Annette Kellerman
Il tumulto dell’oceano
Durante una calda domenica d’estate del 1908 si levarono urla agghiaccianti da Revere Beach, una spiaggia nei pressi di Boston, USA. Il lieto trascorrere del pomeriggio festivo fu bruscamente interrotto dallo scompiglio generale. «Shame on you!» ( Vergogna!) strepitava la gente.
Dita puntate in segno di accusa accompagnavano i volti, quasi a voler allungare l’espressione di sdegno che ne deformava i lineamenti. I bambini intenti a giocare sulla spiaggia vennero chiamati a raccolta dai genitori, furono subito radunati attorno a loro per impedire la vista di quello spettacolo aberrante.
Eppure nessun mostro marino si profilava all’orizzonte, l’oggetto di tanto scandalo era una giovane donna distesa lungo la riva ad ammirare le onde. Attorno a lei sfilavano molte altre donne, coperte da capo a piedi dai loro abiti da bagno completi di pantaloni, ornati da colletti alla marinara e ricami floreali, tutte compunte nelle loro divise malgrado il caldo torrido. La ragazza, invece, sfidava il sole mostrando braccia e gambe nude: un costume a pezzo unico di stoffa nera la proteggeva dagli sguardi indiscreti. Oltre ad attirare l’attenzione di tutti i presenti quella mise apparve come una provocazione inaudita. Presto furono un paio di manette a porre fine alla storia. Arresto per indecenza, spiegarono i poliziotti.
La giovane, ventun anni compiuti da poco, levò sugli uomini due occhi pieni di confusione: «Io voglio nuotare» si giustificò «e non posso farlo indossando più vestiti di quanti siano necessari per una sfilata di moda. Sarebbe come nuotare in catene!»
La sua audacia l’avrebbe spinta ben oltre quella frase: una dichiarazione di indipendenza più rivoluzionaria ribolliva nel fondo delle sue parole, così prorompente da diventare contagiosa. La sua mise divenne popolare, tanto da spingerla a inaugurare una linea di moda firmata a suo nome: Annette Kellerman, il primo passo verso i moderni costumi da bagno. E continuò a provocare ancora e ancora avvalendosi del suo talento sportivo come scudo.
Sfruttò la sua affinità con l’acqua per rendere le sirene protagoniste delle pellicole cinematografiche di quegli anni. I suoi film, girati esclusivamente senza controfigura, avevano come tema avventure acquatiche. Nuotò insieme ai coccodrilli, passeggiò su un filo di ferro in bilico sopra una cascata e si immerse nelle profondità del mare. Il suo atteggiamento diede fiducia alle donne che dapprima la guardavano con invidia, poi con complicità. Sfoderò tutto il suo coraggio mostrandosi nella prima scena di nudo, in qualità di attrice ufficiale, nella pellicola Daughter of Gods, del 1916. Non esibizionismo, ma rivendicazione. La cinepresa catturò la prova di un corpo in grado di mostrarsi senza vergogna: come nuotatrice, donna e soprattutto come creatura libera capace di sfidare l’ipocrisia di mille convenzioni. Un professore di Harvard, Mr Dudley, la nominò “la donna perfetta”, trovando corrispondenze fra il suo corpo e quello della Venere di Milo. Investita di quel titolo d’onore, lei replicò di non essere perfetta, ma perfettamente in salute.
«Non voglio essere ricordata come un bel pesce» fu il suo commento.
Voleva dire alle donne di trovare il proprio talento e aguzzarlo come punto di forza, inneggiava ad una lotta temeraria che la poneva in largo anticipo sui suoi tempi.
Consegnata dal mare
Le palpitava nel petto l’abisso fondo della barriera corallina, i colori del fondale si riflettevano nella sua immaginazione quando cercava di svelare il mistero di quell’acqua in perenne tumulto. Uno spazio all’apparenza infinito, trecento volte più grande della terra, sussurrava ad Annette Kellerman la sua sfida. Lei raccontava di sentirsi più forte dopo aver affrontato la profondità del mare, le dava una sorta di inconfessabile ebbrezza lasciarsi la riva alle spalle e ritrovarsi innegabilmente sola di fronte ad una vastità ignota. «Mi sembra di restringermi sempre di più» confessò nelle sue memorie «fino a diventare una bolla minuscola e ogni volta temo di poter scoppiare. Penso che nuotare incoraggi l’umiltà dell’anima».
