Gli Abbagnale
Fratelloni d’Italia: Giuseppe racconta
In Italia è ben difficile che uno sport si identifichi in maniera quasi completa con un solo nome. Specialmente poi se lo sport in questione può vantare una gloria più che centenaria, un’aristocrazia di decine di campioni e una parterre de rois di autentici fuoriclasse da leggenda, come è il caso del canottaggio azzurro. Eppure dici canottaggio e pensi Abbagnale: addirittura non un singolo atleta, ma un’intera famiglia.
Giuseppe, Carmine ed Agostino hanno davvero segnato un’epoca, dominando per anni e anni la scena mondiale. I tre ragazzi di Castellammare di Stabia hanno saputo portare al nostro paese cinque indimenticabili medaglie d’oro e una d’argento in cinque Olimpiadi diverse, oltre a nove titoli mondiali (tanto per citare solo una parte dei loro infiniti trionfi). Un bottino che sarebbe stato ancora più grosso, se la sfortuna, sotto forma di malanni fisici, e un’incomprensibile decisione del CIO non ci avessero messo lo zampino.
«E pensare che gli inizi non sono stati per niente facili» racconta a Storie di Sport Giuseppe, il primo della dinastia, nato nel 1959 in un ambiente sano ed austero, ancora regolato dall’avvicendarsi delle stagioni e dal faticoso lavoro nei campi. «Lo sport per me è sempre stato un desiderio innato. In realtà la mia prima passione è stata il calcio, ma la mia famiglia all’epoca di sport ne masticava molto poco. Per questo solo quando è arrivata la proposta dello zio Giuseppe La Mura (che aveva iniziato la carriera di allenatore al Circolo Nautico Stabia) e la sua promessa di venirmi a prendere e di riportarmi a casa dopo ogni allenamento i miei genitori hanno dato l’assenso. Carmine, più giovane di me di circa tre anni, quando ha cominciato, tre anni dopo, è stato facilitato perché aveva la strada già tracciata».
Seul 1988
Se deve riandare ad uno dei momenti più esaltanti di una parabola favolosa, Giuseppe ripensa a Seul 1988: «Credo veramente che sia stata l’apoteosi della nostra carriera sportiva. Non solo per la seconda vittoria olimpica, ma per il fatto di vedere un’intera famiglia partecipare ad un evento così grande e tornare a casa con una medaglia d’oro al collo di ognuno dei componenti. Per me è stato un susseguirsi di emozioni, il passare dalla gioia immensa per aver conquistato un’agognata medaglia olimpica, al trepidare pochissimi minuti dopo per le sorti di mio fratello Agostino che si accingeva a disputare la durissima finale del quattro di coppia. E poi vivere la durata della sua gara come se fossi ancora lì in acqua a soffrire, il volerlo inconsciamente aiutare in qualche modo, e il ritrovarmi alla fine ad esultare come se avessi rivinto nell’arco di un’ora un’altra medaglia d’oro… Difficile spiegarlo a parole, ma mi sono sentito veramente una persona fortunata. Credo che anche per questo nell’immaginario dei tifosi siano rimasti dei bei ricordi». E in effetti, nel nostro paese le due imprese furono celebrate con un entusiasmo con pochi precedenti. La Gazzetta dello Sport del 26 settembre 1988, ad esempio, titolò con un meraviglioso e a suo modo storico Siamo un popolo di Abbagnale.
Che i Fratelloni d’Italia siano non solo leggende dello sport, ma uomini con un animo ancor più grande della loro statura atletica, lo si è visto in mille occasioni. In proposito c’è un aneddoto, minimo, ma ricco di significato, perché riguarda uno dei momenti sportivamente più difficili vissuti da Giuseppe e Carmine. Olimpiade di Barcellona, Lago di Banyoles, ai piedi dei Pirenei, pochi minuti dopo le 10 del 2 agosto 1992. Nella torrida estate catalana, al termine di una gara di testa e di un entusiasmante, combattutissimo rush finale con l’equipaggio inglese dei fratelli Jonathan e Greg Searle, condotto sino a pochissimo dal traguardo, i Fratelloni hanno appena perso l’oro per l’inezia di 115 centesimi. Un epilogo crudele, una delusione senza confini, che solo più tardi riusciranno a mitigare con la realtà di una pur sempre splendida medaglia d’argento. L’armo degli Abbagnale si avvicina alla sponda del bacino, dove un gruppetto di una quindicina di tifosi italiani raggruppati intorno ad un grosso tricolore sta scandendo il loro nome. L’immensa tensione è sfociata in un umanissimo pianto di sconforto, la fatica terribile appena conclusa è ancora evidente nell’affannosa ricerca di aria. A prua, il timoniere Peppiniello Di Capua si tiene la testa tra le mani, incredulo. Eppure, in questo contesto intensissimo, Giuseppe e Carmine trovano la forza di rivolgersi ai tifosi e chiedere loro addirittura scusa per non aver vinto. Un gesto che da solo vale più dell’oro olimpico.
