“Jenny” Láng Píng
Il Tamburo cinese
La prima versione la ritrae in posa, sorridente, capelli raccolti in un paio di codini e un trofeo d’argento in mano. La seconda in sospensione, mentre attacca sottorete con una delle sue formidabili schiacciate. Due facce della stessa medaglia. D’oro. Quella conquistata nella Coppa del Mondo 1981 dalla nazionale femminile cinese di pallavolo, di cui lei fu la trascinatrice. Jenny Láng Píng finì sui francobolli postali a ventun anni, in un Paese in cui le donne venivano rappresentate come esponenti di una categoria, mai come individui. Le operaie, le infermiere; la Campionessa.
Il Grande balzo in avanti voluto da Mao aveva già svelato il suo carattere illusorio, ma nel volley femminile era appena iniziato. Gli anni Ottanta segnano l’ascesa inarrestabile di una squadra che nel giro di un decennio vincerà tutto – due Coppe del Mondo, due campionati mondiali e un’Olimpiade – battezzando nuovi eroi popolari, anzi eroine. Jenny è schiva, ma il suo matrimonio diventa un evento televisivo; non può andare al cinema, uscire con gli amici, né mimetizzarsi tra i passanti, con il suo ingombrante metro e ottantaquattro cm d’altezza. Il pass per una vita normale è un biglietto aereo per il New Mexico. Resterà negli Usa per poi approdare in Italia, poi di nuovo l’America e il rientro finale nella Cina capitalista del terzo millennio, così diversa da quella contadina in cui nacque il 10 dicembre 1960.
Un capitano travolgente
Láng Píng, questo il suo nome originario, si avvicinò al volley a Pechino, gareggiando nei tornei scolastici. A sedici anni entrò a far parte della prima squadra cittadina, a diciotto della nazionale. Professione schiacciatrice. Precisa, potente, dotata di grande intelligenza tattica, ottima anche in ricezione, Láng Píng è l’interprete più talentuosa di una disciplina importata dall’America agli inizi del Novecento, che in Asia ha spopolato anche nel vicino Giappone. Ma mentre le “cugine” nipponiche vincevano Mondiali e Olimpiadi, le pallavoliste cinesi guardavano salire alla ribalta internazionale solo il ping pong. Fino al 1981. La Coppa del Mondo a Ōsaka è la rivoluzione culturale del volley mandarino: una squadra che annienta le avversarie con un 3-0 secco in cinque gare su sette. Láng Píng e le sue compagne lasceranno lungo il cammino solo quattro set: due agli Usa in semifinale e due alle padrone di casa, che nell’implosione del tifo nipponico cedono il testimone alla nuova potenza gialla.
La leadership cinese viene confermata l’anno dopo ai Campionati mondiali e poi nel 1984 ai Giochi Olimpici di Los Angeles, snodo cruciale per i destini di Láng Píng e compagne. La Cina della pallavolo non ha mai partecipato a un’Olimpiade e, anche se quella di Los Angeles è mutilata dal boicottaggio del blocco sovietico, in campo scendono le nazionali più forti del volley, eccezion fatta per l’URSS campione uscente: Cina, Giappone, Perù e Usa, i quattro top team dei Mondiali 1982. Così, mentre i colleghi maschi devono accontentarsi di un ottavo posto, le ragazze cinesi volano in finale e guastano di nuovo la festa alle padrone di casa: questa volta gli USA.
Il match contro la nazionale dell’altissima e altrettanto sfortunata Flo Hyman (morirà nel 1986 vittima della sindrome di Marfan) sulla carta è molto impegnativo. La Cina ha battuto le americane ben sette volte su otto prima dei Giochi, ma ha subìto una sconfitta in quattro set all’esordio, nel girone eliminatorio. Uscendo dagli spogliatoi, Láng Píng vede il coach USA e tre sue giocatrici con una medaglia d’oro al collo, si avvicina alle compagne e ringhia: «Strappiamogliela di dosso». Grintosa ma mai scomposta, è un capitano elegante, misurato, rassicurante, per la sua nazionale; un uragano per l’altra metà del campo.
