Henri Leconte
Il tennis come arte
Musica per le orecchie degli intenditori più scaltri e millesimati. I primissimi passi di Henri Leconte da tennista potevano davvero essere paragonati a qualcosa di melodioso e piacevole, come uno spartito musicale che prevede da un momento all’altro il compimento di un capolavoro assoluto. Da ragazzino il giovane tennista nato a Lillers – un piccolo comune di circa diecimila anime nel nord della Francia – il 4 luglio 1963, aveva incantato tutti. Già allora, infatti, incarnava un tennis elegante e poetico, romantico ma anche tremendamente efficace. A 18 anni aveva vinto il titolo junior del Roland Garros, annichilendo gli avversari e strappando applausi a scena aperta. Il suo mancino sapeva alternare colpi di classe purissima a frustate potenti e precise da fondocampo. E il suo eccellente rovescio a una mano completava un quadro entusiasmante per gli addetti ai lavori. Purtroppo, in seguito, il capolavoro Leconte non si riuscì a concretizzarsi completamente, ma la musica era ugualmente degna di essere ricordata e riascoltata.
Raramente il tennis ha espresso un talento così cristallino ma al tempo stesso sovversivo: Leconte amava regalare spettacolo, cercando sempre e comunque il colpo o il tocco più difficile. Non possedeva, purtroppo, quell’acume tattico che gli avrebbe consentito di vincere tantissimo. Henri ha spesso perso gare e tornei proprio per quella sua voglia di stupire sempre, in ogni situazione. Ma guai a dire che era un narcisista, niente di più falso. Bastava guardarlo per capire, il ragazzo aveva negli occhi quel fuoco sacro dei geni incompresi. All’inizio della carriera si dimostrò subito competitivo sulla terra battuta e colse grandi soddisfazioni nel doppio, vincendo svariati tornei di buon livello. Col connazionale ed amico Yannick Noah vinse addirittura il Roland Garros del 1984, mentre nel 1985 arrivò in finale all’US Open. Quella volta i due campioni francesi dovettero però alzare bandiera bianca al cospetto di Robert Seguso e Ken Flach. In totale Leconte farà cifra tonda per quanto riguarda le vittorie in doppio (dieci, ricordiamo Nizza e Indian Wells con Guy Forget). Nei singolari si fermerà a nove titoli, ma senza girarci troppo intorno mancherà l’affermazione più importante, quella in un torneo del Grande Slam. Dimostrò di certo un’innegabile versatilità, vincendo un po’ dappertutto. Cinque dei suoi successi arrivarono nell’amata terra battuta; Stoccarda (in finale sconfisse l’americano Gene Mayer 7-6, 6-0, 1-6, 6-1), Ginevra (7-5, 6-3 al connazionale Thierry Tulasne), Amburgo e due volte Nizza (trionfi agevoli su Victor Pecci e Jérôme Potier).
Erba felice a Sidney (6-7, 6-2, 6-3 al neo zelandese Kelly Evernden) e Halle (Andrij Medvedev KO per 6-2, 6-3), mentre nel cemento si prese la grande soddisfazione di battere a domicilio quel pessimo cliente di Mats Wilander (a Stoccolma, in Svezia, 7-6, 6-3). Il sogno del Roland Garros rimase tale per tutta la carriera, con quei colpi da maestro da far spellare le mani alternati dalla solita “sporca dozzina” di passaggi a vuoto. Un giornalista francese quantificò in circa dodici minuti quel maledetto arco di tempo in cui durante i match Leconte sistematicamente si «addormentava in campo. Una sorta di torpore o dormiveglia, ma sempre col sorriso stampato in faccia, in cui sembrava trasfigurarsi in un bambino che giocava per la prima volta a tennis e che si divertiva sbagliando».