«Nel 1992 tutti si aspettavano la vittoria, e c’erano state grandi pressioni anche a livello mediatico. Per noi era stato un periodo difficile, specie per alcuni malanni capitati nel corso dell’anno. Alla fine fu una delusione (anche se per una medaglia d’argento qualsiasi atleta avrebbe firmato prima della partenza), non tanto per il secondo posto, ma per come era arrivato: io per primo al passaggio degli ultimi 500 m avrei scommesso sull’oro. Quel giorno stesso avevo già deciso per una rivincita all’Olimpiade di Atlanta… Purtroppo due anni dopo arrivò la triste notizia dell’esclusione del due con dal panorama olimpico» ricorda Abbagnale. Sì, perché il CIO, con una decisione apparsa ai più inspiegabile, stabilì che, a partire dall’Olimpiade del Centenario, il due con non avrebbe più avuto una sua gara.
In quei Giochi, Giuseppe ebbe la grande soddisfazione di essere portabandiera azzurro nella cerimonia inaugurale. Un momento indimenticabile, che pochissimi atleti possono dire di aver vissuto: «A quei tempi era un ambito riconoscimento, anche se oggi sembra quasi un fastidio, e dopo un ampio sondaggio il compito fu assegnato a me: per anzianità, perché io e Carmine avevamo gli stessi titoli. Già entrare nello Stadio Olimpico in occasione della sfilata inaugurale è un’emozione, figurati farlo con in mano la bandiera tricolore e come capofila della delegazione Italiana, unico canottiere nella storia azzurra ad avere quest’onore. Tra le altre cose, in quell’edizione vi era un altro portabandiera canottiere. Sai chi era? Niente meno che Steve Redgrave…».
Nei loro trionfi, i Fratelloni hanno avuto per compagni atleti grandissimi, a loro volta veri assi del remo. Uno dei più noti è sicuramente il già ricordato timoniere del mitico due con, Giuseppe Peppiniello Di Capua. «Peppino oltre che un compagno di barca è un amico con cui abbiamo condiviso e continuiamo a condividere interessi anche al di fuori dell’ambito sportivo» dice il maggiore degli Abbagnale. «Nel mio caso ho cominciato la mia avventura agonistica con lui come timoniere e non ci siamo più lasciati fino al nostro ritiro».
Non sempre è andato tutto bene, in tanti anni di gare, e vari problemi fisici hanno ostacolato la vita sportiva dei Fratelloni. Il più grave è stato senza dubbio il rischio di tromboembolia che ha fermato Agostino per oltre un quinquennio, nel momento forse migliore di una carriera che, dopo la mancata partecipazione a Barcellona 1992, avrebbe comunque visto altri due ori olimpici. Il trionfo della tenacia e dello sport come scelta di vita, nel corso di una vicenda che si è snodata in momenti anche drammatici sul piano sportivo. Una vicenda che gli Abbagnale hanno vissuto uniti, da famiglia forte e solidale.
«Agostino, una volta appresa dal CONI la definitiva non idoneità, dopo diverse valutazioni da parte dell’Istituto dell’Acquacetosa, ci è rimasto malissimo, e ha ripreso il lavoro di finanziere a tempo pieno, pur mantenendosi sempre in allenamento. Nel 1994 a seguito di un incidente occorsomi (la frattura al quinto metatarso), abbiamo ripreso i contatti col Dottor Matteo Piovella di Pavia, specialista in malattie collegate alle tromboflebiti, ed insieme a lui abbiamo riproposto alla commissione dell’Istituto Superiore di Medicina del CONI la valutazione del suo caso. Grazie anche alla ricerca ed alle nuove conoscenze sulla sua tipologia di malattia, gli è stata ridata l’idoneità. Ci siamo ritrovati così un atleta motivatissimo, integro fisicamente e ben allenato: anche per questo il nome Abbagnale è rimasto… in voga per altre due Olimpiadi. E se la malattia di Agostino non si fosse ripresentata alla vigilia di Atene 2004, probabilmente l’avremmo visto protagonista anche in quell’edizione».
Una vita per il canottaggio
Oggi, gli Abbagnale sono lontani dalla tensione delle gare, da quei momenti magici in cui l’adrenalina e la volontà riescono a tenere miracolosamente a bada l’acido lattico che intorpidisce i muscoli, la schiena che si spezza sul remo, le braccia gonfie nello sforzo che sembra non finire mai. Lontani dalle gare, ma non dal canottaggio: «Io dopo aver fatto per un anno il Presidente Regionale del comitato campano della Federazione Italiana Canottaggio (nel 2000), sono stato Vice Presidente della FIC nel quadriennio 2001-2004. Dal 1994 ad oggi mi sono occupato e mi occupo del Circolo Nautico Stabia: attualmente sono Vice Presidente e responsabile della parte sportiva.
Carmine, dopo un periodo come secondo allenatore del Centro Nautico Stabia, tra il 1997 e il 2002, si è fatto un po’ da parte. Agostino è tuttora finanziere. Si occupa del college del Centro remiero di Piediluco, oltre a essere aiuto allenatore del settore PL Olimpico. Peppino Di Capua, infine, lavora alla Telecom e aiuta la mamma nella gestione di uno storico biscottificio a Castellammare».
E allora, grazie, Fratelloni d’Italia. Grazie per quello che avete saputo fare per i nostri colori e per quello che sapete insegnare ai ragazzi che si avvicinano al remo e allo sport. Agli Abbagnale di domani, forse.
Danilo Francescano
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