Lella Lombardi
La Signora delle corse
Ci sono giorni in cui il sentore del pericolo aleggia nell’aria, se ne avverte soltanto il presagio incombente, come un’elettricità impalpabile che si diffonde nel cielo prima di un temporale.
Il silenzio allora assume una connotazione ignota, perché presto verrà interrotto, resta solo da capire da quale parte colpirà il fulmine a cui seguirà il tuono. Vibra la sensazione impotente dell’attesa, via via più frustrante nella convinzione che da un momento all’altro si sprigionerà la scarica decisiva, e non la si potrà scongiurare in alcun modo.
I motori rombavano come sempre alla griglia di partenza per quel Gran Premio di Spagna, carichi di euforica aspettativa per un podio ancora tutto da stabilire che sarebbe stato giocato a breve fra le curve della pista.
L’odore acre della benzina si spargeva tutt’attorno assieme al fumo del carburante, assicurando il massimo della velocità. Ciascuno confidava fiducioso nella prestazione migliore, quella imbattibile. Avevano ben ragione ad essere speranzosi, perché sulla linea di partenza si trovavano solo i più coraggiosi quel 27 aprile 1975.
Fra quelle vetture, una March 751 bianca . Al suo interno, nascosta sotto la scura visiera del casco e camuffata da una tuta ingombrante che la uniformava agli altri partecipanti, c’era una donna: Lella Lombardi, “La giovane”, com’era solito chiamarla l’amico Arturo Merzario.
Emerson Fittipaldi, il campione del mondo uscente, dopo aver effettuato i tre giri previsti dal regolamento aveva stabilito di non continuare le prove né di prendere parte alla gara. L’insicurezza aveva fatto da padrona nei giorni precedenti quella fatidica domenica: la partecipazione dei piloti era stata a lungo discussa, messa in dubbio.
Il venerdì fu decisione quasi unanime di non prendere parte alle prove, le uniche eccezioni furono Jacky Ickx e Vittorio Brambilla, che decisero di tentare un paio di giri. La pericolosità del tracciato di Montjuic non incoraggiava neppure i più temerari. Alla vigilia della gara Fittipaldi, Lauda, Hill e Jarier effettuarono un sopralluogo a piedi della pista e l’ispezione non promise nulla di buono. Durante la riunione della GPDA annunciarono di non voler prendere parte alle prove.
La gara però si sarebbe disputata ad ogni costo: a questo proposito, gli organizzatori si mostrarono inflessibili, minacciando di far sequestrare le vetture dalla Guardia Civil per poi chiuderle all’interno dello Stadio Olimpico, utilizzato come paddock improvvisato. Se tale minaccia si fosse avverata, le auto sarebbero rimaste bloccate in Spagna per alcuni mesi: una prospettiva inaccettabile per scuderie e piloti coinvolti nell’adrenalinica avventura del campionato mondiale. Scongiurando qualsiasi minaccia, pronunciata a gran voce o semplicemente intuita, al via le vetture partirono sfrecciando: un carosello multicolore di ruote che solcavano l’asfalto inclemente. Perché lo spettacolo doveva continuare.
Mezzo punto per la storia
L’audacia non mancava, ma i buoni propositi non si rivelano mai sufficienti alla buona riuscita di un’impresa.
Poco dopo la partenza, Vittorio Brambilla, a bordo di una March, tamponò la Parnelli di Mario Andretti; le conseguenze dello scontro le subì Niki Lauda che a sua volta si schiantò contro Clay Regazzoni. Il ritiro dell’austriaco fu immediato, mentre Regazzoni si concesse soltanto una sosta al box prima di ripartire. La tensione saliva in un crescendo mano a mano che la gara proseguiva. Nel corso del primo giro si ritirò un altro pilota, Patrick Depailler, a causa di un problema alle sospensioni. Poco dopo, Wilson Fittipaldi e Arturo Merzario lo seguirono a ruota per protesta contro la situazione del tracciato.
Gli uomini percepivano l’avanzare del rischio e battevano in ritirata, in tutto ciò l’unica donna, Lella, la Giovane, proseguiva con noncuranza una gara che correva sempre più spedita verso una conclusione drammatica.
La March bianca svoltava le curve e guadagnava velocità accelerando implacabile in direzione del podio. Al quarto giro, il motore della Tyrrell di Jody Scheckter andò in fumo, seguì un’inevitabile perdita d’olio che causò incidenti a tre piloti, fra cui James Hunt che perse il controllo della vettura finendo dritto contro il guard rail. In successione si ritirarono Watson e Andretti: il primo a causa di violente vibrazioni alla vettura, il secondo per un problema alle sospensioni. Tamponamenti più o meno imprevisti misero fuori gioco Ronnie Peterson, Tom Pryce e Tony Brise. Rolf Stommelen, con la Lola-Hill, si pose in testa, mentre alle sue spalle il tragitto era costellato da ogni genere di imprevisto. I piloti arretravano uno ad uno, l’unico ad avere il controllo sembrava essere lui che gestiva le sorti della gara spiccando il volo verso la vittoria. La Lombardi continuava la sua corsa, macinando velocità, favorita dalle piccole sventure capitate agli altri, ignara del peggio che ancora doveva arrivare.
