Puy de Dôme, 17 Luglio 1952
Il volo dell’Airone
C’è vento oggi, sul Puy de Dôme.
Un vento caldo che sferza sibilando la snella silhouette dell’antenna radiotelevisiva. Un moderno menhir d’alluminio e acciaio, bianca celebrazione delle conquiste del Secolo XX. Il Secolo di Gugliemo Marconi e di Jurij Gagarin. O forse un’offerta di laici druidi al pantheon antico dei Celti e dei Galli. A Toutatis, a Taranis o a chissà quale altro dio.
Non c’era l’antenna, il 17 luglio 1952. Non c’era la cremagliera che dal labirintico parcheggio sull’altopiano ascende superba e stridente sino alla piazzetta della cima. Né ancora c’era il suo carico quotidiano di umanità disincantata. Di viaggiatori febbrili del Terzo Millennio, ansiosi di guardare il mondo da quassù e riportarne con nonchalance un po’ ipocrita agli amici.
Perché non immaginarselo così il Puy de Dôme, con il vento che ora rivolta i leggeri parasole dei turisti giapponesi a sollevare volute e mulinelli dal suolo polveroso, quel giovedì ormai lontano? Ché l’asfalto di oggi era sovente terra, e il nastro grigio di bitume che sembra inghiottirti era a tratti una striscia ocra. Calcinata dall’estate d’Auvergne. Arida come vetro fuso da un soffio rovente.
E se ti affacci sulla terribile salita, sugli ultimi metri carichi di una fatica secolare e di memorie che si perdono in generazioni infinite, si annulla il tempo, e lo spazio si riempie per incanto.
Par di vederli che si inerpicano, Fausto e Gino. E sì, anche Jan Nolten. L’olandese biondo come solo un figlio del Nord può essere. L’olandese che ci provò, a lottare con l’Airone, e per qualche poco ci riuscì pure. Sinché l’Airone non decise di spiegare le ali immense. Sinché non si levò nel suo volo inaccessibile, e Jan poté solo sbalordire di quell’armonia sublime.
Un Tour segnato, la Grande Boucle del 1952. Segnato dalla classe senza confini del Campionissimo, segnato da una squadra azzurra che era una corazzata dalla potenza insostenibile. Fausto Coppi, Gino Bartali, Fiorenzo Magni. Un tris da canto omerico. E poi Andrea Carrea, Giulio Bresci e Luciano Pezzi, che in altre squadre sarebbero stati piccole stelle e qui erano solo fedeli scudieri. A portare borracce ai tre capitani, che mai dovessero soffrire per la sete.
Fausto aveva lanciato la sua sfida nella crono del primo luglio tra Metz e Nancy. Sessanta chilometri dominati e due forature che non lo avevano fermato.
Poi aveva cominciato a vincerla sotto la pioggia, la corsa. Sull’Alpe d’Huez, il 4 di luglio. Su quei tornanti crudeli come sassate, Fausto aveva piantato tutti. Quando la strada si era impennata all’11%, a mezza montagna, aveva schiantato Jean Robic Testa di vetro. Se n’era andato, solitaria divinità montana, da solo fra le nuvole.
E l’Airone il Tour aveva finito di vincerlo sul Sestrières, dopo il riposo. L’aveva finito di vincere senza rimedio. Una cavalcata che ancora raccontano, su quei monti che sono fiaba del ciclismo. La Croix de Fer, il Monginevro, il Galibier. Il Sestrières. Quattro colli, e su tutti e quattro un uomo solo al comando. Il suo nome è Fausto Coppi, ma stavolta la maglia è gialla e non biancoceleste. Gli altri nel nulla. A rimuginare su due gambe d’acciaio e due polmoni grandi come il Galibier.
