Flavio Tranquillo
Basket, mafia e giornalismo
La vita è un continuo susseguirsi di eventi. Se essi sono casuali, nel senso che ce li lasciamo scivolare addosso, o se invece diventano causali, perché sortiscono come effetto un cambiamento nel nostro percorso, dipende in definitiva dalla nostra presa di coscienza. Questa è, in sintesi, l’esperienza di Flavio Tranquillo, voce storica del basket NBA ed europeo per SKY Sport.
«Credo che svolgere il proprio lavoro con il massimo impegno sia un valore fondamentale. Ciò detto, quando come nel mio caso professione e passione coincidono, si incorre nel rischio di sviluppare quella che gli anglosassoni chiamano tunnel vision. Per me fino ai trent’anni di età esistevano due cose: basketball e pallacanestro. Ne esisteva poi una terza: lo sport con la palla inventato da James Naismith (il basket, ndr). Se però accadono eventi come la strage di Capaci e quella di Via D’Amelio nel 1992, se scoppia una bomba che provoca cinque morti a Milano in Via Palestro nel luglio 1993 e se, tramite la Nazionale Magistrati di Pallacanestro, prendi coscienza dell’esistenza di una cosa chiamata mafia, ecco che la tunnel vision inizia a configurarsi come un problema. Allora, grazie a quel poco di popolarità acquisita proprio con il basket, la speranza è quella di avvicinare all’argomento legalità qualche persona in più senza che sia necessario, come invece è accaduto a me, che debbano esplodere dei quintali di tritolo per essere consapevoli dell’esistenza di questa piaga».
Oltre a costituire da decenni insieme a Federico Buffa una delle coppie meglio affiatate del telecronismo sportivo italiano, Tranquillo si è occupato anche di mafia, pubblicando nel 2010 I dieci passi – Piccolo breviario sulla legalità, una lunga intervista a Mario Conte, co-autore del libro e grande appassionato di pallacanestro, divenuto magistrato nel periodo degli attentati a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.
Nelle prime pagine del libro hai riportato, più che gli incoraggiamenti, le critiche che ti sono state mosse da diversi lettori. In particolare, alcuni ti suggeriscono di occuparti del tuo campo – o parquet – e di lasciare Cosa Nostra a chi si sporca le mani per combatterla. La lotta alla mafia, quindi, è da considerarsi un’esclusiva di magistrati e Forze dell’Ordine, mentre il resto è soltanto un insieme di “belle parole”?
«Credo che fosse importante citare i commenti ai quali ti riferisci, perché rappresentano un sentire comune. Io stesso in passato sarei stato tra quelli che avrebbero tacciato di protagonismo chi si fosse messo a parlare di criminalità organizzata sconfinando in un terreno diverso dal suo.
Sforzandomi però di rispettare ruoli e competenze, ritengo che parlare di mafia e di legalità sia fondamentale. Se non fosse così, oltre a magistrati e agenti, non sarebbero state uccise persone come Peppino Impastato o Don Giuseppe Diana, un giornalista e un prete e quindi due persone che per contrastare il crimine usavano le parole. Se parlare non fosse importante, non si capirebbe perché uomini come Rocco Chinnici, Falcone, Borsellino e il Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa si prodigassero così tanto nell’incontrare gli studenti o nella sensibilizzazione dei lavoratori di diverse categorie rispetto a questo tema».
Facendo un parallelismo tra sport e società, come mai nel basket i giocatori più carismatici vengono idolatrati, mentre nella società chi cerca di unire le persone verso il bene comune e contro l’illegalità viene spesso accusato di voler fare il “moralizzatore” o lo “sceriffo” di turno?
