Natalia Coeva
Il riscatto sul quadrato
La madre turca, il padre bulgaro. Lei nasce in Moldavia, poi si trasferisce in Russia con la famiglia. Solare, simpatica, con un leggero accento lombardo Natalia Coeva ripercorre la sua giovane vita come se nulla fosse. Dall’infanzia al titolo di campionessa del mondo di kick boxing per la categoria cintura verde, con qualche accenno ai progetti futuri.
Come se fosse la cosa più normale del pianeta lasciare casa e famiglia per l’ignoto e in questo ignoto conquistare un titolo mondiale, esser chiamata a sfilate e spot tv, trovare una nuova fede nella vita.
«Ho vissuto, semplicemente», ripete la bella ventinovenne moldava. Figlia di un campione nazionale di lotta libera e di una ciclista del circuito agonistico interregionale, «non potevo non provare qualche sport – constata laconica – . A dieci anni, me lo ricordo benissimo, avevo una fissazione per la tonicità del fisico e ricercavo una forma smagliante. A 15 anni alzavo già 50 kg. Volevo modellarmi con lo sport, e le ho provate veramente tutte: tennis, pallavolo, karate, basket, e ovviamente anche ciclismo e lotta libera… malgrado il mio dna atletico, mi annoiavo». La ricerca della silhouette si accompagna alla ricerca di un ambiente più “confortevole”: al termine degli studi superiori nel sud della Russia, Natalia non ce la fa più. «Quando ero in Moldavia o in Russia stavo male, non riuscivo a concepire i loro modi di pensare. Un esempio banale: per loro donna è sottomessa, deve star coi figli, marito comanda. A me non stava bene. Non stava bene nei comportamenti quotidiani».
Una sera, rientrando a casa in auto con un amico, la radio passa una canzone. È la voce di Tiziano Ferro. «Mi sembravano parole bellissime, una lingua meravigliosa. Ho chiesto al mio amico cos’era, mi ha risposto che era italiano». La radio insinua il richiamo della “dolce terra dove il sì suona”; Natalia si lascia alle spalle il “niet”.
Parte con un fidanzato moldavo. Scelgono come primo stop Rapallo, dove hanno conoscenze, ma lui ha il vizio di alzare le mani. Dopo cinque mesi Natalia cerca rifugio da una zia a Milano.
Ha 19 anni ed è completamente sola.
«Ho iniziato tutto da zero. Avevo in tasca 50 euro, in borsa due cambi di vestiti. La mancanza più grande però era la personalità: io non ne avevo una. Ho dovuto ricostruire tutta la mia vita, sia a livello materiale che morale. Ho tentato due suicidi, ho trovato un po’ di sollievo nella religione… è stato tutto molto duro. Il momento più difficile è stato quando ho capito com’era il mondo. Non sapevo come affrontarlo, vedevo tutti intelligenti e io ero stupida, avevo paura anche della mia ombra. Sono entrata in depressione, vedevo tutto nero. Non avevo genitori a spalle, non vivevo la mia gioventù. Senza lavoro, non mangiavo. Ho fatto un periodo a pane secco e acqua. Ora sono tutt’altro».
Dopo altri due mesi trova un lavoro come colf presso una famiglia a Piacenza e vi si stabilisce. Qui trova anche una persona che la spinge a prendere la terza media, migliorare l’italiano, continuare a lavorare, aiutandola nella ricerca della personalità che mancava. «Avevo bisogno di un surrogato di padre, qualcuno che mi avrebbe sostenuta nel morale e aiutata nelle difficoltà». Dopo due anni arriva il permesso di soggiorno e un lavoro come commessa in negozio. Sempre a Piacenza, a distanza di un anno un amico le suggerisce una palestra per un corso che si chiama kick boxing. È colpo di fulmine con la disciplina.
«Ricordo ancora con un sorriso il mio primo giorno in palestra. A fine lezione, l’istruttore si avvicina e mi dice : “Complimenti da quanto tempo lo pratichi?”.
“Veramente è la mia prima lezione”.
È finita con una risata ma alla seconda lezione la scena si ripete. Pensava scherzassi». Le grandi doti di Natalia vengono fuori. I risultati arrivano.
«Ho all’attivo 5 anni di kick boxing. Da tre difendo il titolo di campionessa regionale e interregionale. Certo sarebbe stato consigliabile iniziare a 16-17 anni, ma ho obiettivi da raggiungere e m’impegno ripetendomi che ce la devo fare. La fede mi aiuta anche a combattere, contrariamente a quanti sostengono che se credi in un Signore, non puoi praticare uno sport che è fatto di calci e pugni. In molti mi ripetevano “devi mollare, ne va del tuo credo”. Ma i fedeli posson essere anche sportivi. Mentre mi alleno vedo un avversario, non un nemico da distruggere. Forza, mente, volontà e potenza si combinano con la fede».
La consacrazione a giugno 2014, a Sabbiadoro, per la Coppa del Mondo.
«Quando sono arrivata a Sabbiadoro ero agitatissima. Mi sembrava di esser la più nervosa del palazzetto e mi ripetevo come un mantra di avere forza e coraggio. Poi quando una volta entrata ho cominciato a mettere tutto a fuoco ho guardato il podio con tutte quelle coppe e mi sono detta “una di quelle è tua”».
Come è andata il giorno della gara?
