Věra Čáslavská

 

vera

La protesta silente dell’ultima adulta

“Ceco, Ceco, Ra Ra Ra!”. È appena apparso il cartello “Checoslovaquia” e la delegazione olímpica sta entrando all’interno dello stadio di Città del Messico all’inaugurazione della XIX Olimpiade, la prima ospitata da una città latinoamericana. La favorita dei Giochi, tra le ginnaste più complete, marcia festosa in divisa salutando la folla, elegante nel tailleur scuro completo di guanti e cappello bianco, da cui scappa un ciuffo biondo. È una partecipazione importante, e Věra Čáslavská l’aspettava.

Prima di partire per il Messico, la squadra è in ritiro a Šumperk, ai piedi dei monti Jeseníky. Un luogo dove cercare di rilassarsi, ritemprarsi, focalizzarsi sull’obiettivo del podio. Věra tiene sotto controllo i giorni che mancano alla cerimonia d’apertura. Sono le tre del mattino e sotto alle finestre della palestra di Šumperk la gente urla: “Ci hanno invaso i russi! Ci hanno invaso i russi!”. Mentre i carri armati sovietici marciano in piazza Wenceslao, Věra vede sfumare il sogno messicano. Di fronte alla primavera di Praga e alla sua repressione, assieme al saltatore con gli sci Jiří Raška è una degli atleti firmatari del cosiddetto “Manifesto delle duemila parole”, che, in funzione antisovietica, auspica l’accelerazione al processo di liberalizzazione della Cecoslovacchia di Dubcek. Scappa sulle montagne, trasformando la foresta in un’altra palestra: quando la squadra è già in Messico per abituarsi all’altitudine e al clima, Věra è ancora in montagna, le mani callose per spalare il carbone, un tronco per trave, un prato per pedana. Il segretario sovietico Brèžnev trova un compromesso con le autorità ceche e all’ultimo momento a Věra viene accordato il permesso di partecipare ai Giochi Olimpici di Città del Messico.

La cerimonia inaugurale di Messico 1968

La cerimonia inaugurale di Messico 1968

 

L’edizione ha una forte connotazione politica già da prima delle gare, con gli studenti messicani in protesta sull’onda dei movimenti giovanili che infiammano l’occidente. Il momento più teso non avviene durante le competizioni ma sul podio: gli sprinter afroamericani Tommie Smith e John Carlos, primo e terzo nella finale maschile dei 200 metri, ascoltano l’inno senza scarpe, calzini neri, testa bassa e sollevano il pugno guantato di nero, portando il Black Power nel recinto sacro dello sport; la “libellula bionda” Věra Čáslavská, per ben due volte abbassa gli occhi e volge la testa a destra mentre suona l’inno sovietico e la bandiera russa sale sull’asta.
È chiaramente una protesta, davanti a tutto il mondo che guarda, verso la nazione che ha militarmente occupato la Cecoslovacchia. Una protesta individuale, che scaturisce da un’iniziativa matura, personale, rappresentata dal corpo adulto di Věra Čáslavská.

La ginnastica era fino a poco tempo prima una disciplina prettamente maschile: a Melbourne nel 1956 era la seconda volta che alle donne era concesso di competere per una medaglia individuale. Occorre spingere il corpo a estremi incredibili, ricercare la perfezione dei muscoli e l’eleganza della danza. Una delle prime stelle (e medagliatissima) della ginnastica è la russa Larisa Latynina, che viene dal balletto, ama particolarmente gli esercizi al suolo e porta la grazia sulla trave. “Ti prenderò un giorno”, si diceva Věra guardando le fotografie di Larisa quando a 12 anni decise di dedicarsi alla ginnastica, lasciando il pattinaggio, impegnandosi duramente per 5 ore al giorno. Quattro anni dopo partecipa al primo campionato del mondo a Mosca, arrivando ottava nel concorso generale individuale. L’oro alla trave ai campionati europei del 1959 è il suo primo podio internazionale.

Věra rappresenta la figura di contrasto alle russe sovietiche che dominano la disciplina: apporta una nuova freschezza negli esercizi, ha una tecnica brillante e un talento virtuoso, oltre che un nuovo modo di esprimere i sentimenti: aggiunge un’emozione che nella ginnastica non c’era, volteggiando tra la pedana e la trave con la pettinatura alzata come al ballo della scuola, mostrando un corpo straordinariamente femminile, ben lontana dal modello delle atlete bambine con i loro corpicini pre-puberali che prenderà sempre più campo. Alle Olimpiadi di Roma la Čáslavská è medaglia d’argento nella gara a squadra; ai Mondiali del 1962 Věra arriva seconda nell’individuale, argento dietro all’oro della Latynina. Due anni dopo, alle Olimpiadi di Tōkyō, il passaggio di consegne: Věra è davanti a Larisa, oro nella trave, nel volteggio e nel concorso individuale; argento nel concorso a squadre, dietro alle solite russe. Alla fine di Tōkyō l’atleta ceca è la nuova regina.