Durante il sedicesimo giro, si staccò l’alettone della vettura di Stommelen scagliando la Hill contro le barriere: l’urto fu tanto violento da far rimbalzare l’automobile al centro della pista fino a schiantarsi contro le barriere erette sul lato opposto. A questo punto, la catastrofe. La forza dello schianto fece impennare la vettura scaraventandola oltre le barriere stesse: la Hill piombò sugli spalti, cadendo come un meteorite fra la folla di spettatori.
Il bilancio finale fu di quattro vittime: Andres Ruiz Villanova, i giornalisti Mario de Roia e Antonio Font Bayarri e il commissario antincendio, Joakuin Morera. Le conseguenze furono più fortunate per Rolf Stommelen che ebbe salva la vita, ma con conseguenze irreversibili: nello scontro si ruppe entrambe le gambe.
La tragedia si era consumata, ma all’interno della pista nulla lasciava presagire la fatale entità dell’incidente e le auto si inseguivano in una sequenza di sorpassi che non lasciava mai intendere quale sarebbe stato il definitivo, proprio come se nulla fosse accaduto.
La rocambolesca corsa proseguì per altri quattro giri, rombi di motori scoppiettanti, accelerazioni, fumo, l’inevitabile susseguirsi di traguardi agognati nel tempo che scorre; mentre la vita di quattro persone si era spezzata. Al 29esimo giro la gara venne interrotta: nonostante in un lato della pista si fosse aperta la voragine dell’inferno, la coppa attendeva il suo vincitore. E fu la volta di Jochen Mass, seguito da Ickx e Reutemann.
Nel caos generale quella piccola donna a bordo di una March bianca non fece clamore: viaggiando in bilico sull’orlo del baratro aveva conquistato la sesta posizione. La gara era arrivata al 75% dalla sua conclusione, quindi a ciascun classificato fu concessa la metà del punteggio finale. A Lella Lombardi venne assegnato così mezzo punto. Un numero piccolo, eppure così grande. In quel mezzo punto è contenuta tutta la sua storia: per la prima e unica volta una donna giunse a punti disputando il mondiale di Formula Uno.
Grida a gran voce tutta la sua passione per la pista quel ½: si traduceva in una vita che l’avrebbe sempre vista pronta alla griglia di partenza, con la stessa grinta che le fece affermare in una frase divenuta celebre: «Preferisco avere un incidente che innamorarmi. Ecco quanto amo le corse.»
La figlia del droghiere
Negli anni ‘70 l’emancipazione femminile era accettata solo ad un livello apparente: una linea netta tracciava il confine preciso nelle distinzioni fra i sessi, vedendo una ragazza correre a scavezzacollo alla guida di un’auto la gente arricciava il naso. Non molti anni prima un direttore di gara aveva dichiarato «L’unico casco che una donna deve mettersi è quello del parrucchiere». All’epoca l’affermazione non destò troppo clamore, piuttosto suscitò qualche risolino, a dimostrazione di quanto ancora simili discriminazioni fossero silenziosamente condivise dalla società. Lella era ben decisa a sfatare questo falso mito, semplicemente perché glielo suggeriva una vocazione nata con lei o forse già presente in lei prima che nascesse.
Il desiderio di correre le scorreva nelle vene, era un’abitudine che, anche volendo, non poteva rinnegare. L’aveva già dimostrato nel suo paesino natio, Frugarolo, sulle colline piemontesi: gli abitanti si erano abituati a vedere il furgoncino del macellaio scendere a tutta velocità per i tornanti del colle del Turchino. Lella dava gas più che poteva, che importava se sul retro del camioncino carne e salumi sobbalzavano un poco: tanto le consegne sarebbero arrivate prima del previsto. Già ad otto anni lei aveva imparato a guidarlo quel furgoncino, d’altronde ciascun bambino subisce il fascino del lavoro dei genitori, anche lei voleva guidare come papà. Poi, qualche tempo dopo, si era fratturata il polso durante una partita di pallamano e l’avevano caricata a braccia sull’Alfa Romeo per portarla in ospedale. Sdraiata sui sedili posteriori, per la prima volta Lella ascoltava il suono del motore, quasi una voce che le parlava, e lei ne era completamente rapita: già si era scordata del dolore, delle medicazioni e del gesso che le sarebbe toccato portare. Quanto correva veloce quell’automobile sulle sue colline. Per assecondare la sua smania di velocità, a diciotto anni capì ben presto che il furgoncino del padre non le sarebbe bastato e si dedicò ai kart, il veicolo obbligato per qualsiasi pilota che si rispetti. Da lì, il salto verso le formule minori fu breve ed immediato.
