Andrea Coppola
Insegnando l’anima del remo
Lo incontriamo in uno dei più antichi e prestigiosi circoli sportivi italiani, il Royal Yacht Club Canottieri Savoia di Napoli. Allena qui Andrea Coppola quando non è impegnato con i campioni del settore di punta maschile della Nazionale Italiana di canottaggio. Al timone azzurro ha vinto medaglie mondiali e olimpiche. Un argento ai Giochi di Sydney a 37 centesimi dalla barca di Sir Redgrave e un altro argento a Pechino 2008 con il quattro di coppia di Rossano Galtarossa. Alla soglia dei sessantacinque anni, di cui quasi quaranta a insegnare l’arte di remare ad allievi di tutte le età, ha ancora l’entusiasmo degli esordi. «Mi piace seguire il percorso sportivo che intraprende ogni individuo – dichiara a Storie di Sport – e cerco di mettere lo stesso impegno sia con un ragazzino che con un grande campione. La relazione allenatore-atleta è fondamentale per costruire una buona preparazione fisico-tecnica che permetta di esprimere la massima prestazione possibile».
E che cosa succede quando dare il massimo non basta? Come si affronta una sconfitta?
«Se remi bene puoi perdere, se remi male hai già perso, questo vale persino per i più forti dal punto di vista fisico. La sconfitta è esperienza, piuttosto quando arriva bisogna porsi una domanda: “Ok, ho perso, ma in questa stagione mi sono allenato bene? Mi sono impegnato al meglio?”. Se la risposta è positiva allora posso essere soddisfatto ugualmente, se è negativa l’insuccesso mi deve servire da monito per la mia prossima preparazione. D’altronde, la vittoria e la sconfitta sono determinate da un insieme di fattori, e più il livello della competizione è alto, più questi fattori aumentano. Mai cercare una sola chiave di lettura per un risultato».
Quanto conta, per esempio, la motivazione?
«È fondamentale. Come allenatore posso cercare di estrapolarla, provando a risolvere i problemi che comportano i duri allenamenti e a dare le migliori indicazioni sull’applicazione tecnica della remata, ma anche quando si ha di fronte un ragazzo con delle forti potenzialità, penso che nessuno possa far diventare un campione chi non lo vuole diventare. Noi allenatori possiamo fornire gli spunti, ma la dedizione, la “testa” per sopportare i forti carichi di stress deve essere presente in ogni individuo che si pone grandi obiettivi».
Non sempre, però, soprattutto per i più giovani, è facile focalizzare un obiettivo.
«Ma l’obiettivo è il motivo per cui sacrifichiamo il nostro tempo, il motivo per cui soffriamo svuotando di ogni fibra il nostro corpo; è il risultato che vogliamo ottenere. Tutti i miei atleti devono porsi un obiettivo, e anch’io con loro, così da poter lavorare insieme per il suo raggiungimento. Naturalmente non mi alleno con i miei ragazzi, ma come tecnico mi sento parte dei loro allenamenti quotidiani, delle loro prestazioni. Quello che molti colleghi allenatori non capiscono è che anche noi siamo dentro l’obiettivo, e anche con gli atleti meno capaci dobbiamo impegnarci a coinvolgerli maggiormente, cercando di non lasciare indietro nessuno. Che sia una qualificazione olimpica o un campionato italiano, l’impegno per il risultato che si vuole conseguire deve essere massimo. Certo, per stabilire un traguardo non si può prescindere dalle potenzialità e dalle ambizioni dell’atleta che si segue».
Il gioco vale sempre la candela?
«Questo può saperlo solo l’atleta stesso. So benissimo che è difficile sostenere una vita frenetica, ottemperare impegni sportivi, studio e divertimento. Capisco un po’ anche di eventi mondani, e posso comprendere quanto sia dura scegliere tra una serata con gli amici e un allenamento all’alba del mattino seguente. Ma il punto è: ti piace sentire la barca correre veloce? Ti batte forte il cuore in partenza, prima della partenza? Senti la sensazione adrenalinica salire dietro la schiena con un brivido che aspetta d’azionare il tuo motore e sprigionare tutta la tua potenza? Ti piace metterti in gioco? Potrei continuare per ore con queste domande, ma se la risposta è costantemente sì, allora al diavolo tutto e allenati!».