Annette, come i migliori esploratori, era una bambina incuriosita da quell’oceano che ululava gonfiandosi al vento per raccontarle storie sempre nuove. Un movimento incessante a ricordare che la vita stessa aveva avuto il suo principio nell’acqua: aveva mille risposte e lei altrettante domande. Non capiva, ad esempio, il perché del suo colore. Da dove veniva quel blu? Che sapore aveva la schiuma delle onde? Non di zucchero filato purtroppo, ma amaro e pregnante come il sale, questo lo scoprì col tempo.
Venne consegnata dall’acqua alla terra, come le sirene delle favole: imparò a camminare nuotando. A sei anni stava in piedi solo sostenuta da pesanti imbracature d’acciaio strette attorno alle gambe troppo gracili, non conosceva altro modo per muoversi fuorché sopportare tutto quel peso. Un dottore ipotizzò che la bambina avesse del gesso nelle ossa, ma a suo padre Frederick William Kellerman, malgrado le supposizioni scientifiche, non parve una giustificazione convincente. Non si diede per vinto e continuò a consultare medici finché gli venne concesso un brandello di speranza a cui aggrapparsi: lezioni di nuoto.
Papà Kellerman propose il nuoto alla figlia come una medicina e lei, con lo stesso sdegno che si riserva alle cure sgradevoli, la rifiutò. Annette amava l’oceano, certo, eppure era terrorizzata al pensiero di nuotare. Oltretutto temeva di dover esporre alla vista le sue gambe malate sempre protette dall’imbracatura. Si oppose, pianse, pregò, supplicò, ma ogni capriccio fu inutile. L’acqua, come il destino, le venne incontro.
La iscrissero ai corsi dei bagni Cavill’s di Sidney dove anni prima avevano imparato a nuotare i suoi fratelli e sorelle. Con la differenza che a Maurice, Fred e Marcelle quattro lezioni furono sufficienti, mentre a lei ne servirono diciotto. Presto le imbracature divennero pezzi inservibili. Compiuti i tredici anni la determinazione le permise di spezzare quell’acciaio che imprigionava i suoi piedi palmati. Da quel momento nessuna costrizione avrebbe intrappolato Annette, ormai libera e fiera, decisa più che mai a spezzare le catene del mondo.
Ritrovata libertà
Nuotare significava non avere limiti, Annette l’aveva già sperimentato quando l’acqua l’aveva liberata dal peso del ferro e sentiva questa sensazione amplificarsi ogni volta di più. A quindici anni si dedicò all’attività di nuotatrice con l’interesse quasi febbrile dell’adolescenza. Dichiarò al padre la sua intenzione di gareggiare in competizioni di alto livello e lui, in ricordo delle sue ritrosie di bambina, scoppiò in una risata fragorosa. La stessa che replicò con una nota di stupore quando la sua sirenetta vinse la gara delle cento yard donne in 1′ 2″ battendo la nota campionessa Vera Buttel. Con il moltiplicarsi dei successi lo stupore divertito di Frederick Kellerman si trasformò in una fede inossidabile nelle potenzialità della figlia. Così, mentre il resto della famiglia osservava dubbiosa la notorietà crescente della più giovane, quel violinista di mezza età seguiva con passione gare di nuoto e competizioni agonistiche. Annette non aveva alcuna intenzione di dedicarsi alla musica, malgrado il suo cammino in quel campo apparisse segnato essendo entrambi i genitori insegnanti al conservatorio. Lei voleva emergere attraverso un’attività che la rappresentasse e trovò nel nuoto, suo soccorso inaspettato, l’alternativa ad una carriera da musicista mediocre.
A conoscere la sua fama fu innanzitutto l’Australia: la Kellerman si consacrò campionessa ai campionati del New South Wales nuotando per 100 yard in un minuto e otto secondi, a cui seguì il record mondiale del miglio in trentadue minuti e ventinove secondi, anni dopo addirittura perfezionato a ventotto minuti.
