Franco Menichelli

Franco Menichelli

Franco Menichelli

 

L’imperatore del Giappone

È la sera del 26 ottobre 1968, un sabato. All’Auditorio Nacional di Città del Messico stanno per concludersi le gare di ginnastica con la prova individuale maschile del corpo libero. Il ventisettenne Franco Menichelli, oro a Tōkyō quattro anni prima in quella stessa specialità, sta per terminare il suo esercizio. Gli resta da fare solo la diagonale d’uscita e poi sperare di ottenere un buon punteggio che gli spalanchi le porte alla finale.

La prova, fino a quel punto, sta andando meglio del previsto. Il ragazzo romano, infatti, a quell’Olimpiade non avrebbe voluto e, con il senno di poi, dovuto partecipare. In allenamento si è infatti procurato un’infiammazione al tendine d’Achille. Una cosa seria, tanto che solo dietro l’insistenza dei dirigenti e dei compagni di squadra l’azzurro si rassegna a partire nel tentativo a quel punto decisamente improbabile di difendere l’alloro olimpico di Tōkyō.

Una carriera spezzata

Ma, giunto in Messico, Franco non riesce nemmeno a poggiare il piede a terra. Il fisioterapista pensa che, se proprio deve gareggiare, dovrà evitare di assumere antidolorifici. Il motivo è chiaro: non sentendo il dolore durante l’esercizio l’azzurro potrebbe addirittura romperselo, il suo tendine.

Una previsione che, nonostante tutto, si avvera lo stesso. Durante la prova, Menichelli cerca di caricare il più possibile il peso del corpo sulla gamba sana. Al termine dell’ultimo salto, però, il dramma. Un urlo lancinante scuote l’Auditorio. In un attimo è chiaro a tutti che in quel momento la carriera del campione in carica è finita. Troppo forte è il suo grido di dolore. Troppo marcata è la sua smorfia di sofferenza. Troppo copiose sono le sue lacrime.

Anche Franco s’accorge immediatamente che da quel momento dovrà dire addio alle gare. «[Dentro] risuonava una voce che mi diceva: la ginnastica è finita per te» confessò infatti anni dopo. E lo sa anche la moglie Gabriella, anche lei ginnasta, mentre lo accompagna fuori dall’arena. La carriera che termina quel sabato d’ottobre è stata comunque magnifica, piena di molte vittorie importanti: è la carriera del miglior ginnasta italiano di tutti i tempi.

Tutto comincia nel 1953, quando Franco ha solo dodici anni, nella palestra del CSI di Lungo Tevere. Qui il ragazzino s’innamora in un batter d’occhio di volteggi, salti mortali, capriole, ribaltate, maniglie, cavalli, parallele, anelli. In poco tempo l’odore acre di sudore, la polvere, gli attrezzi, la magnesia, i consigli e gli scherzi dei più grandi diventano per lui qualcosa di irrinunciabile, tanto che frequenta la palestra ogni momento che ha libero da scuola.

A insegnargli il mestiere c’è un allenatore che «aveva dieci anni di vantaggio su tutti gli altri». Il suo nome è Gian Luigi Ulisse, un tecnico che, da sempre, vuole dare una decisa sterzata alla ginnastica italiana. Ulisse vuole rompere i vecchi schemi, guarda in avanti, cerca nuovi spazi, studia le tecniche di allenamento dei ginnasti dell’est. È, in altre parole, all’avanguardia.

 

Menichelli al corpo libero (© Sportcaster)

Menichelli al corpo libero (© Sportcaster)

 

Così quando gli capita questo ragazzino pieno di talento, Ulisse pensa probabilmente che un tale dono del destino non può permettersi di sprecarlo. Il tecnico insegna, discute, litiga e si riappacifica quasi ogni giorno con quell’adolescente che via via si plasma come creta nelle sue mani. Nel frattempo atleta e allenatore trovano ospitalità nella più attrezzata palestra dello stadio Torino (in seguito ribattezzato Flaminio). Ogni giorno Franco si allena fino a mezzanotte, quando passa l’ultimo tram che lo riporta a casa.

