Nicolò Carosio
L’uomo del quasi-goal
Sarà il caso di smentirlo una volta per tutte. E sfatare (o almeno contribuire a farlo) un luogo comune invalso da quasi mezzo secolo, e che molti tra gli sportivi italiani accettano tuttora come verità rivelata. Diciamolo: nella nottata di giovedì 11 giugno 1970, Nicolò Carosio non si sognò neanche di apostrofare il guardalinee etiope Seyoum Tarekegn con un termine dispregiativo e razzista.
Come dimostra senza possibilità di contestazione il filmato della telecronaca di Italia-Israele, la parola incriminata (negraccio, per uscir dal vago) non fu mai pronunciata dal buon Nicolò.
Insomma, siamo nel regno intrigante e surreale della leggenda urbana. Un po’ come l’«Ahi, ahi, ahi, signora Longari, lei mi cade… » di Mike, o, per rimanere allo sport, la discesa libera conclusa con un solo sci da Gustav Thöni. E se in questi due casi l’esito è stato quanto meno divertente, così non fu nei confronti di Carosio. Che da quella sera, si portò addosso (e ancor oggi, trent’anni dopo la sua morte, talvolta si porta) un’immeritata etichetta di intollerante.
Sta poi di fatto che da quella notte, pare per le proteste dell’Ambasciata Etiopica presso il nostro governo, la voce più popolare dell’intera storia radiotelevisiva italiana fu messa definitivamente in secondo piano. Sostituita per fortuna da quella di un altro grandissimo, Nando Martellini, ma questa è un’altra storia.
Si avviò così alla conclusione in modo inaspettato e tutt’altro che memorabile una carriera durata quasi quarant’anni. Una carriera che aveva accompagnato l’Italia dalla preistoria delle trasmissioni sportive alla modernità.
Un geniale innovatore
Sono le 14.30 di domenica 1 gennaio 1933. Al Littoriale di Bologna (vabbè, chi ci sia al governo lo si capisce già dal nome dello stadio), le Nazionali di Italia e Germania si affrontano in uno dei tanti episodi della loro sfida infinita. Un episodio importante, tra l’altro. Questione di prestigio tra regimi, figurarsi. Che a Roma, a perdere contro quelli che per ora sono ancora considerati barbari d’Oltralpe non ci pensano proprio. Neppure in amichevole.
In campo, nomi da mitologia dello sport, mica Bibì e Bibò. Eraldo Monzeglio, Angelo Schiavio, Raimundo Ursi. E soprattutto lui, Giuseppe Peppino Meazza, che dati i tempi che corrono viene in genere etichettato come il Balilla. Probabilmente il più grande giocatore italiano di tutti i tempi, con buona pace dei nostri fuoriclasse moderni.
Vince l’Italia di Vittorio Pozzo 3-1, e non c’è da stupirsene granché, dato che un anno e poco più dopo arriverà il nostro primo titolo Mondiale.
A bordo campo, paludato con un impermeabile beige e un borsalino nero (il tenente Ezechiele Sheridan lo avrebbe magari invidiato, ma non esisteva ancora), un giovane segaligno e dal viso inconsueto. Ovale in alto sul cranio e affilato come un cuneo in basso. Baffetti alla Clark Gable (o per chi lo ricorda, alla Zorro serie TV anni Sessanta), capelli che iniziano a diradarsi, rigorosamente imbrillantinati e tirati all’indietro. Non che lo veda nessuno, sia chiaro, a parte i tifosi bolognesi. La televisione è ancora un congegno da fantascienza, e il grosso microfono di fronte allo strano tipo è quello della radio.
A sentire i racconti di chi ha avuto la ventura di ascoltarla, quella radiocronaca di esordio ha un inizio tutt’altro che esaltante. I primi due minuti di gioco sono accompagnati da un imbarazzante silenzio. Poi il giovane, nato a Palermo il 15 marzo 1907 da madre inglese di Malta (Josy Holland, di professione pianista) e padre genovese (un funzionario di dogana sempre in giro per l’Italia), decolla.
