Il caso Ottavio Bottecchia
Giallo sui pedali
1927. Giugno è iniziato da poco e la campagna è ancora tiepida, le sementi germogliano indisturbate dall’arsura mentre la terra trattiene gli odori dell’estate in procinto di arrivare, risvegliata dal sole. Lorenzo Santolo sbircia oltre la tenda della cucina il campo in rigoglio che lo attende per il lavoro della giornata, al suo occhio attento non sfugge nessun centimetro della proprietà: subito lo insospettisce una macchia scura sul confine. Aguzza la vista per essere certo di non ingannarsi, ma alla seconda occhiata appare chiaro che quella sporgenza in lontananza non è frutto di uno strano gioco di luce.
Dapprima pensa ad un animale, si era illuso di essersi appena liberato dalle volpi ed ecco che invece già deve ricredersi, per questo esce imbracciando il fucile pronto a scacciare con uno sparo una belva restia all’idea di abbandonare il bottino. Man mano che i suoi passi scricchiolano sul terreno il sospetto lascia strada ad una nuova serie di ipotesi, il suo atteggiamento muta da insolente a guardingo temendo l’attacco di un cinghiale. A sventare la paura del cinghiale è un brillio che scintilla in lontananza, Lorenzo Santolo impiega un momento a mettere a fuoco la fonte di quel riverbero metallico, poi, intravedendo la sagoma per intero, capisce: una bicicletta.
Ripone il fucile sulla spalla e si avvicina più sfrontato, masticando insulti nel suo dialetto campagnolo. Avrebbe dovuto aspettarselo, l’ennesimo furfante che crede di fregarlo rubando i frutti più succosi. A pochi passi dalla bicicletta deve arrestarsi soffocando in gola un urlo d’orrore perché tutt’attorno la terra è imbevuta di sangue, troppo sangue, e lui così tanto non ne ha mai visto neppure sgozzando un animale. Assalito da una scossa fulminea di adrenalina e con il cuore stretto da un altrettanto improvvisa morsa di pietà, si inginocchia precipitosamente verso quello che doveva essere stato un uomo, ma che ora a malapena si distingue da un grumo intricato dal colore rugginoso.
Il volto è irriconoscibile, sangue dappertutto: sulle orecchie, sugli occhi, cola lungo il mento. Non ci vuole molto per capire che tutto quel sangue sgorga abbondante da una terribile ferita alla testa. Lorenzo Santolo non ha un attimo d’esitazione udendo i rantoli, non si tratta di un moribondo ma di un uomo vivo, agonizzante, ogni suo respiro ansante risuona come una richiesta d’aiuto. Lo carica sulle spalle, proprio come aveva fatto poco prima con il fucile, dopotutto le sue sono spalle forti abituate a carichi ben più pesanti di questo povero diavolo, neanche molto alto se proporzionato a lui, che trova perfino la forza di aggrapparsi quando avverte il conforto di un sostegno.
Quello che Lorenzo Santolo non sa è che quel povero diavolo ha un nome, ma non un nome qualsiasi. E la bicicletta, abbandonata sul confine del campo come un cadavere inerte, vale una fortuna: le sue ruote hanno percorso strade che lui non riesce nemmeno a immaginare. La bicicletta rimane là, sotto un sole inclemente, nella posizione contorta di uno scheletro disfatto, mentre il suo proprietario lotta fra la vita e la morte all’Ospedale di Gemona. Quella bicicletta è come un arto amputato, un’arteria che pulsa fuori dal corpo, rammaricandosi di non poter combattere anche l’ultima battaglia con il suo corridore. Senza bicicletta non può vincere, è chiaro: al traguardo Ottavio Bottecchia era arrivato sempre sulle due ruote e sempre là l’avevano trovato in sella mentre sorrideva ammiccante ingoiando la sua fatica.
Lorenzo Santolo conosce il nome, ma fatica ad associarlo a quel volto. Bottecchia è il ciclista, l’eroe di un’Italia in guerra, il figlio adottivo della Francia che gli ha storpiato il cognome. Che c’entra Botescià con questo piccolo uomo inerte, ritrovato agonizzante nella sperduta Peonis, sulla riva del Tagliamento? Come può quel vincitore senza macchia e senza paura esalare respiri sempre più lievi in una stanza dalle pareti bianche, sempre più prossimo alla sua sconfitta?
Il segreto in un tuorlo d’uovo
Lorenzo Santolo non era stato il primo a trovarsi di fronte Ottavio Bottecchia senza capire che si trattasse proprio del mito Bottecchia, osannato trionfatore sui pedali; Bruno Roghi, uno dei maestri del giornalismo del tempo, cadde nello stesso equivoco. Allora Bottecchia era un corridore ancora sconosciuto, a dargli lustro era stata la sconfitta che aveva fatto patire ai colleghi più illustri. Roghi, quando se lo trovò di fronte, convenne nel dire che era un povero diavolo, figlio della guerra con quei pantaloni lisi e la bisaccia a tracolla. «Il nome era pomposo come quello di un imperatore romano,» osservò Roghi nel suo articolo «ma il cognome rovinava tutto. Come si fa a scalare l’Olimpo e chiamarsi Bottecchia?» Senza la bicicletta Ottavio aveva ben poco dell’eroe: diceva lo stretto necessario, rigorosamente in dialetto veneto, sul suo viso ossuto brillavano due occhi sospettosi che raccontavano esperienze inenarrabili: fatiche e dolori patiti alla guerra e fame, tanta.
