Kassai Lajos, l’unno del Duemila
Un uomo, un cavallo, un arco
I loro villaggi viaggianti fatti di jurte e carri evocavano culture sconosciute. Modi di vivere dimenticati da millenni. Per lunghi secoli, interi popoli attraversarono le sconfinate pianure d’Asia diretti verso una terra promessa. Ricca e molto vulnerabile. L’Europa.
E con le genti dell’Est arrivavano anche guerre e violenza, perché quando due mondi diversi si incontrano, spesso l’incontro è uno scontro. Da cui si origina poi il mondo nuovo.
Questi uomini, così diversi da noi, erano mostri assetati di sangue, erano demoni nati da unioni bestiali che giungevano come cavallette a distruggere la civiltà. Sciti, Unni, Àvari, Tatari, Mongoli. Attila, Gengis Khan, suo figlio Ögödei, in modo diverso Tamerlano. Di volta in volta furono loro il male, furono loro la negazione di tutto quello che l’Occidente aveva costruito.
O almeno così si legge nelle cronache antiche.
Perché al contrario quelle genti possedevano valori etici radicati, un’arte spesso raffinata, un sapere nato dalle esperienze di mille generazioni e dal contatto con mille stirpi. E soprattutto, quegli uomini erano portatori di due elementi, che la civiltà mediterranea pure conosceva, ma con i quali aveva un rapporto meno intenso. Un rapporto che non determinava la vita.
Per i popoli delle terre da cui nasce il sole, il cavallo e l’arco erano la vita. I nomadi delle jurte nascevano a cavallo, vivevano a cavallo e a cavallo morivano. E nascevano, vivevano e morivano impugnando l’arco. Così fu per secoli, e sembrava non dovesse finire mai.
Poi giunse il tempo della polvere da sparo e delle armi da fuoco. Il mondo dell’arco tramontò, la jurta terminò il suo viaggio lunghissimo e il cavallo tornò ad occupare un posto privilegiato, ma non esclusivo. Dei terribili guerrieri che avevano atterrito il vecchio continente restarono solo i ricordi e le leggende che si raccontavano la sera attorno ai fuochi. L’arte di scagliare frecce mentre il cavallo volava sulla terra e divorava le distanze sotto i suoi zoccoli fu dimenticata alla svelta, come alla svelta si scordano le cose che non servono più.
L’uomo del Lovasíjász
Finché arrivò lui, Kassai Lajos. Lajos di nome, ché in Ungheria si mette prima il cognome. Come dire Ludovico, che significa gloria in battaglia. Quanto mai appropriato per l’uomo del Lovasíjász, il tiro con l’arco da cavallo. L’uomo della Pustza, la sconfinata pianura ungherese dove il vento soffia con forza senza freni, e ti sbatte addosso il profumo un po’ sfuggente del grande lago di Balaton.
Lajos, il magiaro dagli occhi cerulei. Pezzi di ghiaccio, che chi ha incrociato giura ti attraversino l’anima. Oggi un atletico cinquantatreenne (è nato a Kaposvár il 16 settembre 1960), che della sua vita ha fatto una missione. La missione di riportare nella memoria collettiva e nel mondo moderno l’antica, nobile arte che fu dei suoi avi. Arte della guerra, è vero, ma lo sport, nella sua dimensione originale, che altro è, se non la sublimazione pacifica e amabile della guerra?
È sempre stato affascinato da quel mondo ormai dimenticato, Kassai. Da quell’universo impregnato dal sudore dei cavalli, dal sibilo delle frecce scagliate a bucare il cielo, dal vagare senza fine delle jurte sotto astri dalla luce purissima. E un bel momento, sarà stato il 1985 o giù di lì, decide che l’ora è arrivata. L’ora di rispondere alla chiamata, quella che sente dentro di sé, poderosa come la voce del vento della Pustza. Il richiamo del suo sangue unno, il richiamo degli spazi infiniti.
Inizia a percorrere la pianura immensa e le colline, alla ricerca di un posto che faccia per lui.
Ha un cavallo, un puledro orgoglioso di nome Prankish, che lo conduce in galoppate senza freni, lo disarciona, lo costringe in boschi dai rami bassi ed insidiosi. E che un giorno, al termine di una esaltante cavalcata, gli fa conoscere, come in una magica epifania, una stretta valle incassata in una collina. Lajos capisce che la ricerca è finita, che quella è la sua destinazione. E si ferma. La reclama per sé, e acquista con i suoi risparmi il diritto di viverci.
Comprendere la valle in ogni suo più intimo segreto. Carpirne le voci più riposte, lo scorrere dell’acqua dopo la pioggia, le vie del vento, la disposizione delle rocce e delle sorgenti. Coglierne la vita in ogni più piccola fibra, dagli animaletti del bosco agli alberi frondosi o rinsecchiti dal tempo. Questo deve fare Lajos e questo fa, per quattro lunghi anni. Poi finalmente afferra quello che la valle vuole dirgli, e disegna un percorso. Novanta metri da divorare al galoppo, novanta metri di respiro per la sua anima nomade.
