Fausto Coppi
Un uomo solo al comando
«Caro Giovanni, ti mando due corridori. Uno, il Coppi, vincerà». La segnalazione, spedita via lettera nel 1939 dal massaggiatore Biagio Cavanna a Giovanni Rossignoli della Bianchi alla vigilia di una corsa a Pavia, è l’annunciazione di un campione, anzi, del Campionissimo. Ancora oggi, sui muri di certi vecchi borghi dell’Appennino, si leggono le tracce di una passione popolare che tramutò un uomo in mito, una storia di ciclismo in metafora di un Paese: tanto valsero le vicende di Fausto Coppi. Una vita come un romanzo: le prime pedalate, la guerra, i trionfi, l’adulterio, la malaria. Cadute e risalite, lungo la china di un’Italia da ricostruire.
Fausto nasce il 15 settembre 1919 a Castellania, in provincia di Alessandria, in una famiglia di braccianti. Lavorando a Novi Ligure come garzone di una salumeria, incontra Cavanna, già allenatore di Costante Girardengo e Learco Guerra, che lo inizia al ciclismo. In verità, il primo ad intuire le potenzialità sportive di questo ragazzo mingherlino quanto tenace, pronto a percorrere tutti i giorni quaranta chilometri in bicicletta su e giù per le colline piemontesi, è l’omonimo zio, che convince il padre Domenico a lasciarlo gareggiare.
Fausto fa di un hobby un mestiere, dividendosi tra la scuola di Cavanna e gli allenamenti sui rulli nel sottoscala di casa durante i mesi invernali. Dopo l’esordio professionistico sul circuito della Boffalora nel 1937 e la prima vittoria a Castelletto d’Orba, diventa il gregario di Gino Bartali alla Legnano, debuttando al Giro d’Italia del 1940. Fausto deve accontentarsi del ruolo di comprimario, fino a quando la sorte non gli porge su un piatto d’argento l’occasione della vita: una caduta di Bartali nelle seconda tappa della competizione è l’inizio della sua leggenda.
Inarrestabile salita
Libero di osare, Coppi affronta senza timori reverenziali i centottantaquattro chilometri della Firenze-Modena; rimonta il toscanino Ezio Cecchi, in fuga sulle Piastre, e si arrampica sull’Abetone, pedalando al ritmo della pioggia mista a grandine, che scandisce la corsa fino all’arrivo nella città emiliana. Acclamato da una folla che ne ignora ancora il nome, Fausto taglia il traguardo con 3’45’’ su Olimpio Bizzi e Bartali, conquistando la maglia rosa; pochi giorni dopo a Milano vince il suo primo Giro. È il 9 giugno 1940 e l’indomani i giornali celebrano la sua impresa come una «testimonianza della gagliardia e della serenità della patria in armi»: nelle stesse ore l’Italia entra in guerra.
Anche Coppi è in odor di reclutamento militare, ma tenta la scappatoia del record dell’ora, sperando in tal modo di sottrarsi al fronte. Lo centra il 7 novembre 1942 in un Velodromo Vigorelli appena bombardato, su una bicicletta sbilenca in sella alla quale percorre 45,871 Km. Non basta. C’è un’ora segnata dal destino anche per Fausto, spedito in Africa al seguito della Divisione Ravenna e poi fatto prigioniero dagli inglesi: tornerà in Italia dopo la Liberazione, correndo per la S.S. Lazio nell’estate del 1945 per unirsi alla Bianchi nel 1946.
Sono gli anni della riorganizzazione di un Paese che rialza la testa, ritrovando nella luce aurorale del dopoguerra le sue energie più sane. Gli italiani vogliono ricominciare a sognare, non i sogni di carta della propaganda fascista, ma quelli che affondano nei valori della neonata costituzione repubblicana: libertà – lavoro – solidarietà. Coppi che vola come un airone ma ha il volto solcato dalla fatica, che gonfia le tasche di denaro ma divide i soldi guadagnati con i gregari, è il simbolo di questa nuova Italia; la sua aria schiva e riservata, misurata anche dopo una vittoria, è l’immagine di un popolo che conosce il dolore anche quando gioisce, alzando le mani al cielo con discrezione.
Insieme alla Bianchi, Fausto colleziona un successo dietro l’altro, a partire dalla Milano-Sanremo del 1946, vinta con una fuga di centocinquanta Km e un distacco di quattordici minuti che permette alla radio di trasmettere musica da ballo nell’attesa del secondo classificato, Lucien Teisseire. Ma è difficile stabilire quale fu l’impresa delle imprese di Fausto Coppi: più entusiasmante l’attacco sul Ghisallo nel Giro di Lombardia del 1948, quando Fausto straccia il record della salita suggellato da una solitaria di ottantaquattro chilometri o la fuga sulla Cuneo-Pinerolo che lo consacra vincitore nel Giro del 1949? La crono Colmar-Nancy, in cui s’invola verso la vittoria del Tour de France dello stesso anno dopo gli insulti agli italiani sui Pirenei, o il mondiale del 1953, che conquista sul circuito di Lugano facendo terra bruciata degli avversari?