La sua voce entra immediatamente nel cuore e nell’immaginario degli sportivi. È una voce irripetibile, come irripetibile è l’uomo. Avvolgente e calda, pur venata da frequenti toni rochi, si mantiene suadente e immaginifica per gran parte del tempo. Per divenire d’improvviso una lama di coltello. Dura, quasi sdegnosa.
Sono i momenti in cui prendono vita le famose locuzioni carosiane. Brevi incisi ed osservazioni estemporanee, permeate da un sanguigno humour popolare, che pure sottintendono a ben vedere una profonda conoscenza del football.
Retaggio, questa conoscenza, di giovanili frequentazioni dei materni ambienti britannofili. E sorretta da una viva intelligenza, che nel calcio, come nella professione di consulente legale di Nicolò (settecento lire al mese, non poche), trova un ideale terreno di applicazione.
«Mariolino [Corso], meno veroniche e più sostanza», esclamerà anni dopo, irritato dalla leziosità pur splendida del geniale mancino della Grande Inter. Connubio sontuoso tra Bar Sport e competenza tattica.
“Vi parla Nicolò Carosio!”
Un debutto con il botto, dunque, quello bolognese, dopo i botti della notte del Capodanno appena trascorsa. Sin dall’incipit, destinato a divenire un classico, un mantra che entra nel costume e nel linguaggio degli italiani per non uscirne più: l’immortale «Vi parla Nicolò Carosio…»
Non che nessuno glielo avesse regalato, il diritto a pronunciare quell’incipit. Nicolò se lo era conquistato, sarebbe quasi il caso di dire sul campo. Giusto un anno prima, agli inizi del 1932, aveva sfoderato la sua miglior faccia tosta e aveva scritto direttamente all’EIAR (la nonna di regime della RAI), proponendo l’idea, piuttosto innovativa anche se non del tutto inedita, di un commento diretto delle partite. Qualche settimana dopo, il 27 aprile, Carosio aveva ricevuto un telegramma il cui testo, giunto sino a noi, recitava: Disposti accettare sua offerta preghiamola confermare telegrafo sua venuta primo maggio Torino, rimborso lire 250 totali. Cordialità.
Nicolò racconterà anni dopo di essersi inventato su due piedi, durante il colloquio, una fantomatica partita Juventus-Bologna, e di averne descritto sino al 5-5 le immaginarie fasi. Un vizio, quello dell’invenzione, cui, a sentire i più maliziosi come il grandissimo Gianni Brera, Carosio dovette rinunciare solo per forza maggiore, con l’avvento delle telecronache (per la storia, il 24 gennaio 1954, Italia-Egitto 5-1).
Comunque fosse, un altro provino a circuito chiuso, due domeniche dopo, e il giovane entra come collaboratore esterno nell’organico EIAR, con la benedizione del Direttore Generale Rodolfo Raoul Chiodelli in persona.
Personaggio risoluto, dunque, il palermitano. E decisamente dotato di fantasia. È ancora la sua vena inventiva a soccorrerlo, quando il duce in uno dei suoi eccessi autarchici decide che sinanco le parole della perfida Albione devono sparire dall’orizzonte degli italiani. In uno sport che, come pure i sassi sanno, ha avuto i suoi natali proprio sul suolo stesso della detestata isola, i termini incriminati abbondano come i monumenti mussoliniani al Foro Italico. Ecco allora Nicolò crearsi un linguaggio cronachistico ex novo, e trasformare i goal in reti, i corner in angoli, i penalty in rigori, i cross in traversoni.
È una rivoluzione senza precedenti, con implicazioni non necessariamente negative, quella che viene operata sul medium verbale. Un capovolgimento prospettico che, salvando la ricchezza di contenuti e la godibilità dello spettacolo calcistico, lo avvicina ancor più all’immensa platea degli ascoltatori radiofonici, ponendosi sullo stesso livello lessicale.