Giovedì 17 luglio 1952 è un giorno speciale. È l’ultimo giorno da trentasettenne di Ginettaccio Bartali. Che per regalo, ha trovato sul Parisien Liberé un articolo a firma Félix Lévitan. «Perché Bartali non appende la bicicletta al chiodo? Ormai è finito. Fa pena vederlo arrampicare con tanta fatica…», si chiede e chiede al mondo il direttore aggiunto del Tour, con finezza da lord inglese.
Gino ci avrà almanaccato su, toscanaccio impenitente e vecchia volpe del pedale. E avrà deciso di prendere a schiaffi l’articolista irrispettoso. In ogni caso, oggi è il suo giorno, e nessuno dei suoi compagni ha intenzione di rovinargli la festa. «Volevamo tutti che Gino vincesse, per festeggiare i suoi trentotto anni», dirà molto dopo Fiorenzo Magni.
Non sono dello stesso avviso, ovvio, i corridori francesi. Raphaël Géminiani e Jean Robic promettono di sfasciare l’universo, spalleggiati dai maggiori quotidiani d’oltralpe. La battaglia del Puy de Dôme è annunciata, attesa, invocata da almeno tre giorni con titoli che non si vedevano dai tempi dello sbarco in Normandia. Il belga Constant Stan Ockers e l’olandese dai capelli di lino, Nolten, non sono da meno, quanto a propositi. Insomma, la tappa si preannuncia caldissima, e non solo come clima.
Sul secondo dei Gran Premi della Montagna di giornata, il Col de Dyane, Gino passa per primo. Nella discesa dal colle, Géminiani scatta. Lo seguono Jacques Marinelli, Gilbert Bauvin e Jan Nolten. Lo segue anche Bartali. Ginettaccio scende a velocità folle.
Il francese Géminiani è l’idolo di casa. È nato a due passi, a Clermont-Ferrand, e la gente che si assiepa ai lati della strada ha occhi solo per lui. Per quell’uomo dal naso adunco, modellato come un becco di falco. Un naso che sembra aspirare come un vortice l’aria infuocata dal sole di luglio. Che sembra voler assorbire ad ogni respiro l’esaltazione dei tifosi, l’amore che si legge sui cartelli e sulle scritte. Sentimenti che ora vibrano nel cielo di Alvernia, che si fanno eco appassionata accompagnando Raphaël verso il gigante Puy.
E Bartali? Gino corre tenace ed orgoglioso, e i suoi trentotto anni se li scorda ad ogni pedalata, li dissolve nel mulinare possente dei polpacci. Nolten però è lì, in agguato. Giovane, intelligente e pronto all’impresa.
Dietro, a quaranta secondi di distanza, si danna Robic. Vuole rientrare, Testa di vetro, non ci sta a perdere così quella tappa che potrebbe essere sua. Scuote i compagni, maledice l’inerzia degli italiani, compatti nel sostenere Ginettaccio in fuga, e forse teme ancor più di una sfuriata la placida calma dell’Airone. Coppi osserva la corsa con distacco. Il Tour è finito, da giorni. Gli importa poco della tappa e si limita a sorvegliare Robic.
Clermont-Ferrand è superata. Ora la mole immensa del Puy copre l’orizzonte e il suo profilo è netto come la lama di un coltello di pietra. È quasi misterioso, il colosso. Un mostro preistorico nella solitudine perfetta dell’altopiano. Un leviatano dai fianchi ocra scuro per la lava di mille eruzioni.
Sulle prime rampe, Marinelli e Bouvin, discreti comprimari divenuti quasi per caso prim’attori, perdono contatto. Salgono, i tre fuggitivi. Si arrampicano per i chilometri che mancano alla vetta, ignorando il corpo che chiede una sosta, il respiro che smozzica in un affanno senza fondo.
Più in basso, il Campionissimo controlla e si mantiene sulle sue. È Robic, il pericolo, ed è lì con lui, immobilizzato dallo strapotere degli azzurri. Ai due compagni di fuga ci penserà Gino, il vecchio, formidabile Ginettaccio dalle molte vite.