Poi arrivano le prime gare e, con esse, i primi successi, finché, a diciassette anni, è convocato in Nazionale, sotto la guida dell’elvetico Jack Gunthard che ha il compito di costruire un gruppo competitivo per l’Olimpiade romana. Dei suoi insegnamenti, moderni e razionali, traggono beneficio Menichelli e altri ragazzi come Giovanni e Pasquale Carminucci, Orlando Polmonari, Angelo Vicardi e Gianfranco Marzolla. Tutti atleti che, un tempo sconosciuti, diventano in pochi mesi possibili outsider nella competizione a cinque cerchi.

E così è. A Roma, il 7 settembre 1960 il medagliere azzurro della ginnastica, a secco dall’Olimpiade di Los Angeles del 1932, torna finalmente a riempirsi. In quel mercoledì di fine estate Giovanni Carminucci vince infatti l’argento alle parallele, mentre Franco Menichelli si aggiudica il bronzo al corpo libero. Uno score completato dal terzo posto assoluto della squadra.

Le due medaglie romane fanno capire al ragazzo che può diventare un vero campione. L’obbiettivo della vita non può che essere l’oro a Tōkyō, nel 1964, proprio in casa dei giapponesi che in quell’epoca appaiono invincibili. Un sogno quasi ai limiti dell’impossibile, ma ormai nella vita di Franco c’è solo la ginnastica che, per lui, «è un modo di pensare, una filosofia e un progetto».

La lezione di Ulisse è ormai consolidata. Nel quadriennio che precede l’Olimpiade asiatica l’azzurro studia per sé una trasformazione tecnica, estetica e interpretativa. Rompe gli schemi, è anticonformista: gareggia con i pantaloni corti e fa l’entrata negli attrezzi di traverso. Esegue esercizi che trasmettono al pubblico e ai giudici leggerezza, disinvoltura e libertà. Vince un po’ in tutte le competizioni: nel corpo libero è campione europeo nel 1961, in Lussemburgo, nel 1963 a Belgrado, ed è bronzo ai Mondiali di Praga del 1962.

Il trionfo di Tōkyō

E, finalmente, arriva Tōkyō. Giovedì 22 ottobre va in scena il Menichelli-day. Nel corpo libero Franco è l’ultimo a esibirsi. Per superare il giapponese Yukio Endo e il sovietico Victor Lisitsky deve fare un punteggio di almeno 9,75. Concentrato e determinato, il campione non commette errori, non ha incertezze, non mostra sbavature. Il pubblico di casa segue senza fiato una prova che si conclude in maniera impeccabile. L’applauso del Metropolitan Gymnasium è sportivo e scrosciante. E sportiva è anche la giuria che, nonostante annoveri un sovietico, un giapponese e un australiano con la fama di anti-italiano, non può che concedergli un 9,80 che vale l’oro. Il trionfo è completato poco dopo, dall’argento agli anelli, dietro Takuji Hayata, e dal bronzo alle parallele, preceduto da Haruhiro Yamashita e Shuji Tsurumi. Almeno per quel giorno Franco Menichelli è il vero Imperatore del Giappone.

le medaglie di Menichelli

le medaglie di Menichelli

 

Da lì la sua carriera continuerà in modo brillante fino all’incidente di Città del Messico (in realtà farà ancora una gara nel 1972), vincendo un gran numero di medaglie in ogni tipo di competizione. Una carriera importante che gli frutta grandi soddisfazioni, ma non certo benefici economici.

«I soldi? Quelli non sono mai arrivati e non li ho mai neanche cercati. Altrimenti avrei giocato a calcio, come mio fratello Giampaolo [ottimo calciatore della Juventus e della Nazionale negli anni Sessanta, ndr]. Però mi sono sempre divertito a fare ginnastica. E forse essere pagati per una cosa che diverte e che dà gioia, quasi quasi non è neanche giusto».
Parole di Franco Menichelli, un vero campione. Anche nella vita.

Marco Della Croce
© Riproduzione Riservata

 

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