Il suo primo manager fu un conoscente di Frugarolo, che la accompagnava a Morano sul Po, dove si trovava una pista per correre nelle Formula Escort. Nel 1965 gareggiò per la prima volta sul circuito di Monza; non potendo permettersi grandi vetture dovette accontentarsi di un’auto acquistata a rate -quarantadue mila lire al mese. Anche quei soldi, racimolati con parsimonia e spillati a fatica dalle sue tasche, raccontavano quanto fosse disposta a sacrificarsi per inseguire una passione. Senza dire nulla ai genitori iniziò la lunga strada della gavetta nelle formule minori, che pure le consegnò successi e soddisfazioni appaganti: nel 1970 vinse il titolo di campione italiano nella Formula 850, l’anno successivo ottenne un nuovo titolo con la Formula Ford. Mamma e papà lessero dei suoi trionfi sul giornale, piacevolmente sorpresi, si trovarono anche loro a tifare per quella figlia con tanti grilli per la testa, dai capelli corti e sbarazzini e il grande sorriso che sembrava accogliere il mondo in un lampo bianco.
Trentaquattro anni compiuti e ad ancorarla a terra erano ancora le quattro ruote.
Pigiava l’acceleratore e stringeva ben saldo il volante fra le mani, sicura che solo quello le sarebbe bastato per arrivare sempre più in alto. E infatti la Formula Uno chiamò, consegnandola all’Olimpo delle corse.
L’esordio in Formula Uno
La sua prima guida sulla pista degli eletti non le consegnò la soddisfazione sperata: il 20 luglio 1974 nel Gran Premio di Gran Bretagna. Correva sul circuito di Brands Hatch a bordo di una Brabham BT42, ma non realizzò in prova il tempo sufficiente a classificarsi sulla griglia di partenza. La sua stagione migliore sarebbe stata la seguente, al volante della March che avrebbe fatto la sua storia, la vettura con cui prese parte a dodici delle quattordici gare del mondiale. Presto però Lella dovette accorgersi di essere un personaggio scomodo nel mondo automobilistico dell’epoca. Per quanto tutti fossero gentili con lei fuori dalla pista, le fu ben chiaro che all’interno del circuito non erano ammessi sconti: i piloti si accanivano ancora di più contro di lei, appunto perché era una donna e nessuno poteva accettare di restarle alle spalle. Essere sconfitti da Lella Lombardi appariva più inammissibile agli occhi dei piloti di qualsiasi ingiustizia subita. In una conferenza stampa del 1975, Lella denunciò senza remore il clima astioso creatosi attorno a lei tanto da non lasciarle tregua; le sue parole, però, valsero a ben poco, se non a esacerbare le ostilità.
Il suo idillio con la Formula Uno non ebbe lunga durata: quando Ronnie Peterson venne abbandonato dalla Lotus, la March, Casa di Lella, decise di affidargli quella vettura. Lella capì che le sue due stagioni di gloria si erano concluse, ma non se ne mostrò risentita. Con grande classe, giunto il momento di cedere il testimone, affermò «Sono contenta, giacché ora la mia macchina la guiderà un campione.»
Anche se lungo i rettilinei di piste diverse, Lella sapeva che le sue corse non si sarebbero fermate.
La fine delle gare
Avrebbe trascorso ancora molti anni al volante, partecipando fra le varie competizioni anche alla 24 ore di Le Mans in coppia con la francese Marie-Claude Beaumont. Non parlava mai della Formula Uno, solo una volta ne accennò come di «un’esperienza di cui i piloti non amano parlare. Quando si ritorna dalla Formula Uno vuol dire che qualcosa non ha funzionato».
Combatté la delusione nell’unico modo che conosceva: continuando a correre. Riuscì a respingere l’amarezza sul fondo dove il piede batte premendo sul pedale. Lei la donna che aveva spuntato un primato che non avrebbe avuto eguali, correndo accanto a uomini del calibro di Lauda, Fittipaldi, Merzario e Hunt, perfino lungo l’insidioso circuito del Nurburgring, non si sarebbe certo lasciata intimidire dal nome che definiva la sua categoria. Creò un team che portasse il suo nome, il nome di una donna, che potesse partire dal punto in cui lei si sarebbe fermata. Perché il suo tempo sarebbe scaduto presto: da poco infatti aveva fatto ritorno il male che credeva di aver combattuto, l’assalì più feroce e aggressivo di prima.
Si riaffacciava la diagnosi spietata: cancro. Le prime avvisaglie della malattia le aveva avute nel 1986, ma era ancora così forte e dopo aver affrontato l’operazione era corsa in Spagna, con i punti ancora freschi, per disputare un’altra gara.
Il 3 marzo 1992 il male non le lasciò scampo, strappandola per sempre alle sue amate piste all’età di cinquantun anni. Da tempo continuava a ripetere agli amici più cari un unico desiderio: «Fatemi continuare a vivere nelle corse.» Proprio come le auto da lei guidate il suo nome continua a circolare nelle piste e nei racconti dei piloti che sono stati al suo fianco, tra cui i fidati Vittorio Brambilla e Arturo Merzario che non hanno dimenticato il suo sorriso schietto e i chilometri d’asfalto macinati da quella ragazza inarrestabile incapace di vivere senza le ruote sotto i piedi. Nella sfera intatta dei loro ricordi sarà Lella, la Giovane, per sempre.
Alice Figini
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