Stefan Edberg e Boris Becker
La sfida infinita
«Voglio un rovescio come lui!».
Il ragazzino indicava una foto appesa dietro di me e mi fissava serio attraverso due fessure azzurre piazzate sotto un casco di capelli biondi, scarruffati e sudati. Gli avevo già visto fare quel gesto almeno una decina di volte nell’arco di più o meno un paio di mesi, perciò sapevo di chi stesse parlando e perché. Lo spogliatoio maschile “dei grandi”, dove io e il mio amico andavamo a fare la doccia dopo l’allenamento, era tappezzato di istantanee ben incastrate dentro ordinarie cornici. Tutte foto in bianco e nero di campioni che ormai, ai tempi in cui bazzicavo quella stanza, potevano ben dirsi a fine carriera oppure a carriera ampiamente finita.
Tutte tranne una, che invece era a colori e aveva come soggetto un ragazzotto con i capelli biondi e gli occhi azzurri che somigliavano a quelli del mio amico. Il ragazzotto era intento a chiudere il movimento del rovescio, con il ginocchio sinistro piegato quasi a toccar terra, e nonostante si trattasse di una foto traspariva evidente l’elegante dinamismo di quel movimento, il perfetto equilibrio del gesto. In effetti, a guardarla veniva in mente l’idea della perfezione. Forse il gestore del circolo era rimasto folgorato come il mio piccolo amico dal rovescio di Stefan Edberg, così si chiamava il ragazzotto della foto, e aveva fatto una clamorosa deroga al concetto di coerenza col resto dei campioni collezionati in quello spogliatoio. Era la primavera del 1985 e Edberg aveva solo diciannove anni, eppure era già ampiamente conosciuto dal mondo tennistico internazionale. Due anni prima aveva messo a segno un Grande Slam juniores, si era aggiudicato cioè i quattro più importanti tornei di singolare di quella categoria. L’anno successivo erano arrivati il primo titolo ATP, a Milano e la medaglia l’oro all’Olimpiade di Los Angeles, dove il tennis si era presentato come sport dimostrativo. Praticamente tutti si aspettavano la sua esplosione nel circuito maggiore, cosa che avverrà proprio durante il 1985, con un climax di titoli messi in bacheca culminati nel trionfo all’Australian Open di quell’anno, che allora si disputava nel mese di dicembre e sull’erba.
Stefan Edberg era svedese, il che durante gli anni Ottanta voleva dire “erede di Bjorn Borg” e, di conseguenza, “giocatore di grande corsa e gioco da fondo campo”. Del resto i più forti svedesi arrivati nel circuito professionistico dopo Borg, uno su tutti Mats Wilander, rappresentavano quel tipo di giocatore. E invece Edberg era il prototipo del giocatore classico, elegante, propenso alla rete e alle giocate di tocco. Per questo era stato da giovanissimo invitato a staccare la seconda mano dalla parte del rovescio, e per fortuna del tennis l’esperimento era ampiamente riuscito. A vederlo giocare veniva da pensare che sarebbe potuto nascere dieci o venti anni prima, e invece era capitato proprio mentre il tennis stava radicalmente cambiando. Le racchette di legno erano da poco andate in pensione e da lì a poco avremmo assistito alla prima generazione di giocatori in grado di sfruttare appieno le potenzialità dei nuovi, tecnologici attrezzi. Gente come Andre Agassi o Jim Courier ad esempio, o come i grandi “terraioli” spagnoli guidati da Sergi Bruguera.
Quell’estate, come ogni estate, tra fine giugno e l’inizio di luglio io e i miei compagni di squadra passavamo i pomeriggi davanti alla televisione a consumare il rito di Wimbledon. Quell’anno il mio amico biondo si aspettava di veder trionfare per la prima volta il suo idolo svedese e mai si sarebbe aspettato di dover sostenere, alla fine di quel torneo, furiose discussioni su chi sarebbe stato il prossimo numero uno del mondo. «Facile, Boris!» prese infatti a dire un altro nostro compagno ogni volta che saltava fuori l’argomento. Personalmente me ne tiravo fuori, dal momento che ero ancora un fedele supporter di John McEnroe, ma quei due non la smettevano di beccarsi. E tutto perché quell’anno era piombato su Wimbledon un ragazzone tedesco di diciassette anni rispondente al nome di Boris Becker, dal servizio devastante ma anche, lo scopriremo negli anni a venire, con una mano ben educata e degli ottimi fondamentali da fondo campo, che aveva vinto di forza il torneo. Mai prima, e mai dopo, nessuno era entrato così giovane nell’albo d’oro del torneo più famoso del mondo.