Nel 1922 si era da poco affermato fra i migliori tentando un’impresa senza precedenti: uscì vittorioso dalla traversata del Passo del Turchino superando una salita ripidissima e non sterrata che altri, come sostenne Roghi, non avevano ancora addomesticato. Ottavio di gare locali ne aveva vinte molte, era sempre nel gruppo di testa, ma per farsi notare serviva un’occasione unica, una fatica compiuta da lui solo. «Il segreto,» voleva sapere Roghi «per riuscire in un’impresa simile qual è?» La risposta di Bottecchia giunse innocente nella sua semplicità: «Uova fresche in quantità prima di una gara. Poiché non ho mai corso utilizzando prodotti eccitanti o stupefacenti. Ho invece molto sofferto, nel corpo e soprattutto agli occhi a causa della polvere.»
Non fece molta impressione alla stampa questo contadino della Marchigiana, classe 1894, che prima di partire diceva agli avversari: «A vae mi!» (vado io) quasi per scusarsi prima di conquistare la vittoria. Mangiatore di polenta, contadino abituato alla fatica, l’articolo di Bruno Roghi lo presentava al mondo come un ometto timido senza infamia e senza gloria. Ma la gloria venne e allora non ce ne fu più per nessuno.
Il campione di Francia
Dopo essersi guadagnato la quinta posizione al Giro d’Italia, venne reclutato per il Tour de France e accettò, il motivo del sì lo scandì bene in dialetto: «Cussì i pol magnar calcossa.» Non per fama, dunque, ma per fame. Era tornato dalla Grande Guerra decorato da una medaglia di bronzo all’onore che tuttavia non era stata sufficiente a salvarlo dalla miseria di una terra laboriosa, in lenta rinascita, che portava ancora su di sé i segni delle ferite appena inferte. Il patron del Tour, Henri Desgrange, conosciuto da tutti con il soprannome di Sanguinario per la spietatezza con cui sceglieva i percorsi, lo affidò come gregario ai fratelli Pélissier.
Ottavio non temeva i sentieri arrischiati, resi quasi impraticabili dalle pietre aguzze e dalla neve solidificatosi nel ghiaccio. Incantò i francesi sulla salita pirenaica dell’Aubisque e si attirò le cocenti invidie degli altri corridori che si accordarono in sordina a suo discapito. La vittoria gli fu strappata sulla vetta dell’Izoard, a un passo dal titolo finale del Tour, così Bottecchia non ottenne la fama che le sue fatiche avrebbero meritato, ma in compenso una cospicua somma di lire lo risarcì come ben si addiceva al suo senso pratico. Probabilmente guadagnò più di quanto avesse anche solo immaginato con l’intenzione di partecipare al Tour.
L’anno dopo il suo nome capeggiava su tutti i giornali con una lieve storpiatura: era Botescià, la Francia adottava quel figlio che l’Italia non aveva saputo amare abbastanza. Ottavio aveva indossato la maglia gialla la prima tappa del Tour e non l’aveva tolta fino all’arrivo a Parigi: campione indiscusso di una battaglia solo sua. Fu il primo italiano nella storia a vincere il Tour de France. Aveva proseguito per la sua strada, ignorando le lettere anonime che lo minacciavano per indurlo a non procedere fino in fondo. Un trionfo che si replicò perfino l’anno dopo, nel 1925, aprendogli le porte della leggenda: per la gente di Francia non era più un semplice contadino, ma l’eroe. Eroe lo era stato anche in guerra, ma l’Italia se ne era dimenticata presto, ritenendo una medaglia di bronzo l’unico onore dovuto.
Lui, però, non tradì la sua terra: coltivando amorevolmente i suoi vigneti nella borgata di San Martino, rese omaggio alle colline che l’avevano visto crescere e scorrazzare lungo i pendii con la bicicletta rubata al fratello Giovanni. Lui che bambino non era stato mai, figlio di un Paese in guerra, chiamato troppo presto a guadagnarsi il pane perché il tempo del gioco era tempo sottratto al lavoro, un lusso che potevano concedersi in pochi. Fin dalla più tenera età era stato iniziato ai mestieri di fatica: garzone nell’officina di un ciabattino, manovale edile, calzolaio. Con i soldi vinti al Tour poté concedersi lo sfizio di una casa sua, dimenticando le angosce dei genitori costretti ad ipotecare la proprietà per sopravvivere alla miseria. La costruì fra quei sentieri che raccontavano tutta la sua vita e aprì una ditta di biciclette, il mezzo che l’aveva traghettato attraverso le scosse della guerra, per non dimenticare di essere stato parte di quella schiera informe e grigia di soldati che marciavano incontro alla morte sognando la vita.