C’è da imparare il tiro, ora. Kassai sa tirare. Conosce gli archi. Li costruisce sin da bambino, da quando cresceva tra l’odore acre della colla animale e l’arte misteriosa di domare il corno. Da quando sperimentava con tendini e con rami di ogni legno, per rubare alla natura e alla fisica tutte le possibili confidenze. Per assecondare i loro umori e volgerli ad un risultato perfetto. È abile e veloce, Lajos. Molto veloce.
Ma non basta. Il giovane prova a tirare da cavallo, ma i bersagli gli sfuggono come nubi portate dallo szél. Le frecce vanno a vuoto, le cavalcate sembrano un rito ostinato che non conduce alla mèta.
Perché il cavallo deve comprendere cosa Kassai gli chiede, e Kassai deve imparare quello che il cavallo gli offre. E perché l’arco degli antenati non è l’arco tecnologico dei moderni arcieri. La sua corda vibra su altre consonanze, che non sono quelle del computer e del calcolo matematico. Sono quelle della percezione e dell’istintualità. Quelle di un antico unno, appunto.
Qualcuno lo ha paragonato ad un monaco zen, e, certo, Kassai del monaco ha davvero qualcosa. La tenacia, la pazienza, la caparbietà nel perseguire l’obbiettivo. E la capacità di stare solo con sé stesso, di arricchire la propria essenza con lunghi silenzi che esprimono più di fiumi di parole. Ma non ha avuto maestri, Lajos, a differenza di un monaco zen. Tutto quello che sa se lo è dovuto conquistare, giorno dopo giorno, errore dopo errore. Ha dovuto crearlo dal nulla, reinventando movimenti, pose, automatismi e gesti che sembravano irrimediabilmente persi.
La legge del cuore
Anni duri, quelli dell’apprendistato, anni scanditi in ore interminabili di allenamento. Il dolore di imparare dal niente a cavalcare usando solo le gambe. Di sconvolgere il proprio organismo con scossoni che rompono le reni. Di spaccarsi i muscoli per entrare in una comunione assoluta con il cavallo che divora la pista in una quintana di libertà.
Poi Lajos comprende. Nessuna tecnica, nessun calcolo sul proprio respiro, nessuna mira presa in maniera meccanica. La freccia non deve partire dallo zigomo, la corda non deve poggiare sul volto o sulle labbra. Tutto dev’essere come natura insegna. Deve partire dal cuore. Dall’altezza del petto, a braccio teso. Un fluire spontaneo e senza costrizioni. Un cucciolo che impara a nuotare non ha leggi, un albero che cresce segue solo il volere del vento. E la freccia deve seguire una traiettoria che solo l’istinto può darle.
Lo stesso istinto che sa distinguere il momento miracoloso in cui i quattro zoccoli del cavallo galleggiano nell’aria, e l’armonia del galoppo non è sottoposta agli urti feroci della corsa. Un momento fugace, un granello nel tempo. Il momento. L’attimo in cui scagliare il dardo, in cui la dinamica delle forze non è alterata, in cui ciò che parte dal cuore può volare là dove l’arciere vuole.
Quante cose scoperte, quante cose valutate in prove senza fine, quante cose imparate sulla propria fatica e la propria sofferenza. Tenere tutte le frecce con la mano sinistra, come in una grande partita di shangai, che magari proprio da questo è nato il gioco. O magari è il contrario, chissà. Quali frecce adoperare, di quale legno, e con quali piume e con quale punta costruirle. Quale sella usare, e persino se usarla. Quali abiti, quali accessori. Un mondo nuovo, tutto da esplorare, tutto da misurare. E tutto da abitare. Con meraviglia, con amore infinito. Con rispetto infinito.
C’è da vivere, tuttavia. Lajos sa che mai potrebbe lasciare quella dimensione che si è creato, e allora occorre che sia questa dimensione a dargli da vivere. La sua conoscenza va diffusa. Altri devono seguirlo, altri devono poter usare quelle cose che lui ha costruito, che lui ha reimparato a costruire.
Kassai si trasforma ancora, diventa un geniale e inarrivabile punto fermo per un seguito sempre crescente di allievi entusiasti. Vengono da tutto il mondo, sono giovani, donne, impiegati stufi del grigiore delle loro vite e professionisti delusi dal quotidiano agitarsi per un finto benessere.
Imparano, aiutano, acquistano gli archi, i costumi, dormono nelle jurte che Kassai ha allestito, tondi alberghi senza tempo, come navicelle scagliate verso un mondo che è stato.