All’allenatore spetta l’ingrato compito di stabilire ritmo e intensità degli allenamenti.
«Come diceva il mio allenatore, gli allenamenti si basano sugli avversari. L’allenamento non lo programmo io, ma i miei avversari. Mi spiego meglio: se ho un atleta che ambisce a fare l’Olimpiade ed ha buone capacità, il programma d’allenamento di tredici volte a settimana deve essere obbligato se si vuole raggiungere l’obiettivo, proprio perché i suoi avversari sono di un livello altissimo. Se ho un ragazzo di 17 anni che vuole puntare ad una medaglia di livello nazionale, beh, può allenarsi anche meno volte, purché mantenga l’intensità e la qualità degli allenamenti. Questa è un’altra cosa fondamentale, “la qualità” con cui ci si allena. Non serve a nulla lavorare due volte al giorno se poi porti avanti degli allenamenti con rendimenti scadenti. In ogni caso, sono a favore della spiegazione e del dialogo con l’atleta perché è importante renderlo consapevole dell’utilità del sacrificio che sta compiendo. Penso sia una cosa in più che ogni allenatore dovrebbe sempre garantire».
Le è mai capitato di essere contestato?
«Quando ti metti in gioco e la posta è alta, le critiche piovono ovunque. Anche se vinci, sarai sempre criticato. Le faccio un esempio, uno dei più clamorosi. Dopo l’Olimpiade di Sydney 2000, in cui ottenemmo i migliori risultati nella storia del canottaggio (un oro, due argenti, un bronzo, e due quarti posti per pochi decimi) al nostro ritorno non fummo accolti proprio come ci aspettavamo. C’erano voci in giro che dicevano che gli stessi risultati si potevano ottenere con un carico di lavoro minore, così da stressare meno gli atleti, e chi ancora diceva che le medaglie mancate erano state una delusione. Alle elezioni della Federazione, il presidente uscente che aveva sostenuto e intendeva sostenere ancora il nostro lavoro fu riconfermato per soli tre voti. Tre voti, capisce? Non sono niente se si considerano tutti i risultati positivi. Purtroppo le voci screditanti sono sempre abbondanti sulle bocche degli invidiosi, o ancora degli incapaci. Ancora oggi subisco delle critiche dirette o indirette, a cui mi verrebbe sempre di rispondere: “Dai, va bene, hai ragione, mi dimetto”. Anche se poi vado avanti. A parlare sono tutti bravi, ma nessuno prende coraggio e dice: “Scendo in campo io e ti faccio vedere come va”. E se succede (come abbiamo visto in qualche precedente gestione) i risultati sono disastrosi».
A proposito di questo, il recente mondiale di Amsterdam è sembrato un po’ sottotono. Che cosa non ha funzionato?
«Quest’anno abbiamo lavorato tantissimo e certo non abbiamo ottenuto i risultati che ci aspettavamo. Già nelle prime giornate di gare siamo stati colpiti da un mare di critiche e sfiducia che ci seguivano come un’ombra in ogni istante della trasferta olandese. Credo che le nostre barche abbiano faticato per le condizioni differenti delle corsie di gara; e dato che il nostro metodo di preparazione è quello di “crescere gara dopo gara” arrivando così alla finale nella migliore condizione possibile, in batteria e in semifinale non siamo riusciti a qualificarci per le corsie migliori, quelle più riparate dal vento e dalle intemperie del maltempo che ha accompagnato questi campionati del mondo. Come molti altri allenatori della Nazionale, mi piace lavorare in modo chiaro, alla luce del sole, e spero che quelli che si limitano a fare critiche improduttive scrutino nei ricordi di un passato recente (crollo totale di tutto quello che si era costruito in precedenza, e negli anni delle vittorie). In ogni caso non posso che rinnovare la fiducia nel mio lavoro e in quello delle persone che hanno fatto la storia di questo sport in Italia, con nuova carica, nuova tenacia e progetti».
Nonostante in passato lei sia stato esonerato, è rimasto a Napoli lavorando esclusivamente in un club di canottaggio. Ha perfino rifiutato una vantaggiosa offerta dall’estero: perché?
