Derek Redmond
Father and son
Ho visto quella gara quando avevo undici anni e non l’ho capita. L’avrò riguardata centinaia di volte e ci trovo sempre qualcosa di più: un dettaglio, una parola, uno sguardo. Perché più che una corsa, è una metafora della vita e del rapporto tra un padre e un figlio condensato in pochi metri e in pochi secondi. L’unica cosa che rimane uguale è che rivedendola continuo a credere che Father and Son di Cat Stevens sarebbe la colonna sonora ideale per accompagnarla. Ma rimettiamo ordine inserendo nomi, luoghi, date. Siamo a Barcellona per l’Olimpiade del 1992: sta per partire la semifinale dei quattrocento metri piani. Ci sono otto atleti al via, ma sette di loro rimarranno oscurati nel ricordo. In quinta corsia c’è Derek Redmond e per lui quella gara è qualcosa di più di una gara. È la grande occasione di riprendersi la rivincita col destino che già una volta gli ha tolto ciò che avrebbe meritato.
L’onta di Seul
Ha iniziato a correre quando era bambino accompagnato dal padre alla pista d’atletica. Un fenomeno annunciato: falcata potente ed elegante, resistenza alla velocità, capacità di dosare lo sforzo e dedizione assoluta negli allenamenti. Uno così è conteso da tutti gli allenatori giovanili. E Derek non ha mai deluso.
Uno che a diciannove anni fa il record britannico ha qualcosa di speciale, è il volto nuovo per l’Europa che vuole sfidare gli Stati Uniti nei quattrocento metri all’Olimpiade di Seul. Derek si prepara con scrupolo: è giovane ma sa che certi treni non passano spesso. Si allena duramente e arriva in Corea con due ambizioni: la prima è di qualificarsi per la finale, la seconda è di tornare a casa con una medaglia. Non gli importa di che colore, gli basta che una gli agghindi il collo sul podio.
Cosa fa un atleta quando mancano cinque minuti alla gara più importante della carriera? Ripassa la tattica di corsa, immagina mentalmente quel giro di pista e fa un respiro profondo. Anche Redmond fa così. E cosa fa un atleta quando mancano due minuti alla gara più importante della carriera? Ripassa la tattica di corsa, immagina mentalmente quel giro di pista e fa un respiro profondo. Tutti fanno così, Redmond no. Un movimento banale, un appoggio al terreno e il tendine d’Achille cede. Senza motivo, senza preavviso, senza giustificazioni. Per un attimo, Derek non sente neanche il dolore, tanto è shockato dall’idea che non potrà neanche sentire il rumore dello starter. Poi ovviamente il dolore arriva ed è tremendo. Quando un atleta non porta a termine la corsa, sul tabellone e nelle statistiche vede il suo nome accompagnato dalla sigla DNF (“did not finish”, “non arrivato”). Per Derek è un’umiliazione.
Voglia di rivincita
È giovane, in teoria potrebbe lavare l’onta di quel ritiro prima del via ai prossimi Giochi. Quattro anni sono lunghi a passare, ma a preoccupare è quel tendine lacerato. Anche perché un velocista è abituato a chiedere a ogni muscolo, a ogni, nervo a ogni tendine di arrivare al limite: quando devi correre quattrocento metri in quarantaquattro secondi non si tratta di correre, ma di volare rasoterra. E il nostro fisico è intelligente. A volte anche troppo. Quando una parte non va, le altre cercano di sopperire con il rischio che vadano sotto stress e i problemi si moltiplichino. Derek va sotto i ferri. Una volta. Due volte. Otto per iniziare, saranno tredici in tutto. Il piede, la caviglia e la sua gamba stanno insieme come cristalli di Boemia: delicatissimi ma preziosissimi.
Quando torna a correre, lo fa per davvero. L’allenatore della squadra britannica nel 1991 si prende il rischio di metterlo nella staffetta per i mondiali. Crede in Derek: se il velocista gli ha detto che è pronto, vuol dire che è vero. È in squadra con Roger Black, John Regis e Kriss Akabusi: sulla carta è una grande staffetta. Nella pista iridata di Tōkyō diventa la staffetta della leggenda che trionfa lasciandosi alle spalle il quartetto a stelle e strisce. Derek è tornato, gli manca solo di chiudere il cerchio.
I mesi di avvicinamento a Barcellona 1992 sono feroci. Si allena senza sosta, vuole arrivare il top e chiudere i conti con il passato. Non riesce ancora ad accettare che nella sua precedente esperienza a cinque cerchi, a fianco del suo nome ci fosse quella maledetta sigla DNF. Le prove vanno bene, la marcia di avvicinamento all’Olimpiade è da manuale. La condizione cresce gradualmente e arriva al 100% nel momento più importante. I test atletici sono impeccabili: massa grassa ridotta al minimo, bioritmi ideali. E anche il cronometro dà ragione a Derek: è suo il miglior tempo tra gli atleti che si preparano ai blocchi di partenza.
