Il doping genetico
Intervista esclusiva al prof. Mauro Giacca
Per ora è soltanto un agghiacciante scenario futuristico, ma la manipolazione genetica degli atleti potrebbe diventare presto la nuova frontiera del doping. Ecco perché nel 2006 la WADA (Agenzia Mondiale Antidoping) ha affidato al centro di ricerca triestino ICGEB (Centro d’Ingegneria Genetica e Biotecnologia) il compito di mettere a punto un test utile a smascherare il gene doping nelle competizioni sportive, a partire dall’Olimpiade di Rio de Janeiro del 2016.
Un accordo rinnovato l’anno scorso mediante un finanziamento di quattrocentomila dollari in tre anni, che si spera possa portare in breve a risultati definitivi, ovvero alla possibilità di rintracciare nel sangue e nelle urine un’eventuale modificazione genetica, al momento rilevabile solo tramite una biopsia muscolare.
Ma in che modo una terapia genica può trasformarsi in doping?
Il gene incriminato è l’IGF-1, già capace di controbilanciare efficacemente nel cuore gli effetti dell’infarto, che, se trasferito nel muscolo attraverso vettori virali, codificando per il fattore di crescita insuline-like growth factor 1 determina un aumento notevole delle fibre muscolari: non a caso uno dei topi usati per la sperimentazione è stato ribattezzato Schwarzenegger. A beneficiare del transfer genico sarebbe la performance complessiva dell’atleta: nei test di nuoto i topi trattati con l’IGF-1 risultano ben tre volte più resistenti degli altri.
Ne consegue che a correre il pericolo del gene doping sono soprattutto le discipline di resistenza: il nuoto, certo, ma anche l’atletica su lunghe distanze, lo sci di fondo e molti sport di gruppo, dal calcio alla pallanuoto. «Nei nostri muscoli» spiega a Storie di Sport il prof. Mauro Giacca, direttore dell’ICGEB «ci sono fibre a contrazione rapida e fibre a contrazione lenta. L’IGF-1 determina un cambiamento della composizione della fibra, vale a dire la transizione della contrazione da veloce a lenta, un processo simile a quello innescato dall’allenamento. In poche parole, maggiore è il numero di fibre a contrazione lenta, maggiore è il metabolismo aerobico».
I rischi, però, per gli atleti sono rilevanti: il gene doping potrebbe scatenare l’insorgere di malattie cardiovascolari. Qualcosa di peggio di quello che è già accaduto allo sciatore di fondo finlandese Eero Mäntyranta, tre ori olimpici negli anni Sessanta, vittima di incidenti cerebrovascolari provocati da una mutazione genetica naturale dell’ormone eritropoietina, che aumentava in misura esponenziale la capacità di trasporto di ossigeno nei tessuti muscolari.
Il prof. Giacca, tuttavia, esclude che la strada del gene doping possa essere facilmente praticabile, anche in futuro. «Il doping genetico» precisa «richiede strutture e laboratori molto costosi, dunque è impensabile attuarlo se non nell’ambito di un programma di doping organizzato». Una prospettiva che, se da un lato rassicura in virtù del fatto che nessun atleta avrebbe i mezzi per potervi ricorrere autonomamente, dall’altro mette in guardia sul rischio di disegni politici illegali, volti a creare una razza di supercampioni a scopo propagandistico.
Il doping di stato della vecchia Germania Est e il controverso Progetto 119 della Cina in vista di Pechino 2008 insegnano che la cautela non è mai troppa.
Graziana Urso
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(intervista raccolta nel mese di maggio 2012)
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