Lise Marie Morerod
La Stella della neve
La chiamavano Boubou. Un nomignolo affettuoso coniato dai quattro fratelli per descrivere quello scricciolo in cui erano concentrate forza e dolcezza. Ragazzina dal carattere schivo e i modi schietti, non aveva mai avuto aspirazioni di gloria, semplicemente era rimasta incantata da quella neve che imbiancava le montagne di fronte a casa e si rispecchiava nei suoi occhi limpidi. Al vertice era arrivata per caso, con naturalezza, come seguendo un percorso già segnato. I passi si erano succeduti uno dopo l’altro consegnandola allo splendore del trionfo. Perfino lassù, sul gradino più alto, conservava lo stesso sorriso timido di chi non è abituato al clamore e se ne starebbe volentieri in disparte. L’unico spazio in cui primeggiava era la neve, dove non era disposta a cedere il posto: nel corso delle discese folli sui ripidi pendii non ammetteva ostacoli.
L’aveva sempre avuto nello sguardo lo spettacolo delle montagne innevate, poi, a cinque anni compiuti, finalmente il regalo tanto atteso: un paio di sci per viverla a fondo quella neve, conquistarla. Doveva essere un gioco per permettere anche a lei di divertirsi con i fratelli, invece la piccola Lise Marie Morerod sconvolse le aspettative di tutta la famiglia. Cominciò a planare con l’impeto di una valanga dalle discese della stazione sciistica di Les Diablerets, a pochi passi da casa, il paesino di Ormont-Dessus dove i genitori lavoravano come agricoltori. Un talento così sorprendente da condurla appena undicenne alla carriera agonistica, sotto la guida dell’allenatore Jean-François Maison, il primo a notarla durante le competizioni amatoriali. A riprova che non è solo il sudore a conquistare i podi; a volte anche la semplice vitalità di una bambina che al traguardo non pensa ma scivola sulla neve come se avesse le ali, è sufficiente.
La vertigine delle vittorie
Sul suo capo brillava la buona stella dei predestinati, a quindici anni già si proclamava campionessa svizzera in slalom gigante battendo Marie-Thérèse Nadig vincitrice di due ori alle Olimpiadi Invernali di Sapporo nel 1972. Si presentò così agli occhi della nazione come una sorpresa inattesa, in grado di sbaragliare con facilità la concorrenza lasciandosi guidare da una velocità da brivido.
Perché la velocità era la sua unica prerogativa, non la vittoria. Giunta in Coppa del Mondo, rovinò alcune gare promettenti infischiandosene dei calcoli di classifica e rischiando il tutto per tutto in gare assurde contro se stessa quando non ce ne sarebbe stata ragione. Accumulato un vantaggio considerevole non si preoccupava di guastarlo senza motivo, seguendo l’unico irrefrenabile istinto di superare i propri limiti. Le rivali non esistevano, non le considerava, si riteneva la sola avversaria di se stessa e sfruttava ogni occasione per mettersi duramente alla prova. In questa sfida segreta risiedeva il motivo del suo successo: i campioni hanno sempre un demone nel cuore, un nemico ineliminabile, contro cui si battono quotidianamente. Forse si chiama talento, forse ambizione, chissà; è dentro di loro e lo affrontano a colpi di sfide per non esserne divorati.
Ai mondiali di St. Moritz si annunciò come la nuova speranza delle atlete elvetiche conquistando il bronzo in slalom speciale per una squadra che, altrimenti, sarebbe rimasta digiuna di medaglie. La stagione successiva, a partire dal gennaio del 1977, la vide sfrecciare inarrestabile. Con il numero trentanove stampato sulla pettorina rossocrociata fu la prima atleta svizzera a vincere la Coppa del Mondo di sci alpino. Nella schiera delle rivali c’era una certa Annemarie Moser Proell, detentrice di record leggendari, che si ritrovò a disputare la gara più insignificante della sua carriera, terminando con un distacco di oltre ottanta punti dalla Morerod. Molti difesero la Proell evidenziando il suo precoce rientro post-maternità a cui si opponeva la perfetta forma fisica della giovane svizzera. Una sconfitta così netta per mano di una ragazzina era certo difficile da sopportare, meglio credere in un semplice colpo di fortuna che, per Lise Marie, si ripeté ancora e ancora.
Il record dei trionfi si era annunciato: l’anno seguente Boubou si aggiudicò l’argento ai Mondiali di Garmisch-Partenkirchen, battuta per soli cinque centesimi di secondo da Maria Epple, nei mesi successivi continuò la sua corsa accumulando in tutto una media di ventiquattro vittorie, di cui dieci in slalom e quattordici in gigante. In poco tempo si era affermata come la miglior slalomista della sua generazione. Nel suo palmarés solo un’Olimpiade mancata, con il quarto posto ottenuto nel 1976 ai Giochi Olimpici invernali di Innsbruck. Di Olimpiadi, però, ne sarebbero seguite molte altre e Lise Marie, vent’anni compiuti da poco, credeva di avere tutto il tempo per rimediare. A vent’anni la sua vita era tutt’altro che incerta, si snodava nella direzione del futuro: un futuro fatto di neve, di pendii da percorrere con quegli sci divenuti un appoggio, il suo baricentro, il suo prolungamento. Sarebbero seguiti ancora trionfi, coppe, poi il riposo, a carriera conclusa, nella placida contemplazione dei successi passati. Era lei, Lise Marie Morerod, la sciatrice: come definirsi altrimenti? Non conosceva un altro modo per vivere, eppure avrebbe dovuto apprenderlo presto.