Mancanza di concentrazione, errori da dilettante nei momenti cruciali ma anche tanti guai fisici e una certa idiosincrasia verso gli allenamenti specifici: è tutta qui la verità? Leconte talvolta era sovrappeso ed ebbe problemi alla schiena e al ginocchio sinistro, che lo costrinsero a bruschi e inattesi stop. Quando gli ingranaggi giravano, però, in pochi riuscivano a contenerlo. Nel 1985, a ventidue anni, Leconte umiliò Ivan Lendl sull’erba londinese di Wimbledon (arrivò fino ai quarti di finale) e conquistò la finalissima del Roland Garros nel 1988. Si ritrovò di fronte, purtroppo, il monumentale Wilander, per giunta all’apice della sua parabola tennistica: Henri perse 7-5, 6-2, 6-1. Nel corso dei vari tornei per il mondo, comunque, Leconte ha spesso sconfitto assi del calibro di Bjorn Borg, lo stesso Mats Wilander, Yannick Noah, Pat Cash e Bum Bum Becker: mai vittorie casuali, sia ben chiaro. Proprio le parole del tedesco Becker (sei vittorie dello Slam, tre delle quali a Wimbledon) sono lo slogan più efficace per definire il nostro pittoresco francese:«Henri Leconte è un tennista fenomenale! Ha colpi sensazionali, mi ha fatto sentire come un raccattapalle!».
Leconte cambiò tantissimi allenatori nel corso della sua carriera. Con qualcuno litigò, con altri il rapporto era talmente amichevole al punto che la sera i due uscivano insieme a divertirsi. Tutti, comunque, erano d’accordo su un punto fermo: Henri forse era difficile da gestire, ma certamente era un campione vero! Le sue incredibili distrazioni durante i match gli costavano carissimo, al punto da non saper se piangere o ridere: poi tirava fuori dal cilindro autentiche magie, da fondo campo trovava angoli impensabili per spiazzare i rivali con soluzioni potenti o vellutate. Con la nazionale transalpina, al crepuscolo del 1991, Leconte fu essenziale nella vittoria della prestigiosissima Coppa Davis. La Francia si trovava di fronte, nella finalissima di Lione, gli Stati Uniti di Andre Agassi e Pete Sampras. Ovviamente il favore era dalla parte degli americani, ma Henri era in stato di grazia. Gli Stati Uniti erano già in vantaggio dopo il primo singolare, così l’incontro Leconte-Sampras era già fondamentale: Henri si aggiudicò la contesa con un eloquente 6-4, 7-5, 6-4 esprimendo un tennis favoloso e finalmente incisivo: fu il match perfetto, il migliore della sua vita. Nel doppio, in coppia con Forget, Leconte regalò il punto del 2-1 alla Francia: in quattro set gli americani Flach e Seguso alzarono bandiera bianca(6-1, 6-4, 4-6, 6-2). La finale si chiuse 3-1 per la Francia: la settima Coppa Davis in bacheca era merito soprattutto del geniale, e per una volta non lunatico, Henri Leconte!
Nonostante le prestazioni perennemente altalenanti, il francese riuscì a restare per più di un anno, il 1986, fra i top ten del mondo; il 22 settembre era addirittura numero 5, avendo raggiunto le semifinali a Wimbledon e i quarti di finale all’US Open. Tuttavia, sono numeri e statistiche che stridono con quelle sue potenzialità inespresse ma che, da sole, non vincono partite e tornei. Leconte, che si è ritirato nel 1996, ha imparato a dribblare nel tempo i giornalisti e soprattutto quell’unica, immancabile domanda che tutti gli rivolgevano sempre: cosa davvero ti è mancato per entrare nell’olimpo dei tennisti? Lui si è sempre limitato ad un gesto educato e cordiale, gesticolando con le mani e facendo capire che prima o poi risponderà. Ora è troppo impegnato, ad esempio nel circuito ATP Champions Tour dove continua a dare spettacolo con colpi che non conoscono l’usura del tempo. E poi deve godersi la vita e i soldi guadagnati: alcune passioni sono nate dopo i quarant’anni, come quelle di viaggiare o l’attrazione per qualsiasi espressione artistica. Certo, la musica ma anche la pittura rinascimentale e la scultura. Non c’è da stupirsi, visto che Henri Leconte ha sempre amato l’arte, quando giocava a tennis la racchetta per lui era un pennello o un violino. Creare è sempre stato il suo verbo preferito.
Lucio Iaccarino
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