Quel campione di nome Luigino
Gigi Meroni raccontato dalla sorella Maria
Per lei è rimasto sempre Luigino. Il suo Gigi Meroni è il nipote, figlio del fratello maggiore Celestino, nato tre anni dopo la tragedia di Corso Re Umberto; vive a Los Angeles e scrive colonne sonore per i cartoon di Hollywood. Tra un viaggio e l’altro per gli Stati Uniti, a tener vivo il legame con l’unico sopravvissuto della famiglia d’origine, Maria Meroni trascorre la sua vita a Como, in via Anzani, nell’appartamento che Luigino regalò a sua madre con i primi guadagni da calciatore.
Luigino la chiamava Ciccia o Mariuccia, e l’amava con quel fare un po’ canzonatorio un po’ protettivo che si usa con le sorelle minori. «Alle feste dovevo fingere di non conoscerlo – racconta Maria a Storie di Sport – ma guai ad andare allo stadio da sola».
Oggi è lei a tutelare la memoria di Gigi Meroni, ma chi provi a cercare nei suoi occhi chiari la traccia della leggenda, ci troverà il rimpianto per un fratello riconosciuto speciale ancor prima della popolarità sportiva. Il ragazzo controcorrente che a due passi da Milano tifava Fiorentina, in barba alla passione per l’Inter di Celestino. «D’altronde Luigino è sempre stato diverso da noi, sia fisicamente sia caratterialmente. Noi schivi e introversi, lui un vulcano. Si figuri che la mamma, memore del suo ritardo del linguaggio, gli ripeteva continuamente: “Te parlaa tardi, ma pö te pü dismetü!” (Hai parlato tardi, ma poi non hai più smesso, ndr)».
Lo andavano a pescare all’oratorio di San Bartolomeo, dove giocava a calcio fino all’ora di cena, finché anche l’Inter non si accorse di lui. Ma il treno per Milano Gigi non lo prese mai: la signora Rosa, rimasta vedova giovanissima, non se la sentì di lasciar viaggiare da solo quel ragazzino di appena 14 anni. «Fu lei a prendere il treno, anni dopo – ricorda Maria – quando Luigino fu ingaggiato dal Genoa. Andava in Liguria una volta al mese per restarci dieci giorni. Non ha mai visto una partita dal vivo, l’unica volta che è entrata in uno stadio è stata per fare il giro del Marassi vuoto, sotto la guida di Luigino, che voleva mostrarle dove giocava. Io invece, prima che lui mi vietasse di farlo perché convinto gli portassi sfortuna, lo seguivo fin dai tempi del Como».
È nella squadra della sua città che Gigi fa il salto nel calcio professionistico. Lo rilevano dalla Libertas San Bartolomeo, che ne ricava in cambio nuove reti, qualche pallone e una cifra di cui don Sandro Botta, il parroco dell’oratorio, versa una quota alla signora Rosa. «Con i primi soldi – dichiara Maria – la mamma pensò bene di comprargli un vestito nuovo, così che si presentasse alla società in modo decoroso. Anche Celestino indossò la maglia del Como, ma lui aveva altri obiettivi: voleva studiare, e per un certo periodo poté anche frequentare l’università, grazie al sostegno finanziario di Luigino».
Gigi Meroni, invece, sognava il pallone. Lo scriveva anche in una delle lettere inviate alla famiglia da Mondovì, dove il Como lo aveva spedito per irrobustire il suo fisico gracile, prima del trasferimento a Genova: «Mi manca il pallone in maniera impressionante. L’altro giorno ho provato a farmi dare una palla e palleggiare: ma non è abbastanza, non ho nessuno a cui posso fare i tunnel, dribblarlo o che so io».
Il suo funambolismo conquista il Marassi e Luigino diventa Gigi. In famiglia arriva il telefono – «in quartiere eravamo tra i primi ad averlo», afferma Maria; lui fa su e giù da Como a bordo prima di una Seicento, poi di macchine sempre nuove fiammanti. «La mamma non approvava la sua passione per le automobili, ma lui trovava il modo di raggirarla. Capitava che a tavola si lamentasse dei freni dell’auto che voleva sostituire, così lei rispondeva: “Cambiala, cambiala, Luigino, ché per viaggiare ci vuole una macchina sicura“».
Arrivò anche il momento dei capelli lunghi e delle contestazioni. «Ci infastidiva la superficialità con cui veniva giudicato Luigino» ammette Maria, che però aggiunge divertita: «Lo sa che ci arrivavano perfino vaglia postali di 500 lire perché andasse dal barbiere?».
Il momento più duro per Gigi fu il Mondiale inglese. Edmondo Fabbri lo convoca ma non gli dà spazio: non è in campo contro la Corea, eppure è lui il capro espiatorio di quell’umiliante sconfitta. «Fu davvero ingiusto – si rammarica Maria – tanto accanimento proprio contro un giocatore che non aveva alcuna responsabilità rispetto all’eliminazione della Nazionale. Luigino era mortificato e anche molto contrariato con Fabbri, ben prima di tornare in Italia, tanto da dire a nostro fratello Celestino, che aveva già il biglietto in tasca per l’Inghilterra: “È inutile che tu venga: questo non mi fa giocare”».
Poco dopo, Gigi ritrovò Fabbri al Torino, dove però i rapporti di forza tra i due furono molto diversi: Meroni non provò mai per lui la stima che lo legava al suo predecessore, Nereo Rocco. «Il rapporto col Paròn fu straordinario», sostiene Maria, che ricorda la volta in cui Luigino ordinò a sua madre di preparare la polenta per l’allenatore, invitato a cena. Lo stesso a cui presentò Cristiana Uderstadt, il suo grande e contrastato amore, come sua sorella, e che in occasione della convocazione in Nazionale gli inviò un telegramma di congratulazioni con un sorprendente “Tanti baci” finale.
Un anno fa, Maria ha raccontato il suo Luigino a Pierluigi Comerio, che ha raccolto anche le testimonianze degli amici d’infanzia nel volume Gigi Meroni – una vita a tutto campo, edito da Carlo Pozzoni Fotoeditore. Un ritratto fedele del giovane vivace, affettuoso e appassionato che fu Luigi Meroni, oltre l’etichetta del personaggio anticonformista. «Quando mi è stato chiesto di tirar fuori dal cassetto i miei ricordi – precisa Maria – ho preteso che il libro fosse ben fatto, perché quando si parla di Luigino c’è chi usa il suo nome senza documentarsi. Prenda la fiction di Rai Uno: non c’era nessuna verità. Capisco le esigenze della narrazione televisiva, ma ho trovato inammissibile la rappresentazione di un dualismo – quello tra i miei due fratelli – inesistente nella realtà. Mio nipote Gigi, quando ha letto la sceneggiatura, si è rifiutato di scrivere la colonna sonora, come gli era stato proposto, evidentemente per scopi solo commerciali».
Maria ha presentato il memoir di Comerio davanti a sale gremite, soprattutto a Genova e Torino, le città in cui Gigi ha costruito il suo intramontabile mito. «Dopo la tragedia di Luigino io non ho voluto vedere una partita per anni – rivela – salvo poi ricominciare poco a poco a riavvicinarmi al calcio. Mi emoziona sapere che i suoi tifosi non lo abbiano mai dimenticato. Pensi che a Torino una donna mi ha mostrato un tatuaggio che ritraeva una farfalla, il numero sette, e le iniziali “G” e “M”. Avrà avuto cinquant’anni – una bambina all’epoca della tragedia; s’è fatta quel tatuaggio appena cinque anni fa».
Graziana Urso
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