Paolo Sollier – 2
Il coraggio delle idee
L’estate del ’75 Paolo trova una copia di Tuttosport ai piedi della Tour Eiffel, quasi un amuleto che prelude al compimento di una segreta speranza: la conferma tra i Grifoni, la Serie A. Ma la stagione 1975-76 sarà per lui un anno durissimo: da un lato la panchina a favore del neoacquisto Walter Novellino, dall’altro una popolarità senza precedenti, dovuta alla sua personalità fuori dal coro. Insomma, Paolo fa tremare l’establishment del calcio con il coraggio delle idee, e quando Gammalibri pubblica il suo volume Calci, sputi e colpi di testa sono in molti a storcere il naso.
Un libro di troppo
Che razza di calciatore è uno che non ha i piedi di Riva o Rivera ma si permette di sparare a zero su tutti – giornalisti, allenatori, presidenti? Uno che intasca milioni di lire e pretende di declinare nel calcio le sue idee sinistrorse?
Tra accuse di ipocrisia e stroncature critiche sulle maggiori testate sportive nazionali, Paolo finisce anche davanti alla Disciplinare per illecito sportivo – violazione dell’articolo 1 del regolamento, che vieta affermazioni lesive dell’immagine altrui – , ma lui non si scompone e denuncia: «È ridicolo, come tornare nel Medioevo».
Nel novembre del 1976 l’inchiesta viene archiviata; intanto, però, Calci, sputi e colpi di testa – fresco, schietto e diretto – ha svelato un altro calcio. Non quello patinato tanto caro al giornalismo sensazionalistico, ma quello vissuto sulla pelle dei calciatori, ridotti a merce di scambio, venduti a peso d’oro a loro stessa insaputa, come se la loro vita, le loro aspirazioni, non contassero nulla al di fuori del rettangolo di gioco. Sia chiaro, nell’analisi di Sollier non c’è spazio per il vittimismo, anzi Paolo denuncia il corporativismo del Sindacato Calciatori, isolato dalle altre sigle sindacali e soprattutto sordo alle lotte per le riforme che animano la società civile. Al contrario, Sollier è convinto che in un Paese in cui «l’unico vero sport di massa è fare il tifo» il calcio possa dire la sua, perché coinvolge tutti.
Così, avanza le sue proposte: stop ai presidenti-mecenati, le società calcistiche entrino nel bilancio del comune e i calciatori diventino suoi dipendenti, in modo da ridurre i loro guadagni dando loro in cambio una collocazione sociale a carriera finita. E soprattutto, si avvii un piano per la costruzione di impianti e centri sportivi tale da rendere lo sport davvero accessibile a chiunque voglia praticarlo.
Utopia pura? Forse, ma Paolo è estremamente lucido nelle sue osservazioni; scomodo, perfino. Come quando afferma che lo sport è politico, chiedendosi ossessivamente: «Se lo sport non è politico perché viene usato politicamente, proprio confinandolo in una strumentale terra neutra? Se lo sport non è politico, perché il tifo è funzionale al sistema? Se lo sport non è politico, perché è sempre servito ai preti per fare andare a messa i bambini? Se lo sport non è politico, come mai rispecchia fedelmente le scelte politiche del sistema in cui viviamo?».
Qualcuno gli propone di tentare lui la strada della politica, ma Paolo si schermisce affermando di non voler rubare qualche voto allo stadio o essere eletto per «cretinità tifosa», perché in politica occorre anzitutto essere credibili. Ai suoi compagni di movimento, però, devolve gran parte del suo compenso di calciatore, pur riconoscendo che anche Avanguardia Operaia, come il resto della sinistra italiana, sbagli a non inserire lo sport tra le sue priorità programmatiche; e arrabbiandosi con i militanti malati di fanatismo calcistico, lui che non firma neanche gli autografi perché vorrebbe che i rapporti con i tifosi fossero fondati sullo scambio e sul confronto, non sull’idolatria.
La levata di scudi
In ogni caso, davanti alle questioni sollevate da Sollier, invece di aprire un dibattito il calcio reagisce con una levata di scudi che ha il sapore di una resa dei conti. I giornalisti tacciati di faziosità nelle pagine in cui Paolo attacca la stampa “da parrocchia”, rea a suo dire di fomentare il clima avvelenato complice della violenza negli stadi, rispondono dalle loro colonne con toni sprezzanti; Ilario Castagner, di cui Sollier stigmatizza la mancanza di dialogo con i giocatori, sottolinea piccato in una lettera aperta sulla Gazzetta dello Sport come il giocatore debba la sua fama più alla sua «facile dialettica» che alle sue «virtù pedatorie».
Peccato che Paolo non abbia mai detto di essere un fuoriclasse, tutt’altro. Quando il Perugia lo cede al Rimini, se ne torna in B senza far storie e nell’ultima stagione in Romagna, quella 1978-1979, fa in tempo a conoscere Helenio Herrera, suo allenatore per un paio di mesi. Un tipo dai lunghi silenzi – più lunghi perfino di quelli di Craxi, racconterà Sollier – ma capace di riconoscere e apprezzare l’umiltà e la franchezza. Quando Paolo gli chiede un giorno di licenza in più per le vacanze di Natale, così da poter portare la sua ragazza a Parigi, Il Mago gli lascia addirittura le chiavi del suo appartamento, purché nella Ville Lumiere il giocatore trovi il tempo per un allenamento: manterrà la parola disputando una partitella con dei ragazzini ai giardini Lussemburgo.
Paolo Sollier conclude la sua carriera nella Cossatese, dove l’aveva iniziata, nel 1985, convinto che le sue idee politiche non abbiano poi potuto influenzare granché la sua storia calcistica in un mondo in cui «se vinci la Coppa dei Campioni o lo Scudetto, puoi essere anche Bin Laden: ti chiamano tutti i giorni in tv per sapere la tua opinione su qualsiasi cosa».
Oggi vive della modesta pensione dei lavoratori dell’arte e dello spettacolo e allena, quale primus inter pares, la Nazionale degli scrittori “Osvaldo Soriano” – gente come Alessandro Baricco, Darwin Pastorin, Carlo Lucarelli, D’Amico – che si propone di coniugare e diffondere i valori dello sport e della letteratura. D’altronde, nessuno scrive o gioca mai solo per sé. Almeno non Paolo Sollier, che nel momento migliore della sua carriera osservava in pochi, onesti versi:
Viene dai bar
della domenica, da cascine
di zanzare, da paesi
di bestemmie; dalle fabbriche
chiuse anche domani,
giorno di lavoro.
Viene con la faccia da cinquemila
Il popolo senza schiena.
E noi lo divertiamo
Da una finestra di tempo.
Graziana Urso
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