova e va ad allenarsi in Liguria, ma sulla strada del ritorno verso Alassio, sede del ritiro della Legnano, si imbatte in un temporale che lo costringe a fermarsi nei pressi di Varazze, quartier generale della Maino, la squadra di Girardengo. Il rivale lo ospita consegnandogli degli indumenti asciutti, gli unici disponibili sono però firmati Maino. Così Binda torna da Pavesi con la divisa del team avversario: come dire Francesco Totti a Trigoria con la maglia della Lazio. La bizzarra avventura non porta fortuna a Binda, costretto in gara a cedere il primo posto proprio al Gira.
Ma Alfredo si consola trionfando nuovamente al Giro d’Italia, che riconquista nel 1929. Ormai i suoi successi non sorprendono più, anzi annoiano. All’arrivo a Milano il pubblico lo fischia: Binda annichilisce la competizione con la sua manifesta superiorità. Così, nel 1930 la Gazzetta dello Sport prende una decisione clamorosa impedendo al cittigliese di partecipare al Giro. Lui s’infuria e protesta con il direttore Emilio Colombo, che si vede costretto a offrirgli la somma di ventiduemilacinquecento lire a titolo di risarcimento dell’esclusione. Mai nessuno era stato pagato per non gareggiare.
Il quinto sigillo al Giro arriverà comunque. Tre anni dopo Binda diventa il recordman di vittorie nella manifestazione, traguardo raggiunto in seguito solo da Fausto Coppi ed Eddy Merckx. Intanto, si profila all’orizzonte un nuovo avvincente dualismo con l’emergente Learco Guerra, dopo quello con il Gira delle ultime pedalate. Tra il 1930 e il 1933 i due campioni si alternano nella vittoria del Campionato del Mondo su strada, ma pochi anni più tardi Binda decide di abbandonare le corse ritirandosi con un solo rimpianto: non aver conquistato il Tour de France.
La vittoria al Tour… dall’ammiraglia
Talvolta, però, la vita offre una seconda chance e quella di Alfredo arriva a cavallo tra gli anni quaranta e gli anni cinquanta, quando il cittigliese diventa il CT della nazionale italiana. Gli viene affidato il difficile compito di far convivere proprio al Tour Coppi e Bartali, il laico e il pio, timido e schivo l’uno, esuberante e irascibile l’altro. Ci riuscirà. Sotto la sua guida, entrambi conquistano la maglia gialla, Bartali nel 1948, Coppi nel 1949 e nel 1952.
Un fotogramma sintetizza il capolavoro di Alfredo: sul passo del Galibier i due eterni contendenti si passano la borraccia, e il gesto si stampa nell’immaginario collettivo come simbolo della rivalità agonistica che non calpesta lo spirito sportivo. Ma Binda di quella competizione amava ricordare soprattutto ciò che avvenne nella seconda tappa, quando sulla discesa di Mentone Coppi rallenta per un problema alla ruota anteriore e Bartali, che non era un gregario, stacca e cede la propria al compagno. Cose mai viste, cose da squadra.
Alfredo Binda aveva centrato di nuovo l’obiettivo e stavolta nessuno osò lagnarsi. Accendendo dall’ammiraglia l’entusiasmo che non era riuscito a suscitare in sella, regalò all’Italia del dopoguerra i primi bagliori di fierezza nazionale. Al cimitero di Cittiglio, dove riposa dal 19 luglio 1986, campeggia una sua foto in maglia iridata: il “vizio” di vincere è il suo epitaffio.
Graziana Urso
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