Iniziò anche a nuotare sulle lunghe distanze: la sua prima performance furono le dieci miglia lungo il corso dello Yarra River a Melbourne. E per non farsi mancare nulla ingaggiò perfino una gara pubblica di tuffi con l’ormai acerrima rivale Vera Buttel ai bagni Farmers. Le sue imprese ormai non passavano inosservate e, a motivo della fama crescente, la gente incoraggiò Annette ad intraprendere la strada del professionismo. Professionismo, però, non equivaleva a medaglie e allori, ma ad un lavoro per quanto piacevole logorante, che la famiglia, specialmente la madre Alice, trovava degradante per le sue prospettive.
Per Annette, piuttosto, si trattava di una nuova sfida. In una vasca, all’interno dell’acquario di Melbourne, la giovane Kellerman nuotava tra pesci tropicali attirando gli sguardi rapiti del pubblico che assisteva ad un vero e proprio show.
Mentre la gente ammirava affascinata lo spettacolo della sua coda rivestita di glitter al di là dei vetri, lei sperimentava la sua capacità di immersione, trattenendo il fiato sott’acqua per una lunga durata. I suoi orizzonti, però, si estendevano ben al di là delle pareti di un acquario e l’instancabile Kellerman non si accontentava del ruolo di sirena modello. Continuò le sue irrefrenabili gare con l’acqua: nuotò per le due miglia e mezzo dello Yarra River in soli quarantasei minuti. Un fiume perlopiù ritenuto pericoloso per le sue correnti, ma Annette rivelava già le sue precoci doti di stunt-woman ante litteram.
Fra le varie tappe del suo itinerario era prevista perfino una nuotata nelle miniere di Broker’s Hill a temperature freddissime. Affrontata ogni prova possibile nella sua terra natale, volse lo sguardo verso nuovi territori da conquistare: nel futuro si profilava la sagoma dell’Inghilterra, con i suoi teatri, le sue possibilità.
Un successo a ritmo d’onda
Partì accompagnata dal padre Frederick. Al di là delle scogliere di Dover scoprì le maree impreviste del successo che non sempre conducono sulla cresta dell’onda. I soldi erano pochi, le stanze in affitto troppo costose e le difficoltà parevano moltiplicarsi sotto i suoi occhi. Pur di fare notizia accettò di nuotare per oltre tredici miglia lungo il Tamigi. Partita da Putney Bridge raggiunse il molo di Blackwall in tre ore e cinquantaquattro minuti.
Attraversati i liquami e la sporcizia di Londra, che trasformavano l’acqua in una sorta di olio denso, la Kellerman giunse al traguardo stremata, affamata e sporca. Ma trionfante. I giornalisti del Daily Mirror impazzirono per lei. Il suo miglior ricordo di quel giorno, però, rimase il panino al formaggio che gli fu regalato al termine della traversata. La sua fama stava per essere consacrata: fu la prima donna a tentare la traversata del canale della Manica, una sfida gloriosa che la condusse sempre al fallimento. Ritentò per tre volte l’impresa, prima di arrendersi sostenendo di «non avere abbastanza forza bruta».
Ormai nuotatrice affermata, decise di cimentarsi nello spettacolo dando inizio ad una carriera cinematografica unica nella storia. Nel 1906 approdò negli Stati Uniti illuminando Hollywood. L’originalità della sue pellicole e l’audacia delle sue performances affascinarono il grande pubblico. Anni dopo fu il cinema stesso a ricordarla nel celebre The Original Million Dollar Mermaid interpretato da Esther Williams, una sorta di biografia dell’inimitabile sirena australiana.
Fu restituita al mare all’età di ottantanove anni, al termine di una vita appagante sempre sulla cresta dell’onda. Non cessò mai di nuotare e continuò a narrare il suo amore per l’oceano perfino in una raccolta di favole per bambini, pubblicate col titolo Fairy Tales of the South Seas.
Le sue ceneri vennero sparse sulla barriera corallina che ancora le sussurra nuove sfide, il sordo richiamo di un innato piacere che l’aveva spinta verso il mare per conoscere il vero significato della vita. A ricordare il mistero di un’umanità che nuotava ancora prima di esistere e continuerà a farlo fino a quando non ci saranno più oceani in cui specchiarsi.
Alice Figini
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