Il bersagliere di guerra
L’aveva vissuta tutta sulla sua pelle la Grande Guerra, dall’inizio alla fine: l’Altopiano di Asiago, il Carso, la trincea sul Piave. Fu catturato due volte dagli austroungarici e due volte riuscì a fuggire, a gambe levate, schivando i proiettili dei cecchini austriaci che lo sfioravano come scintille di fuoco. Una morte intravista e sempre scampata a bordo di una bicicletta, in qualità di bersagliere ciclista su e giù per le montagne portando sul dorso una mitragliatrice per fornire l’arma ad un posto di vedetta che ne era privo. Una volta era arrivato appena in tempo: spingendosi fra passaggi ripidi e mulattiere riuscì a consegnare la mitragliatrice pochi attimi prima di un attacco austriaco. Quell’arma fu la salvezza degli italiani colti di sorpresa dall’assalto nemico e mai come in quel momento Bottecchia vide il suo intervento tanto necessario.
Poi ci fu lo scontro in prima linea, il 4 novembre 1917, in cui Ottavio, costretto dalle circostanze, impugnò la mitragliatrice con le sue stesse mani facendo fuoco contro gli austriaci, ma valse a poco: venne di nuovo catturato, per un solo giorno, perché riuscì a darsi alla fuga. Quanto furono lunghi quegli anni di guerra, dilatati dai quattro mesi trascorsi in ospedale lottando contro la malaria che minacciava di portarselo via.
Ottavio con la sorte ci aveva giocato a carte tutti i giorni, trionfando perfino quando ormai tutti lo davano per spacciato e poi la morte, meschina, lo colpì alle spalle su una strada di campagna mentre correva sulla sella della sua bicicletta. Atterrato così senza un lamento, Ottavio, a soli trentatré anni di una vita che si prospettava ancora lunga. Chiuso per tredici giorni fra le pareti di una stanza ad attendere un verdetto che tardava ad arrivare, poi la nebbia senza ritorno lo avvolse senza scampo il 16 giugno 1927. «Frattura della volta e della base della scatola cranica,» si leggeva sul referto, e questo doveva bastare come spiegazione di una morte che di chiaro non aveva nulla fuorché l’evidenza che il morto c’era e la bicicletta, abbandonata al margine del campo, era scomparsa inghiottita dallo stesso buio in cui si era smarrito il suo proprietario.
Il mistero irrisolto
Per un certo periodo la cronaca non si diede pace, troppo clamore aveva suscitato la morte improvvisa di un personaggio di tale calibro. Si parlò di omicidio per qualche tempo, poi le voci si affievolirono fino a spegnersi come un mozzicone di sigaretta. Vennero avanzate tre ipotesi sul delitto di Ottavio Bottecchia prima che tutti decidessero che fosse più conveniente parlare di morte accidentale: un colpo di caldo, questo è stato, e la gente preferì arrendersi ad un destino infame piuttosto che inventarsi nuovi colpevoli.
Si mormorava che Bottecchia fosse stato ucciso perché si opponeva al fascismo, proprio come il fratello Giovanni, che giusto pochi mesi prima era stato investito tragicamente mentre tornava verso casa a bordo della sua bicicletta. I meno benevoli ipotizzarono il coinvolgimento dei due fratelli in un circolo di scommesse clandestine, un qualche losco affare in sospeso con la malavita. Altri sostennero, invece, che Bottecchia conoscesse il nome dell’assassino del fratello, motivo per cui gli sopravvisse per poco tempo. A squarciare la fitta rete di enigmi e dubbi sempre più cupi ci pensò anni dopo la testimonianza del vecchio parroco del paese che, morente, osò confessare con l’ultimo respiro la verità: Bottecchia era contrario al fascismo, per questo fu ucciso. Neppure la luce della parola consacrata fu sufficiente ad avviare un’indagine. A breve distanza, casualmente, un contadino confessò di aver ucciso Bottecchia a bastonate perché derubato dell’uva cresciuta nel suo campo; un movente davvero precario se si considera che nel mese di giugno nessun grappolo ondeggia dalle viti, non è la stagione dell’uva.
Troppe contraddizioni, dunque, un inestricabile groviglio di verità sovrapposte tanto diverse da essere giudicate tutte false. Bottecchia morì in seguito a un malore dovuto al troppo caldo, questo il verdetto finale, tuonò inappellabile e non trovò oppositori perché dopo anni faceva comodo a tutti credere che fosse andata così. Un’altra guerra bussava alle porte, venti avversi avvolgevano con le loro spire gelide il panorama mondiale: all’improvviso sembrava una perdita di tempo sprecare tanto fiato per la morte di un solo uomo.
Alice Figini
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