Quarant’anni di cronache
Le cronache diventano spettacolo nello spettacolo, affinandosi ed arricchendosi di trovate ingegnose partita dopo partita. Un vero e proprio crescendo rossiniano. «Ma dove siamo? Questo è calcio da salotto», esclama di punto in bianco Nicolò impaziente. O «Punte, mezze punte e puntine da disegno», chiosa implacabile. Passando per la beffa mirabile del «Rete! Rete! Anzi no… quasi rete», sino ad un indimenticabile «Rivera, poche storie, alzarsi e camminare!», che trascende la metafora sportiva per accostarsi a quella evangelica. Un talità kumi moderno e laico, nobilitazione ammiccante e persino irriverente.
Così, forse non è neppure un azzardo ipotizzare che molti sportivi non ascoltino la cronaca di Milan-Inter, ma Nicolò Carosio fare la cronaca di Milan-Inter. Quasi la voce del palermitano potesse creare un contatto complice tra narratore e singolo narratario, e sublimare allo stesso tempo l’evento sportivo in un evento tout-court.
Personaggio risoluto. Personaggio dotato di fantasia. E uomo fortunato, Carosio. Il quale scampa a Superga appunto per mera buonasorte.
È lui stesso a raccontare quello che avviene nel maggio del 1949, il momento in cui la nazione intera piange l’immane rogo che ha incenerito il Grande Torino: «Dovevo partire con la squadra. Avevo già consegnato il passaporto alle autorità. Rinunciai all’ultimo momento, in seguito anche all’insistenza di mia moglie, per essere presente alla cresima di mio figlio. Al posto del sottoscritto salì sull’aereo Renato Tosatti, il giornalista della Gazzetta del Popolo, uno scrittore pieno di humour, padre di Giorgio. Fu lui in pratica a morire al mio posto». Destino, magari. O più probabilmente coincidenza. Di quelle che ti salvano la vita. E salvano all’Italia un virtuoso del microfono.
Così quando nel 1970 la RAI improvvidamente liquida l’uomo che nel 1938 aveva fermato Meazza all’ingresso in campo, facendogli promettere la sconfitta del Brasile nel Mondial francese (promessa mantenuta), e inventando così l’intervista in diretta, è una gloria nazionale a lasciarci.
La TV, senza Carosio, è un’altra TV. Più matura forse, ma infinitamente meno romantica.
Un quieto tramonto
Il 17 ottobre 1970, il palermitano commenta l’ultima partita della Nazionale, un’Italia-Svizzera ricordata soprattutto per un goal-capolavoro di Sandrino Mazzola. Chiude definitivamente con le reti di stato il 15 dicembre 1971, raccontando da Charleroi la sconfitta per 1-2 della Lega Italia contro l’omologa Lega Belga. Un commiato indegno dell’uomo e del giornalista, di cui pochi nei vertici della RAI intuiscono l’ingiustizia.
Nicolò, appena sessantaquattrenne, continua presso le emittenti private, e si conquista una platea di giovanissimi con la popolarissima rubrica Vi parla Nicolò Carosio…, tenuta settimanalmente sulle pagine dell’allora trionfante Topolino. Un declino dorato, ma inequivocabile. Quando muore, il 27 settembre 1987 a Milano, la sua scomparsa passa quasi sotto silenzio. Senza commemorazioni e senza troppa pubblicità.
La patria, sportiva e non, si ricorderà di nuovo di lui solo nel centenario della nascita, con un francobollo emesso nel 2007. Un riconoscimento meritato per l’uomo che ha commentato sette Mondiali degli azzurri, di cui due vittoriosi. Un riconoscimento un po’ troppo tardivo per il padre di tutti i radiotelecronisti italiani.
Danilo Francescano
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