Vince tutte le medaglie agli Europei del 1967. I giudici non sono preparati per il risultato di trave e corpo libero e alla fine si alza un cartello: 1.00. Come accadrà per Nadia Comăneci ai Giochi di Montréal nel 1976, è il punteggio perfetto che le macchine non riescono a registrare: 10. Nel 1968 Věra deve soprattutto difendere il titolo nell’all round. Continua vincendo l’oro al volteggio e alle parallele, ma alla trave i giudici assegnano un controverso punteggio alla russa Natalia Kuchinskaia, che guadagna il primo posto. Probabilmente nella testa di Věra risuonano i carri armati sovietici in marcia per le strade del suo Paese. I giudici vengono contestati, ma l’oro è russo. Sul podio, Věra allontana lo sguardo dalla bandiera più alta e tiene gli occhi bassi per tutta la durata dell’inno. Venti secondi di mascella serrata, posa composta, altera protesta velatamente malinconica.

Al corpo libero la libellula è l’ultima a gareggiare. Larisa Petrik ha preso un 9.900 ma ha un punteggio più basso negli obbligatori. 9.900 è il punteggio da battere. Věra ha scelto di esibirsi con “Jarabe Patatio – The Mexican Hat Dance”, in omaggio alla nazione ospitante i Giochi. Una musica su cui si muove con ironia, destrezza, ma anche severità e dolcezza. Una prestazione eccellente che viene premiata con un 9.900. La folla è in delirio, i giudici si riuniscono e decidono che il punteggio precedente negli obbligatori della Petrik va aumentato. La Čáslavská si ritrova così a dividere il podio con la rivale sovietica. Ancora una volta, quando attaccano le note dell’inno russo Věra, chiaramente scoraggiata e arrabbiata, abbassa lo sguardo verso destra e diventa la statua malinconica di disapprovazione che non versa lacrime.

Un fermo-immagine dal podio

Un fermo-immagine dal podio

 

Diventa un’eroina.

Il Messico la porta ad essere la seconda donna più popolare del pianeta dopo Jackie Kennedy. Conclude l’edizione dei Giochi con una medaglia in ognuna delle sei manifestazioni della ginnastica: oro nell’all round, nel corpo libero, nelle parallele asimmetriche e al volteggio, argento nella trave e nella gara a squadre. Poco lontano arrivano i fiori d’arancio a cinque cerchi: Věra sposa il connazionale nonché collega olimpionico Joseph Odlozil, argento nei 1500 metri a Tōkyō. Il ricevimento è nell’affollato villaggio olimpico; la luna di miele sarà a Capri, in Italia. Sarà l’ultimo momento dolce di vita.

Il ritorno nella Cecoslovacchia occupata è amaro: la “sposa di Città del Messico” è considerata “persona non gradita”. Joseph viene espulso dall’esercito, Věra è costretta al ritiro dalle competizioni, la sua autobiografia è autorizzata per la pubblicazione solo in Giappone e comunque in una versione severamente revisionata dal governo ceco. La libellula si guadagna da vivere come donna delle pulizie, rifiutandosi di ritrattare le sue convinzioni politiche (contrariamente al fondista Emil Zátopek). Intanto, ogni 3 gennaio dal 1970 fa domanda di assunzione per un lavoro nella nazionale di ginnastica. Nel 1979 è ancora il Messico a darle rifugio: ha il permesso per allenare la nazionale messicana per due anni; al suo ritorno le è concesso di allenare lo Sparta Club di Praga (senza però poter viaggiare fuori dallo stato). Quando nel 1984 il presidente del CIO Juan Antonio Samarach si reca in visita al Paese, chiede di poter incontrare la Čáslavská: gli viene risposto che non è possibile in quanto l’ex atleta stava affrontando “problemi familiari”. Dopo due figli s’incrina il rapporto col marito. L’anno dopo Samarach ritorna per consegnarle l’Ordine Olimpico e le autorità si placano. L’anno dopo è Věra ad allenare la nazionale ceca per le Olimpiadi del 1988.

Nel 1989 cade il muro di Berlino, l’Unione Sovietica va in frantumi, la Cecoslovacchia è divisa in due. Si torna a parlare della Čáslavská che è eletta consigliere per lo sport dal presidente Václav Havel, ex poeta e drammaturgo. Si schiudono le porte del Cio ma la tragedia è in agguato in famiglia: nel 1993 il figlio Martin e l’ex marito Joseph sono coinvolti in un alterco all’interno di un bar. Joseph muore per mano del figlio e nemmeno il presidente Havel riesce a far avere al ragazzo la grazia. Věra entra in un tunnel di depressione che la porta al ricovero, si ritira dalle cariche pubbliche.

Ma la libellula non smette di volare. Entra nella International Gymnastyc Hall of Fame, attraversa la crisi in silenzio, come suo carattere e dopo 16 anni torna sulla scena con un film autobiografico della regista ceca Olga Sommerova che ne ripercorre la carriera e la vita privata, film che nel 2013 verrà premiato con il Magnolia International Documentary Award. L’ambasciatore del Giappone Chikahito Harada la premia con l’Ordine del Sol Levante. E finalmente l’ultima adulta della ginnastica può raccontare tutti i volteggi della sua vita. Senza censure nemmeno per se stessa.

Melania Sebastiani
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