«Non ho accettato perché non mi andava di lavorare con un’altra nazione. Non mi va di “remare” contro l’Italia, c’è già troppa gente che lo fa. Io mi sento parte di questo sport qui, dove tutto è cominciato, dove tutto è migliorato. Al diavolo i soldi, non posso vendermi al migliore offerente. Sono un grande appassionato del canottaggio italiano, della sua storia e quindi della sua evoluzione, mi sento patriottico, e ho davvero sofferto quando questo sport ha attraversato dei periodi bui, qualitativamente parlando».
Qual è stata la sua prima vittoria da tecnico? La prima grande soddisfazione?
«Non le parlerò di una vittoria, ma di una stagione di ripetuti secondi posti».
I ragazzi al circolo dicono che il secondo è solo il primo dei perdenti.
«Beh, sì, forse è vero. Ma a volte l’audacia di un secondo posto vale quasi la gioia di un primo posto. La cosa che più mi è piaciuta sia da atleta che da allenatore è stata sfidare gli equipaggi vincenti, misurarmi con i più forti, cercare di vincerli. Così, nel lontano 1981 quando cominciò la mia vera carriera nella società che ho lasciato solo nel 2006, ero un giovane allenatore chiamato a fare meglio del mio predecessore. Misi su un Due con che andava forte, composto da due giovani atleti, Renato Gaeta e Sergio Caropreso, proprio quando stava nascendo l’equipaggio formidabile degli Abbagnale. I miei ragazzi si allenarono molto, e riuscimmo ad arrivare sempre più a ridosso dei fratelloni. Certo con i miei ragazzi avrei potuto formare un’altra specialità, un due senza ad esempio, ma loro avevano la grinta di chi voleva gareggiare nella gara più in vista, contro la barca più forte in circolazione. Molti allenatori, specialmente in ambito societario, cercano necessariamente il risultato, studiando le iscrizioni alle gare, e quindi i tipi di equipaggi dove vi sono atleti meno forti, così da assicurarsi una gara più alla pari, o meno impegnativa. Lo studio di queste combinazioni va contro la bellezza dello sport stesso: a mio avviso si dovrebbe lavorare sempre sul migliore equipaggio possibile a prescindere dalle possibilità di vittoria sugli avversari».
Si impara subito a remare?
«Il gesto della remata è un gesto complesso, costruito secondo leggi fisiche. È un movimento innaturale, basti pensare che si corre spalle al traguardo. Non è semplice ottenere dimestichezza in poco tempo, bisogna impegnarsi a capire e applicare, non bisogna lasciare che le cose accadano in maniera spontanea. Certo un atleta che ha praticato questo sport per tanti anni non dimenticherà come uscire in barca e remare, ma sicuramente non avrà la stessa applicazione tecnica di quando era un atleta. Devo dire che anche gli atleti di alto livello a volte subiscono un’involuzione tecnica, ovvero acquisiscono dei difetti che precedentemente non avevano e cambiano il loro rendimento. Per questo è importante monitorare sempre gli allenamenti, in modo tale da correggere subito i possibili atteggiamenti sbagliati, se pur momentanei».
Può definire l’anima del canottaggio?
«Insieme a tutte le altre “parole chiave” che uso nei moniti da dare ai ragazzi, una delle principali, quella su cui è basata l’andatura della barca, lo scorrere sull’acqua e quindi quella che dà la possibilità ad essa di andare veloce, è il “colpo.” Il colpo dei remi in acqua, la spinta delle gambe sulla pedaliera e tutta la palata. Il colpo è la parte viva della barca, il suo respiro. Il colpo è l’anima del canottaggio».
Lei ha conquistato ben centoventicinque titoli nelle società che ha allenato e tanti straordinari successi internazionali. Che cosa significa vincere?
«Vincere è una sensazione indescrivibile. Vincere è l’apoteosi dei sensi, sentirsi il migliore, avere prova di esserlo, sapere di esserlo, un continuo senso appagato. Una medaglia olimpica, ad esempio, mi fa venire i brividi… Spero di vincere ancora!».
Stefano Graziuso
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Intervista raccolta nel settembre 2014
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