«Partiamo dalla pallacanestro. Una quindicina d’anni fa, parlando con R.C. Buford, General Manager dei San Antonio Spurs, la squadra professionistica americana più vincente degli ultimi quindici anni, tessevo le lodi di un giocatore da venti punti a partita. La sua replica fu: “Attento: ci sono dei buoni venti (intesi come giocatori da venti punti, ndr) e dei cattivi venti: There are good twenties and bad twenties“. Ciò che voleva dirmi e che io non avevo afferrato è che il giocatore da venti punti è funzionale solo a patto di non danneggiare il collettivo, in quanto egli è solo un aspetto della partita. In realtà, anche se lavora più dietro alle quinte, è altrettanto importante chi fa un blocco o una difesa, perché per ottenere un risultato è il quadro complessivo che conta.
Trasponendo il discorso alla società, i twenty sono nell’occhio del ciclone perché, sotto sotto, noi tutti vorremmo essere la star e il non esserlo può generare gelosia e rancore. Quindi, se da un lato è comodo avere un modello da idolatrare se le cose vanno bene, dall’altro è altrettanto rassicurante potergli addossare le colpe se la situazione volge al peggio.
Nel caso della lotta a Cosa Nostra, la mancata elezione da parte del CSM di Falcone come successore di Antonino Caponnetto a Palermo fu causata da una commistione di dinamiche anti-meritocratiche e invidia.
In una squadra di pallacanestro quello che conta è che il leader non si autoproclami, ma venga riconosciuto dal gruppo. Tra l’altro, nove volte su dieci, non è nemmeno l’elemento più talentuoso del roster».
Mi faresti un esempio di un giocatore che, seppur non molto dotato tecnicamente, è stato un vero leader nella sua squadra?
«Napoli vinse la Coppa Italia 2006 grazie soprattutto a Mason Rocca. Avrebbe fatto fatica a saltare un foglio di carta, tirava con meno del 50% dalla lunetta dei liberi ed era alto due metri scarsi, pochino per uno che gioca centro. Eppure, fu senza dubbio il collante di quella squadra che aveva mille problemi, tra i quali diversi stipendi non pagati.
Attenzione, però: il leader non è un miracolista. Non basta inoculare una dose del Mason Rocca di turno per rendere vincente un gruppo; il trascinatore è un pezzo importante del mosaico, ma i compagni devono assumersi le proprie responsabilità, partendo da un rapporto sincero e non adulatorio anche con il leader stesso… Va da sé che questo tipo di atteggiamento andrebbe portato nella vita quotidiana e qui torniamo al punto di prima: porsi davanti alle cose con spirito critico e con la consapevolezza che ognuno nella società ha un ruolo diverso, ma importante quanto quello degli altri.
Non considerando il numero di persone nella società che preferiscono girarsi dall’altra parte e si rendono quindi complici dell’illegalità, in termini di affiliazioni le organizzazioni criminali sono costituite da una minoranza, talvolta esigua, di individui. Eppure, proprio perché poche ma unite da un intento comune, per quanto criminale, riescono a funzionare in modo molto efficiente. Come mai? Puoi fornirci l’esempio di una squadra di basket che, anche senza avere grandi qualità tecniche, ha raggiunto dei risultati notevoli partendo proprio da una forte unità d’intenti?
«Che cosa crea consenso intorno alle mafie? Organizzazione. Dobbiamo guardare con rispetto all’efficienza di questa macchina, rimanendo ovviamente consci che è basata sulla menzogna e piegata a fini criminali.
Tutti pretendiamo organizzazione anche nella società, ma quando arriva il momento di “fare squadra” tendiamo a peccare di protagonismo e a voler ricoprire un ruolo che non ci compete. La chiave è capire che se io non sono il twenty di cui parlavamo prima, ma il mio compito è passare la palla, va benissimo così: quello è il contributo che posso dare e lo devo fare al meglio.
Nella prima Milano di coach Dan Peterson alla fine degli anni Settanta c’era questo: grandissimo rispetto dei ruoli e unità d’intenti per il piacere professionale di giocare a basket insieme. La squadra era già forte, ma non quanto lo sarebbe stata a fine anni Ottanta. Ciononostante, riuscì a ottenere grandi risultati e a lottare al vertice grazie al suo spessore umano.