Lo schianto
Il tempo invertì la sua rotta: quella vecchiaia da vincitrice navigata non venne, i minuti accelerarono il loro corso con un anticipo colossale tutto concentrato in un attimo. Lo schianto che divise il prima e il dopo.
Tanto basta perché ogni certezza venga infranta, la fatica con cui è stata coltivata e i sogni che l’hanno cullata valgono ben poco quando irrompe il caso ad annullare tutto.
L’aria della sera era ancora tiepida della giornata appena trascorsa, si annunciava una serena nottata estiva quel 22 luglio 1978, niente lasciava presagire la tragedia. Eppure un mondo sarebbe crollato quella notte lasciando dietro di sé solo resti, avanzi sminuzzati che avrebbero reso irriconoscibile l’epoca del suo splendore. D’altronde le stelle muoiono a milioni ogni giorno, mentre la terra continua la sua rotazione silenziosa: quella fu la volta di Lise Marie.
Lei e il fidanzato Pierre Alain Brucker vennero estratti dalle lamiere dell’auto in condizioni disperate, in bilico tra la vita e la morte. Il corpo di Lise Marie ridotto a pezzi: il bacino e la spalla destra completamente fratturati, in parte anche la vertebra cervicale, ma il rischio peggiore appariva sotto un’altra forma. Era il violento trauma cranico subito a dare l’allarme generale.
Tre settimane nell’attesa, risucchiata dal tunnel bianco del coma farmacologico, sospesa nell’incertezza della direzione da intraprendere. Poi, d’improvviso, il ritorno alla luce.
Il dono del tempo
Lise Marie sarebbe sopravvissuta, ma la sua stella si era spenta. Bastava un’occhiata per capire: osservarla bloccata in quel letto d’ospedale incapace di reggersi in piedi, ci si trovava di fronte al fantasma della campionessa che era stata. Un tempo la sfida era contro il cronometro, adesso la vera lotta si giocava nello spazio di due passi.
Aveva una fibra forte, lei, avrebbe resistito. Il timore ora era tutto per quel futuro che le si affacciava, d’un tratto sconosciuto, scevro dei connotati familiari alla sua immaginazione. L’Olimpo l’aveva accolta fra i suoi miti ed ora la osservava da lontano, lei stessa a stento riusciva a ricordarlo, spesso confondendolo con un sogno. La commozione cerebrale aveva avuto ripercussioni serie sulla sua memoria: adesso che il futuro era possibile restava tutto un passato da ricostruire. A ventidue anni si trovava nel limbo, mentre al di fuori di quella stanza la vita continuava.
Lei provò a tornarci a quel passato, riconciliarsi con la metà perduta nel tragico schianto, dopotutto quella sulla neve era l’unica vita che conosceva. Dopo sei mesi di rieducazione motoria si ripresentò ai paletti, inconsapevole di inseguire un’ombra ormai perduta. Trascorso un anno e mezzo dall’incidente conquistò un undicesimo posto a Megeve: per amici e compagni di squadra si trattava indubbiamente di un successo, ma non per Lise Marie. Comprese che oltre quell’undici non sarebbe più salita, era inutile ingannarsi: la campionessa che era stata si era perduta. Quello schianto l’aveva spezzata.
Ad aggravare lo stato di debolezza fisica intervennero i problemi psicologici: perdita della memoria, attacchi di panico, ben presto fu costretta al ritiro. Provò a reinventarsi sotto altre spoglie, con un matrimonio e una famiglia. Voleva lasciarsi alle spalle l’incubo di una notte d’estate e l’immagine gloriosa della campionessa di un tempo, troppo imponente per reggerne il peso.
La depressione, però, la inseguiva strisciante accompagnata dalle altre gravi conseguenze dell’incidente. Il suo matrimonio fallì e lei cadde nella spirale del gioco d’azzardo, momenti che oggi ricorda con vergogna.
È una donna riscattata dagli scherzi del destino, lei, Lise Marie. Ha l’animo leggero di chi ha assistito alla propria distruzione, al naufragio di ogni certezza, ed è sopravvissuto. Vive come chi non ha futuro, o al futuro non pensa, per questo si occupa degli anziani ricoverati in un ospizio e mostra ai bambini la magia degli sci. Indica la cima della Berneuse e insegna ai suoi piccoli allievi il modo per arrivarci, per conquistare quella montagna in una discesa mozzafiato. Racconta loro del canto sommesso della neve che aveva incantato anche una bambina chiamata Boubou.
Non vuole allevare campioni, per lei non ne esistono più. Conosce fin troppo bene il tramonto che ogni stella deve scontare una volta cessato di risplendere.
Alice Figini
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Articolo intenso ed emozionante!