La Bosnia Erzegovina ai Mondiali
Un gol pieno di speranza – Editoriale
Non è bastata una guerra, terribile, spaventosa, la stessa che in cinque anni è riuscita a distruggere il progetto di convivenza del Maresciallo Tito.
Non sono servite le centinaia di migliaia di morti, di feriti, di sfollati. Di donne stuprate, torturate, annichilite. Di soldati mai più tornati a casa, persi per sempre nel fango delle trincee. Di invalidi nel fisico e nella mente, senza più progetti e senza più un futuro. Di case, palazzi, scuole e ospedali distrutti, polverizzati, dati alle fiamme.
Non è stato sufficiente l’odio etnico, nazionalistico e religioso profuso a piene mani da politici e religiosi malvagi, gente con gli occhi di ghiaccio e il deserto nel cuore, che un giorno hanno deciso che l’amico di sempre si era trasformato in un nemico da abbattere.
Nemmeno l’orrenda strage di Srebrenica, il più efferato e truculento eccidio mai avvenuto in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, è riuscita nel suo sinistro intento.
A dispetto di un progetto crudele che il fato o gli dèi hanno tracciato per la Bosnia Erzegovina, un paese dalla bellezza struggente e da un’umanità dai modi antichi e gentili, la resistenza da parte della gente alla divisione delle proprie anime, dei propri corpi e delle proprie terre è sempre più forte. Con buona pace dei politicanti di Sarajevo – e della sordità ottusa della Comunità Europea –, che non vorrebbero cittadini, ma sudditi a cui imporre confini immaginari e immaginati solo dalle loro menti disturbate.
Sì, è vero, ancora oggi il dolore, per questi uomini e per queste donne, è un compagno di viaggio quotidiano, qualcosa di cui non è possibile disfarsi. È come un abito che veste questo popolo fiero e sfortunato come una seconda pelle. Chi viene da fuori lo legge facilmente nei loro occhi, lo ascolta nelle loro parole, lo avverte perfino nei loro sorrisi.
Questo dolore, però, non è riuscito a piegarli. Nemmeno un po’.
Oggi, 15 giugno 2014, tutti i bosniaci veri, quelli che non hanno abdicato la loro umanità – e sono la maggioranza –, saranno davanti al televisore, in silenzio, con gli occhi lucidi, col cuore a mille, ad ascoltare un inno ancora senza parole, a salutare l’esordio della loro Nazionale nel tempio del calcio mondiale. Una Nazionale dove bosgnacchi, serbi e croati indossano la stessa maglia e perseguono il medesimo obbiettivo.
Questo – e solo questo – è l’unico esercito che la gente di qui è ancora disposta ad amare e a seguire. Lo stesso che, al calcio d’inizio contro i biancocelesti argentini – gente che di regimi infami se ne intende –, andrà all’assalto dell’unico risultato che in questa Coppa del Mondo brasiliana conta veramente per loro.
Quello di un futuro di pace, nuovamente insieme, magari cullando l’idea di una nuova, grande Jugoslavia.
Se non sulla carta, almeno dentro il cuore.
Marco Della Croce
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