La storia si ripete. O forse no
È lui il favorito, stando ai bookmakers, e il suo sguardo prima della semifinale è di chi sa ciò che vuole. Corre in corsia cinque, è quella riservata ai migliori, con un raggio di curva ideale e la possibilità di controllare facilmente gli avversari ai lati.
Parte in agilità e inizia la solita progressione. E poi? Ai centocinquanta metri sente un rumore. Assomiglia a quello di un palazzo che crolla, a uno sgretolio totale. Dopo il rumore, arriva il dolore. Lancinante. La gamba si è sbriciolata, ha ceduto di schianto. Gli altri proseguono mentre e lui è lì, fermo sul rettilineo opposto all’arrivo, inginocchiato su una gamba sola. Il volto chino tenuto a stento dalla mano che trema. L’urlo del pianto, la voglia di scomparire. Ha passato quattro anni tra sala operatoria, centri di riabilitazione, palestra e pista per cancellare quel DNF di Seul e ora sa che ritroverà la stessa sigla a seguire il suo nome. No, stavolta non può essere, non ancora una volta.
Si tira in piedi di rabbia e comincia a saltellare sulla gamba sana. Gli altri sono già arrivati, ma se chiedete a uno qualunque dei 113.000 spettatori chi sia arrivato per primo, non sa rispondervi. Stanno tutti guardando quel ragazzo che in corsia cinque continua ad andare avanti. Nonostante tutto. Azzoppato e in lacrime, ma ancora avanti. Ogni passo è più faticoso: quando sta bene quel giro di pista lo divora, ora è un calvario. Ma nulla è peggio del pensiero di non terminare. I giudici di corsa quasi amorevolmente gli chiedono di fermarsi, sanno che può peggiorare solo la situazione e si chiedono se ha senso lasciarlo alla sua sofferenza. Respinti, ignorati, allontanati con un braccio: lui va avanti. Quando giunge sul rettilineo finale è allo stremo. In quel momento un signore in evidente soprappeso entra in pista. I controlli? Superati. I richiami dei giudici? Neppure ascoltati. Raggiunge Derek ed è lo stesso uomo che vent’anni prima lo aveva portato per la prima volta su una pista d’atletica. È il papà, avevano fatto insieme la prima corsa, faranno insieme l’ultima.
Quello che segue, se non appartenesse alla cronaca sportiva, sembrerebbe tratto dalla sceneggiatura di qualche film. Il padre vede il dolore sul viso del figlio e cerca di rassicurarlo: gli vuole far capire che non sarà un fallimento neppure se desisterà. «Non c’è bisogno che tu lo faccia, Derek». Ma quando vede che il figlio fa ancora un saltello, gli prende una spalla e comincia a marciare con lui. Sono tutti in piedi sugli spalti a vedere padre e figlio, father and son (e chissà se Cat Stevens ha visto la gara…) che procedono uniti.
C’è ancora una finezza che chiude la metafora di quello che dovrebbe fare un genitore per il proprio figlio. Dopo averlo sostenuto, accompagnato, accarezzato, il padre lascia Derek a cinque metri dal traguardo. Perché quella è la sua gara, il suo sogno, la sua vita ed è giusto che l’arrivo lo raggiunga da solo. Si può essere presenti senza essere invadenti, dare pieno appoggio lasciando la libertà di vincere e perdere, cadere e rialzarsi, festeggiare e piangere. Lo riabbraccerà subito dopo la linea d’arrivo. La poesia viene solo macchiata dalla lettura della scritta sulla maglia del genitore “Hai fatto pace con il tuo piede oggi?”, con riferimento a ciò che era successo a Seul. L’ennesima conferma di come certi auguri portino un carico di sfiga sorprendente a tutte le latitudini e in tutte le occasioni.
Il video di quella gara è stato scelto dal comitato olimpico internazionale per la campagna Celebrate Humanity perché “Redmond e suo padre, nonostante il dolore e l’umiliazione, non arrivarono primi o secondi o terzi. Ma arrivarono”.
A distanza di oltre vent’anni Derek ripete che quella gara gli ha tolto tutto ma gli ha dato di più. E continua a riportare la sua esperienza in giro per il mondo come motivational speaker. Perché le medaglie passano, le statistiche si dimenticano, i risultati si confondono: solo le emozioni rimangono. E se non ci credete, provate a chiedere a uno qualunque dei 113.000 presenti quel giorno a Barcellona per chi sia valsa la pena di comprare il biglietto e alzarsi in piedi. Sul come la penso io ad anni di distanza, vi sarete già fatti un’idea.
Roberto D’Ingiullo
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