Flo Hyman
Più in là di ogni barriera
Dicono che le sue ultime parole fossero per le compagne di squadra. Un’esortazione strozzata in gola, poi il buio. «Flo sta bene?» chiese una di loro a un’amica di ritorno dall’ospedale, dove avevano tentato disperatamente di rianimarla. «No» si sentì rispondere tra le lacrime.
Flora “Flo” Hyman morì sulla panchina di un palazzetto dello sport durante una partita di pallavolo. Si era accasciata sui suoi 31 anni e su quei 196 centimetri che segnarono nel bene e nel male la sua vita: l’altezza di una stella internazionale del volley e la traccia di una malattia che si tradì quando nessun muro avrebbe potuto proteggerla dall’attacco. Si chiamava Sindrome di Marfan, e le strappò il cuore.
Il cammino verso Los Angeles
Era nata il 31 luglio 1954 a Inglewood, la città di Esther Williams, nella California della working class. Suo padre era un ferroviere, sua madre la proprietaria del Pink Kitty Café; un metro e ottantacinque centimetri lui, un metro e ottanta lei. A 12 anni Flo aveva già superato la statura dei genitori: camminava piegando le spalle in avanti, impacciata. Fu la madre a convincerla a portare la sua altezza a testa alta. Da brava ragazza nera, iniziò a giocare a basket e a praticare atletica, ma a incuriosirla era uno sport appena approdato tra i bianchi di Redondo Beach: la pallavolo. Quando sua sorella Suzanne la portò con sé in spiaggia e le due si cimentarono in un torneo di beach-volley, Flo riconobbe la sua strada.
Nel 1974 entra nel College di Houston, prima atleta donna a vincere una borsa di studio. Lei accetta solo una parte del denaro perché altre sue compagne possano beneficiarne. Studia matematica ed educazione fisica, diventa la top-player delle atlete universitarie statunitensi, si unisce alla Nazionale e comincia ad accarezzare il sogno di vincere una medaglia olimpica.
Le americane hanno fallito la qualificazione ai Giochi nelle ultime due edizioni, non hanno gli sponsor delle giapponesi né la base di reclutamento delle cinesi. Ma il nuovo coach Arie Selinger fa sul serio. Predica un gioco aggressivo e ne affida a Flo la leadership. Conta sulla sua potenza offensiva ma la bacchetta fino allo sfinimento anche in ricezione, insegnandole a non aver paura del pavimento. Alla fine assicura: «Se Flo è in forma, la squadra la segue».
Gli USA ottengono il quinto posto ai Mondiali del 1978 e la qualificazione alle Olimpiadi di Mosca. Ma il Presidente Jimmy Carter ordina il boicottaggio dei Giochi in risposta all’invasione sovietica dell’Afghanistan: il volley americano resta dietro le quinte.
Solo alla World Cup del 1981 il mondo si accorge delle pallavoliste di coach Selinger: Flo, che vola più in alto di tutte imprimendo al pallone uno spin letale, riceve il premio di miglior battitrice della manifestazione. Si arrende in semifinale soltanto alla Cina di Láng Píng, ma le sue schiacciate strappano alle invincibili mandarine due dei soli quattro set persi nel torneo. L’anno dopo gli USA vincono la medaglia di bronzo ai Mondiali, dietro Cina e Perù, davanti a Giappone e Unione Sovietica; la loro ascesa ha un orizzonte di grattacieli e lustrini: le Olimpiadi di Los Angeles.
Ai Giochi di casa il tifo è tutto per loro. Gli americani, che avevano sempre snobbato la pallavolo, ora sono certi di poter contare su un’altra medaglia. Il bagno di folla carica le ragazze, che arrivano a giocarsi l’oro ancora una volta contro la Cina, già sconfitta all’esordio. Ma è l’anno della consacrazione della nuova potenza gialla e tre set bastano a ridimensionare le ambizioni statunitensi: arriva un argento.
«Eravamo tutti in lacrime – ricorda la sorella Suzanne – ma Florie (questo il suo nomignolo in famiglia, ndr) tornò a casa felice: aveva raggiunto il suo obiettivo, aveva lottato per una medaglia d’oro».
In campo per gli altri
Flo dirotta la popolarità del momento verso obiettivi sempre più importanti. Si unisce alla lotta per il Civil Rights Restoration Act, che obbliga i beneficiari dei fondi federali ad attenersi alle leggi sui diritti civili. Manifesta davanti al Campidoglio di Washington accanto alla star del basket Cheryl Miller per chiedere il potenziamento del Titolo Nove della Costituzione, che proibisce le discriminazioni sessuali nella selezione di programmi sportivi universitari destinatari di fondi pubblici.
Poi si trasferisce in Giappone, nel Daiei, che trascina dalla terza alla prima divisione. Progetta una carriera da allenatrice, ma intanto si lascia tentare dal cinema: è sul set del film L’Ordine dell’Aquila Nera, uscito nel 1987, un anno dopo la sua scomparsa.
L’ultimo fotogramma di Flo è sul campo, una leader in maglia verde che si arrampica dove nessuno arriva, a siglare il punto dell’ennesima sfida.
Flo non era consapevole di soffrire della Sindrome di Marfan, una patologia ereditaria che compromette il tessuto connettivo: la sua tragica fine ha consentito a molti atleti dopo di lei di esserlo, sollecitando a check-up preventivi la medicina sportiva.
A lei è intitolato un premio della Women Sports Foundation, che ha riconosciuto a Flo «dignità, spirito sportivo e inclinazione all’eccellenza», associando al suo nome campionesse come Chris Evert, Martina Navratilova, Bonnie Blair, Lisa Leslie. Tutte devono qualcosa a quella ragazzona dai riccioli neri e dal sorriso gentile che richiamò il suo Paese al rispetto della parità di genere e alla valorizzazione dello sport femminile, immolando la sua stessa vita alla passione di sempre.
«Spingere te stessa oltre la barriera – aveva detto – diventa un’abitudine. Se vuoi vincere una battaglia, devi essere pronta a pagarne il prezzo».
Graziana Urso
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