Scuole di equitazione e di tiro, bambini che imparano giocando. Spettatori increduli che gridano di meraviglia al Tiro del Parto, quando la schiena di Lajos sembra staccarsi dagli arti, e il dorso si volta all’indietro. Una freccia scagliata in faccia alla logica, all’ordinarietà delle regole cui siamo sottoposti da una tradizione secolare.
La valle ormai è autosufficiente, vive delle proprie risorse senza rinunciare ad un’oncia sola della sua eufonia con il creato. Perché Kassai è lì che ammonisce, che guida, che controlla che nulla vada distrutto, che nulla venga concesso in spregio a quanto la valle stessa può concedere. Kassai Lajos, l’uomo dagli occhi di ghiaccio. L’uomo della Pustza. L’uomo del Lovasíjász.
Oggi, il Lovasíjász è uno sport praticato da migliaia di persone. Esistono scuole (tutte create da allievi di Kassai) in ogni parte del pianeta, in Germania come in America. L’Italia vanta uno dei migliori arcieri del mondo, Celestino Poletti, il veneto dei record.
Non si creda però che si tratti di uno sport facile. Se provarlo è concesso a molti, divenirne dei maestri è difficile. Difficilissimo, anzi.
È pur vero che gli archi non richiedono libbraggi molto pesanti (per dare dei valori, 30-36#), in primo luogo perché la corda, tesa alla clavicola e non al viso, segue la freccia molto più a lungo e le conferisce quindi una velocità molto maggiore. Ed è vero anche che le leve rigide alle estremità dei due flettenti attenuano lo sforzo dell’arciere e permettono una trazione costante.
In compenso, la preparazione fisica richiesta è senza possibilità di dubbio massacrante.
Quasi più religione che sport, come in una variante occidentale delle sacre discipline marziali d’Oriente, l’ingresso a pieno titolo nel circuito di Lovasíjász è regolato da prove severissime.
A coloro che desiderano tentare l’ammissione come principianti, viene richiesto di trottare e galoppare a pelo (cioè sul nudo dorso del cavallo non sellato) per due ore, di correre a piedi per dieci chilometri e di essere in grado di scagliare cinquecento frecce senza interruzione. Questa incredibile prestazione non dà tuttavia diritto ad essere considerato un arciere. Apre solo la via attraverso la quale si accede ai simboli dell’arcieria a cavallo: le fibbie che riportano alla tradizione degli Unni.
Esistono infatti tre categorie di allievi e tre di maestri, cui si può aspirare solo sulla base dei punteggi raggiunti in gara. Un principiante che riesca a superare i trenta punti in una gara, può ad esempio richiedere di sostenere un esame, durante il quale deve nuovamente superare il limite per divenire allievo di I grado. La scala prosegue sino ai centottanta punti dei Maestri di III grado. Appannaggio di pochissimi, perché raccoglier punti non è esattamente una cosa facile.
Le gare sono paragonabili ad affascinanti rituali, durante il quale l’atleta viene pienamente coinvolto sul piano emotivo e fisico, e lo stesso spettatore non può rimanere indifferente a quanto si trova ad osservare. La preparazione inizia infatti la sera prima, con un suggestivo e toccante pasto comune in una grande jurta, durante il quale vengono distribuiti incarichi legati al mantenimento in perfetto ordine delle attrezzature del campo. Incarichi che vengono svolti con totale dedizione all’alba del mattino dopo, prima della prova.
In gara, dopo una rincorsa di trenta metri, si affronta al galoppo un percorso di novanta metri, diviso in tre settori uguali. In meno di sedici secondi, pena l’annullamento della prova, si devono centrare tre cerchi di metallo da trenta centimetri di diametro, posti a otto metri dal settore centrale, con un punteggio variabile da 1 a 5 a seconda del settore da cui li si colpisce. Non c’è limite al numero di frecce possibili. Chi è più veloce, ne scaglia di più e può realizzare un punteggio più alto.
Più alto, per percorrere nuove vie nell’incredibile universo del Lovasíjász, il tiro con l’arco da cavallo.
Danilo Francescano
© Riproduzione Riservata
Articolo splendido su uno sport che ignoravo. Bravo l’autore e bravi i redattori del sito, che ha davvero pochi uguali in giro per la Rete: esaustivo, informativo e di grande, grandissima qualità. Continuate così, siete preziosi.
Ignazio, che dirti, se non grazie a nome di tutti noi? Personalmente, quando mi sono imbattuto per caso nella storia di Lajos, ho subito pensato che era una vicenda talmente bella da meritare assolutamente un racconto… E chissà, magari un giorno riuscirò pure a visitare la sua valle. Intanto seguici, perchè penso proprio che il nostro viaggio nel fantastico mondo del Lovasíjász non si sia concluso qui! (df)
non amo particolarmente lo sport, ma articoli come questo mi fanno ricredere. Bravo Danilo!!
Detto da una persona come Enrica, è un complimento che dovrei incorniciare! Grazie!!! (df)