Forse a denotare la grandezza di Fausto non può essere un singolo trionfo, quanto piuttosto la rivoluzione silenziosa che il fuoriclasse di Castellania introdusse nel ciclismo italiano: allenamenti scientifici, alimentazione monitorata, in una parola modernità, in un ambiente ancora grezzo sul piano della preparazione atletica. Senza questo certosino lavoro in retrovia, l’agilità muscolare e la straordinaria capacità polmonare (sei litri e mezzo) di cui era dotato non gli sarebbero bastate per tenere in piedi le sue ossa di cristallo, pronte a cedere al primo sforzo.
La carriera di Fausto fu anche una carriera di infortuni: le fratture della clavicola destra, della scapola e del femore sinistro, la lesione del legamento del ginocchio sinistro e l’incrinatura della scatola cranica, l’ematoma alla colonna vertebrale. Incidenti di percorso che testimoniano una vulnerabilità tutta umana dentro la cornice dell’eroe. Anche per questo tanti preferirono Coppi a Bartali, quando la rivalità sportiva tra i due esplose spaccando il Paese come il duello politico tra comunisti e democristiani: Fausto il laico, Gino il mistico, Fausto che si affida alle proprie gambe, Gino che crede nella Provvidenza, entrambi figli del popolo ma dall’animo operaio l’uno, contadino l’altro.
L’“ossessione nazionale italiana”, secondo una recente definizione del New York Times, comincia già nel Giro del 1940, quando a un Fausto sfinito dai crampi sul Pordoi, Ginettaccio getta un pugno di neve in fronte gridando nel suo proverbiale toscano: «Sei solo un acquaiolo!». L’uomo da nulla lo brucia sei anni dopo nella tappa dolomitica di Falzarego, poi una squalifica nel 1948 per comportamento antisportivo al mondiale di Valkenburg – dove invece di collaborare si controllano a vicenda – ferma entrambi per un mese. Insieme, Coppi e Bartali vincono otto Giri, quattro Tour, sette Milano-Sanremo: un braccio di ferro prolifico, mai sfociato nell’antipatia personale, come dimostra la storica fotografia del passaggio della bottiglietta d’acqua sul Galibier nel 1952.
Quell’anno, con la morte nel cuore per la scomparsa del fratello Serse (vittima di una caduta al Giro del Piemonte del 1951) Coppi sigla la seconda accoppiata Giro-Tour della carriera, dopo quella del 1949. In maglia gialla, va in fuga nella tappa dell’Alpe d’Huez, poi vince a Pau e sul Puy de Dome, arrivando a Parigi con 28’17” di vantaggio sul belga Stan Ockers. Conquista persino i francesi, che lo adottano ribattezzandolo Fostò. Ma una bufera sta per abbattersi sul Campionissimo.
La “dama bianca”
Nel 1953 le cronache rosa rivelano la sua relazione extraconiugale con Giulia Occhini, già sposata al medico Enrico Locatelli: è scandalo. L’Italia perbenista mette all’indice la storia tra i due, che incorrono anche nella pubblica scomunica di Papa Pio XII. Alle parole seguono i fatti, e quando il marito di lei denuncia l’adulterio la coppia viene processata e condannata ad alcuni mesi di detenzione, con sospensione condizionale della pena. Ma per la dama bianca Fausto sprezza leggi e convenzioni, sposandola in Messico e mettendo al mondo un figlio, Angelo Fausto, che nasce nel 1955 in Argentina per ragioni giuridiche.
Così, tra l’amarezza di non poter vivere l’idillio familiare alla luce del sole e le crepe di un fisico minato dall’avanzare degli anni, Coppi si avvia sul viale del tramonto, che lo coglie come una pugnalata alla schiena proprio mentre si prepara ad essere il capitano della San Pellegrino diretta da Bartali. Nel corso di una gara in Burkina Faso, nel dicembre del 1959, Fausto contrae la malaria. A nulla servono il rientro in Italia, le cure, la lotta disperata contro il destino: l’uomo solo al comando, come lo aveva definito il radiocronista Mario Ferretti, muore il 2 gennaio 1960, a soli quarant’anni, lasciando al Paese il ricordo delle sue vittorie (centoventidue) e della sua tragedia. Una sintesi, forse la più rappresentativa, di quell’Italia povera ma bella.
Graziana Urso
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