Elastica, scattante, capace di variare il gioco, gran finalizzatrice, Láng Píng diventa per la stampa The Iron Hammer, il Tamburo d’Acciaio. In tre set il team americano viene annichilito e le cinesi possono celebrare il trionfo, interpretato fin da subito non come un’affermazione sportiva ma come il viatico verso la ridefinizione dell’identità di un Paese ancora alle prese con i postumi della cura Mao. Il simbolo delle infinite possibilità della nuova Cina, di un’apertura al mondo che si concretizza anche – o soprattutto, per ora – nello sport, di cui Láng Píng è l’icona.
Nel biennio successivo la nazionale mandarina si conferma imbattibile conquistando Coppa del Mondo e Mondiali; Láng Píng fa incetta di medaglie e premi, ma all’età di 25 anni prende una decisione drastica: andrà a studiare negli Usa, prima a Los Angeles, poi presso l’Università del New Mexico.
Sono anni critici, in cui il desiderio di un’esistenza al riparo dai riflettori si traduce nella difficoltà di procurarsi da vivere. Insegna pallavolo nei camp estivi per ragazzi, ma quando riceve la proposta di tornare a giocare, Láng Píng – nel frattempo diventata “Jenny” – accetta senza pensarci troppo. Poco importa che debba attraversare l’Oceano nella direzione opposta a quella da cui è arrivata: è l’Italia a volerla, precisamente il Modena. Il primo anno in Emilia sarà sufficiente per vincere una Coppa Italia e imparare ad apprezzare il buon cibo italiano. Ma una nuova sfida solletica le sue ambizioni: la panchina.
Gli anni da allenatrice
Nel 1995 Láng Píng diventa l’allenatrice della Cina, una squadra da rifondare, che ha visto ritirarsi progressivamente le sue più grandi giocatrici, da Cao Huiying a Sun Jinfang e Zhou Xiaolan: con lei tornerà a vincere una medaglia olimpica (d’argento) ai Giochi di Atlanta e otterrà il secondo posto ai Mondiali in Giappone nel 1998.
Poi coach Láng Píng vola in Italia dove, al timone di Modena e Novara, vince uno scudetto – il primo del club emiliano – , una Champions League, due Coppe Italia, una Coppa Cev e una Supercoppa italiana. La sua ultima esperienza nel Belpaese è con lo Jesi, dove allena tra le altre anche l’americana Stacy Sykora, che riconosce: «Ci ha dato uno stile, ci ha insegnato ad allenarci, per la verità ci sta uccidendo, ma è ciò di cui abbiamo bisogno».
Non sa che di lì a poco Láng Píng sarà la sua allenatrice anche in nazionale. Nel 2005 il mito cinese firma per gli Usa, gli avversari di sempre. Alto tradimento? Ripudio della terra natìa? L’ex fuoriclasse riflette sulla decisione per tre mesi, mentre in Cina, alla notizia dei contatti tra lei e la nazionale statunitense, infuriano le polemiche. Alla fine, però, Láng Píng capisce che il suo popolo la sosterrà qualunque sia la sua scelta, e sceglie per se stessa e soprattutto per sua figlia tredicenne, nata e cresciuta negli Usa, alla quale vuol stare il più possibile vicina.
Ai Giochi di Pechino lo scontro è inevitabile: Cina contro Usa, ancora una volta. La sfida olimpica si ripete al rovescio, ma Láng Píng conserva il suo aplomb – «Sono una professionista», afferma – e non si lascia condizionare dai duecentocinquanta milioni di spettatori cinesi davanti alla tv, dalla presenza del presidente Hu Jintao in tribuna né dal ricordo di un francobollo sbiadito. Vince, tre a due, e vola verso l’ennesima medaglia della carriera, un argento, che infila al collo delle sue ragazze, seconde solo al Brasile. Láng Píng è di nuovo nel tempio di Olimpia.
Ritorno in Cina
Qualche settimana dopo, lei che ha saputo trionfare in tre Paesi diversi, in tre diversi sistemi sportivi, sintetizza così le sue esperienze: «Se vuoi essere libero di esprimerti e divertirti giocando a pallavolo, scegli gli Stati Uniti; se vuoi allenare in un campionato competitivo, scegli l’Italia; se vuoi vincere un Campionato del mondo, scegli la Cina». E infatti è ancora in Cina, ancora alla guida della nazionale, che la ritroviamo nella primavera dello scorso anno, pronta alla sfida più ardua. «Voglio far rivivere lo spirito della Generazione d’oro degli anni Ottanta», annuncia. Il Tamburo d’Acciaio si prepara a scandire il nuovo tempo del volley orientale.
Graziana Urso
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