Tra l’altro, quando parlo di quella Milano come di un gruppo speciale non sto dicendo che fossero un gruppo di “amiconi”: troppo spesso rapporti professionali e di amicizia vengono confusi. In quel team c’erano delle personalità agli antipodi con delle differenze che però venivano armonizzate quando era il momento di giocare.
Più in generale, credo che dovremmo basarci su criteri più aderenti a ciò che è giusto e capire che è importante far prevalere il merito rispetto alle simpatie personali. Il concetto di “sistemare” una persona perché è mia amica o di far giocare un ragazzo perché un altro “mi è antipatico” è una stortura dell’ordine naturale delle cose che conduce a conseguenze negative nella società come nello sport.
Su quali principî è basata la tua collaborazione trentennale con Federico Buffa? Siete una persona più una persona, ma più che a due la carica che trasmettete sembra pari a duecento…
«Ovviamente ci deve essere molta sintonia per lavorare con una persona così a lungo. Tuttavia, Federico e io abbiamo sensibilità diverse e intelligenze molto diverse (la sua è dieci volte superiore alla mia). Credo che la chiave di questo rapporto, ancora una volta, sia nel capire i ruoli di ciascuno e di avere come base un profondo rispetto l’uno dell’altro.
Ancora una domanda sul tuo lavoro di cronista. L’avvento di Internet ha influito sul modo di svolgere la tua professione?
«Certamente sì. Mi capita spesso di ricevere, tramite Internet, diverse staffilate del tipo: “Durante la telecronaca hai detto che il giocatore X ha giocato nel College Y, mentre su Google ho trovato che era stato all’Università Z”. Osservazioni di questo tipo sono giustissime, perché magari posso essermi sbagliato oppure posso a mia volta aver attinto a una fonte erronea. La Rete rappresenta quindi un notevole stimolo ad approfondire la documentazione e a cercare di non dire delle sciocchezze.
Ciò detto, non dimentichiamoci che Internet offre una serie di dati – a volte peraltro non corretti – che vanno interpretati in senso critico e costituiscono una conoscenza potenziale, ma non La Conoscenza. Per dare un esempio di ciò che voglio dire, in rete posso probabilmente trovare e scaricare il playbook degli Spurs con tutti i loro schemi. Ciò significa forse che posso andare in palestra con il quaderno in mano e sostituirmi a coach Gregg Popovich? Ovviamente no. E perché no? Perché non ho il suo trasporto, il suo passato, la sua esperienza e avere quel playbook in mano e dire: “Mettiti in quella posizione e fai questa giocata” non mi aiuta nemmeno un po’ a comunicare quello che invece lui e solo lui riesce a trasmettere ai giocatori».
Un quesito da bar in chiusura. Chi è il più forte giocatore che tu abbia visto in assoluto? E chi è il più forte giocatore europeo?
«Ovviamente è impossibile fare paragoni tra giocatori di epoche diverse, ma stiamo al gioco. Per queste due domande sono possibili solo due risposte: la prima è Michael Jordan, perché se no si viene messi all’indice, e la seconda è Dražen Petrović, perché altrimenti si passa per insensibili.
Fingendo invece di voler essere messi all’indice e di essere insensibili, dico LeBron James e Arvydas Sabonis. La risposta LeBron è una speculazione su ciò che può ancora fare perché è chiaro che ora come ora, se consideriamo la carriera di Jordan nella sua totalità, al momento essa è superiore a quella di James. Confrontando però in parallelo gli inizi di carriera di entrambi, se LeBron riesce ancora a migliorarsi, può diventare il più forte.
Discorso Europa. La morte di Petrović per incidente stradale è stata un dramma incalcolabile e possiamo solo immaginare che cosa ancora sarebbe riuscito a dare alla pallacanestro. Chiarito questo, dico Sabonis, che se fosse nato da un’altra parte e non avesse avuto i problemi fisici e di altra natura che ha avuto, avrebbe potuto addirittura rivaleggiare per la prima categoria della tua domanda».
Daniele Canepa
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