«Al risveglio ero ancora troppo nervosa. A colazione mi son detta “devo svuotare la mente”, ho preso la valigia e sono andata in un bosco vicino all’albergo. In solitudine ho cercato di liberare completamente la mente perché ero troppo agitata. Non va bene esser agitati, è una condizione che toglie il fiato e la forza. Ascoltavo i suoni degli uccelli, dei fogli che si muovono,… Poi sono andata direttamente al palazzetto e ho cominciato il riscaldamento da sola, sotto le scale, dove non c’era nessuno. Son salita sul quadrato e una volta cominciati i combattimenti… Che dire? È andata…».
Avevi già partecipato alle finali?
«Avevo provato due o tre anni fa, raggiungendo il quarto posto, su dodici partecipanti. Nelle gare mi era capitato di mandare in ko anche dopo 20 secondi, ero allenata veramente bene. Nel circuito di Coppa del Mondo sono i combattimenti più duri, contro avversari che non si conoscono. Quest’anno l’irlandese e la francese eran toste, mentre in finale ero contro un’ucraina che di gambe era incredibile. Una concorrente si è arrabbiata per aver perso e se ne è andata via senza nemmeno voltarsi o salutare. Ma questo capita anche ai concorsi di bellezza».
Già, sei anche una modella richiesta. Come coniughi la grazia delle passerelle all’aggressività del quadrato?
«Come le ragazze che guardiamo combattere nei film di azione! Al momento opportuno seducenti e dolci, quando occorre inarrestabili violente. È una combinazione che mi piaceva, che si realizza. Io ho anche la fortuna di sviluppare velocemente il muscolo, che scende in due/tre settimane. Posso regolare allenamenti, combattimenti, sfilate e backstage. In prossimità delle competizioni, almeno tre mesi prima mi alleno tutti i giorni per 5-6 giorni a settimana. Controllo quello che mangio, come e quanto, quando vado a letto,… essere atleta ad alto livello implica rinunciare alle uscite con gli amici, fare qualche sacrificio. Però poi quando mi alzano il braccio in segno di vittoria sono ripagata».
Chi sono i tuoi allenatori?
«Ne ho due: Marco Veneziani e Stefano Marcotti. Sono allenatori che mi trasmettono due cose completamente diverse, ma sono quelle che mi servono. Veneziani è stato il mio primo allenatore, mi trasmette potenza, mi incita a non aver paura, ad avere grinta, anche se combattendo contro lui prendo parecchi colpi, basti pensare che è 1,90 m per 90 kg. Quando mi ritrovo con quelle della mia categoria dei 50 kg è come non sentirli. Marcotti invece è più tecnico, mi da’ forza morale, sicurezza. L’ho trovato un anno e mezzo fa».
Cosa compri più volentieri, rossetti o guantoni?
«Tutti e due. E in entrambi i campi sono una perfezionista: la giusta sfumatura, la giusta spinta. Qualsiasi cosa devo farla nel miglior modo. In realtà è semplice perché tutto è ben distinto: in palestra sfogo la mia energia negativa che diventa aggressività, ma buona. E tutto parte con il rito della vestizione: la fascia sulla fronte, i pantaloni larghi, il casco, la maglietta larga, i guanti. La femminilità rimane fuori dal quadrato. E poi, essendo uno sport prettamente maschile, le donne s’incontrano solo alle competizioni! Una volta nella mia palestra ho deciso di allenarmi sul tapis roulant per buttare giù un po’ di kg. Ho messo leggings e top: tutti i ragazzi mi giravano intorno e uno ha avuto il coraggio di parlare e farsi avanti. Era uno che abitualmente tirava al sacco nella sala dove mi alleno! Gli ho dovuto spiegare che ci conoscevamo già, ero la stessa della sala del kick boxing».
La tua esperienza teatrale ti aiuta sul quadrato?
«Il teatro è un gioco, iniziato per caso mentre accompagnavo un amico per girare uno spot pubblicitario per la Carrà. Mancava un personaggio, mi son ritrovata a leggere velocemente un copione e sono entrata nella compagnia Senza Nome».
Le tue prossime sfide su quale campo si fronteggeranno?
«Innanzitutto voglio portare avanti la mia crescita personale, a livello mentale. Sto ultimando l’università, dove studio per diventare interprete internazionale (spero di finire a dicembre o giugno prossimo). Sto scrivendo dei fascicoli per motivare le persone. Dal 17 settembre sono a Londra a recuperare il mio livello di lingua inglese. Ovviamente ho trovato una palestra: sono partita con quaderni, guanti e protezioni. Allenarsi con gente diversa, diversa tecnica, diverso modo di allenarsi è arricchente, soprattutto in vista delle competizioni internazionali. Veneziani e Marcotti mi hanno già dato i loro consigli da mettere in valigia. Non dimentico che a novembre ci saranno gli interregionali, a marzo la Coppa Presidente, dove l’ultima volta sono arrivata seconda perché combattevo con una spalla lussata, a maggio ci sarà la Coppa Europea e a giugno la Coppa del Mondo. La mia prossima sfida è vincerle. E so che sarà difficile, perché sono passata di categoria e gareggerò con la cintura blu contro le cinture alte, incluso le cinture nere».
Che cosa ti manca adesso?
«La cittadinanza italiana. Mi sento italiana da sempre, non torno in Russia o Moldavia da due anni. Questo è il mio posto, quello che cercavo da adolescente. Quello che ho trovato nella palestra di Piacenza. Voglio combattere per i campionati italiani. E, se possibile, trasferirmi in riva al mare. Senza più dover mangiare pane secco e acqua».
Melania Sebastiani
© Riproduzione Riservata
(Intervista raccolta nel settembre 2014)
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