Salgono, i tre, ma Nolten è giovane. Gino non molla. Sbuffa, suda, si piega sul manubrio, ma è lì, dietro Jan dai capelli di lino che pedala verso la cima, verso la vittoria forse. Poi accade l’impensabile. Bartali comincia a cedere. Il suo motore logorato da infinite battaglie perde lentamente di giri.
Si stacca, il toscano. Forse maledice il tempo, gli anni che sono passati come frustate, e hanno lasciato segni profondi che l’orgoglio non basta a cancellare. O forse spera ancora in un disperato colpo di coda, chi può dirlo. Li vede andare via, Raphaël e Jan, e non sa come fermarli. Sente arrivare da dietro Coppi, rimasto solo con Robic e Carrea.
Poi anche Géminiani cede, non ne ha più. Le rampe del Puy lo divorano. Non serve l’urlo della folla, che si fa rumore ossessivo, opprimente. Un assedio angoscioso cui il ventisettenne di Clermont non sa più rispondere. Non può più rispondere.
Ora Nolten ha sopra di lui solamente il cielo azzurrissimo di luglio.
Finita qui? No. L’Airone vuole volare.
Manca poco ai 1442 metri della vetta. Manca pochissimo. L’olandese pedala, pestando con determinazione furiosa. Si ingobbisce, il ragazzo Jan, e sente il profumo dolce della vittoria sempre più vicino. Sempre più seducente.
Due chilometri all’arrivo. Un niente. Un tutto.
Duemila brevissimi metri in cui il ciclismo cede il posto all’epica, al miracolo di una trasfigurazione sportiva. Che solo il Campionissimo può operare. Che nessuno potrà mai raccontare con parole che suonino appropriate.
Dicono che Fausto si giri verso Carrea. Che gli faccia l’occhiolino, indicandogli Robic come per affidarglielo. Favola o verità, poco importa. È il momento in cui il volo ha inizio, ed è un volo che non conosce limiti, nella sua bellezza assoluta.
Si alza sui pedali, l’uomo dal profilo affilato. Non è più Fausto Coppi, ora.
Ora è l’Airone. Le sue lunghe ali si spiegano sul Puy de Dôme. Lo sollevano con magnifica euritmia verso la cima. Lo nascondono in un niente a Carrea e a Robic, che allibiscono del suo volare. Le ruote della bicicletta sfiorano la strada, sembrano carezzarla sotto la spinta di quei muscoli prodigiosi. Gino è ripreso, Raphaël si è come fermato. Lo vedono passare come un soffio di vento, i due campioni, e lo guardano con occhi da bambini. Stupiti di trovarsi catapultati in un territorio incantato. In bilico tra realtà e mito. Increduli.
Manca meno di un chilometro. Nolten ha ancora oltre duecento metri di vantaggio. Jan si gira. No, oramai l’Airone non può più farcela. Anche gli dei del ciclismo sono impotenti, a volte. Sorride tra sé e si gira ancora, l’olandese. E Fausto è già lì, alle sue spalle. La fatica immane dell’ascesa cala di colpo sul biondino di Sittard. Gli annebbia la vista. Gli fora i polmoni.
Prova a resistere, un metro, tre, cinque. Basta. Non si può resistere al destino.
E l’Airone si placa. Le lunghe ali si chiudono sulla terra conquistata. Cosa valgono le urla e gli abbracci, cosa valgono gli applausi, se non a raccontare ancora un’epopea? Se non a tramandare un sogno?
C’è una scritta oggi, sulla vetta del Puy de Dôme. Una scritta che tutti i turisti leggono, e che lì resterà per sempre. Una scritta semplice e bellissima.
Le 17 juillet 1952
Puy de Dôme
21e étape:
1 Fausto Coppi…
Danilo Francescano
© Riproduzione Riservata
Meraviglioso. Io c’ero.
Raccontaci!