Becker non era certo un Carneade qualsiasi. In patria era ben conosciuto per il suo talento smisurato e la sua precocità, e in campo internazionale in un solo anno di professionismo era riuscito a saltare sulla bocca di tutti. Quando McEnroe se lo ritrovò davanti per la prima volta nel marzo di quell’anno, sul tappeto indoor di Milano, non fu in grado di fare un punto alla risposta per oltre tre turni di servizio, inducendolo a pensare che se quel tipo avesse continuato a battere in quel modo non avrebbe avuto alcuna possibilità. Quella volta il terribile ragazzino tedesco si concesse un paio di passaggi a vuoto e perse quel match,ma tutti i presenti ebbero la sensazione che si trattasse solo di tempo.
Boris era estroverso, esprimeva rabbia e felicità nell’esatto momento in cui le provava. Lo faceva con il fisico, rompendo una racchetta o esibendosi in impossibili volée vincenti in tuffo, ma lo faceva anche a parole, gridando di gioia o producendosi in lunghissimi e accorati monologhi “autoaccusatori”. Era potente, brillante e imprevedibile, dentro e fuori dal campo. Era l’esatto opposto di Stefan Edberg, anzi era l’altra faccia del grande tennis mondiale. Erano lo yin e lo yang, per dirla secondo la cultura orientale, e ciò era tanto più evidente ogni volta che si trovavano uno di fronte all’altro. Una combinazione palesemente preparata dagli dèi del tennis, già pronta per essere timbrata come rivalità. A partire da quel 1985, durante il quale si aggiudicano un torneo del Grande Slam a testa, si affiancano alla pattuglia dei primissimi giocatori del mondo rimanendovi per una decina d’anni e assistendo insieme al declino di Ivan Lendl e all’ascesa altri grandi campioni come Andre Agassi, Michael Chang, Pete Sampras e Jim Courier. Fra il 1989 e il 1992 i due si ritrovano spesso ai primi due posti del ranking mondiale e, attraverso tre splendide finali consecutive consumatesi sul Centre Court di Wimbledon tra il 1988 e il 1990, si contendono il titolo di miglior giocatore del mondo sull’erba.
Quando decidono di ritirarsi dal tennis agonistico, lo svedese nel 1996 e il tedesco nel 1999, portano a casa con loro dodici titoli dello Slam (sei a testa) e il primo posto nella classifica mondiale. Per il resto, ognuno ha fatto ciò che era nella propria natura. Edberg si è sposato nel 1992 e lo è tutt’oggi, ha vinto così tante volte il Premio Sportività messo in palio dall’ATP che quando si è ritirato hanno dato a quel premio il suo nome, ha vissuto per anni a Londra, che poi è la sua città preferita. Becker si è sposato due volte e ha avuto figli da tre donne diverse, ha giocato una partita di scacchi contro il campione del mondo Garri Kasparov ma ha anche partecipato a numerosi tornei professionistici di poker. Lo yin e lo yang, insomma. Ma i due, a modo loro, si sono sempre rispettati.
«Ci siamo ispirati a vicenda nel raggiungere un alto livello di prestazioni. Senza di lui avrei seguito un’evoluzione diversa, e probabilmente lo stesso vale per lui senza di me» ha detto il primo del secondo. «È stato il mio avversario più forte: odiavo perderci, ma quando accadeva sapevo che era stato migliore di me» ha dichiarato il secondo a proposito del primo.
Qualche settimana fa il mio amico, ormai adulto e attualmente assoluto fan di Roger Federer, mi chiama e dice «Ehi, hai visto Stefan? Allena Roger!». E certamente se avessi incontrato qualche giorno dopo l’altro mio amico per strada, dopo anni dall’ultimo nostro contatto, prima di chiedermi della mia salute mi avrebbe detto «Grande Boris! Hai sentito che ora è con Đoković?».
Chissà se anche quei due bimbi, Roger e Novak, con i loro compagni negli spogliatoi, non siano stati coinvolti in qualche discussione su chi fosse più forte, Stefan Edberg o Boris Becker?
Florio Panaiotti
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