Steven Bradbury
L’atleta del “fattore C”
«Non ero certamente il più veloce, ma non penso di aver vinto la medaglia col minuto e mezzo della gara. L’ho vinta dopo un decennio di calvario».
Alle Olimpiadi di Salt Lake City del 2002 l’australiano Steven Bradbury, prossimo al ritiro dal pattinaggio, sigla la sua carriera con il miglior risultato possibile alle Olimpiadi, oro nei 1000 m individuali dello short track, tra chi grida allo scandalo, chi grida alla favola, chi grida all’importanza del fattore “C”.
Bradbury è lo sfavorito da subito ma procede. Ai quarti di finale è ultimo a un giro dalla fine. Il giapponese Naoya Tamura viene toccato dal canadese Marc Gagnon e Bradbury guadagna una posizione piazzandosi al terzo posto, dietro al diciannovenne idolo di casa statunitense Apolo Ohno e a a Marc Gagnon. Il canadese viene però squalificato per aver causato l’incidente al giapponese: l’australiano si ritrova al secondo posto e passa la fase eliminatoria.
Nella semifinale gli avversari di batteria sono il cinese Li Jiajun, il canadese Mathieu Turcotte, il sudcoreano Kim Dong-Sung – che difende il titolo – e il giapponese Satoru Terao. Come in una barzelletta, il gruppo parte compatto distaccando l’australiano, ma nell’ultimo giro il coreano perde aderenza e cade, mentre negli ultimi metri tentando il sorpasso si eliminano il cinese e canadese. L’australiano si ritrova secondo dietro al giapponese: tanto basta per qualificarlo alla finalissima. I giudici penalizzano Terao per un illecito in realtà commesso da Jiajun, che viene ripescato al suo posto: Bradbury accede alla finale per primo. In gara, oltre a Bradbury, ci sono Li Jiajun, Apolo Ohno, il coreano Hyun-Soo Ahn e il ripescato Mathieu Turcotte.
Sin dalla spinta iniziale è evidente che l’ossigenato australiano non ha il ritmo della pattinata vincente. A due giri dalla fine è completamente staccato dal gruppo. A 20 metri dal traguardo comincia la battaglia per il podio: i pattinatori cadono, trascinandosi a vicenda, come birilli al bowling. Prima Jiajun, che scivola dopo una serie di spinte con Ohno, il quale perde l’equilibrio vedendo sfumare l’oro, aggancia il vicino sudcoreano e lo trascina a terra, mentre questi coinvolge nella caduta anche Turcotte.
Bradbury è indietro, rallenta per vedere lo strike sul ghiaccio, e poi fila con il suo stile poco aggressivo verso la fine: è l’unico rimasto in piedi sul ghiaccio. Completa il giro in 1 minuto e 29 secondi. È oro. Uno degli ori più incredibili dell’intera storia dei Giochi. Il primo oro della storia per l’Australia alle Olimpiadi Invernali.
Ohno si trascina verso il traguardo a fatica: è argento. Turcotte scivola verso il bronzo. Jiajun è squalificato. Il favoritissimo statunitense commenta: «È la miglior gara della mia vita». Coronata da una medaglia e sei punti nell’interno coscia sinistro.
Il sorriso goliardo di Steven Bradbury, ventinovenne a fine carriera che mostra la medaglia del metallo più prezioso, passa alla storia come l’immagine del caso che si fa beffe dello sport, con un campione favorito sanguinante e gli atleti atterrati con impaccio e incredulità. Tuttavia, percorrendo la vita di questo ragazzo, forse è lo sport che si fa beffe del caso.
La carriera
Steven nasce il 14 ottobre 1973 in un sobborgo di Sydney, in una zona dove gli sport principali sono surf, cricket e pallanuoto. Lui sì, pratica surf, ma sceglie il ghiaccio, abbinando la tavola ai pattini sin dall’età di 8 anni. Con ragione: ha talento e determinazione. Il padre stesso era un campione nazionale. A Salt Lake City l’australiano è alla sua quarta Olimpiade. Ha alle spalle risultati di rilievo: ben tre medaglie nella staffetta ai Mondiali di short track: la prima a 16 anni, oro; la seconda a Guildford, argento; la terza a Pechino, un bronzo.
A Lillehammer, nel 1994, conquista con la squadra della staffetta il primo titolo olimpico australiano assoluto ai Giochi Invernali: un bronzo (l’oro è dell’Italia).
Poi, nel corso della prova di qualificazione individuale dei 1500 metri per i Mondiali a Montreal, la tragedia sull’ovale: Bradbury è in testa, ma in un sorpasso cade e la lama dell’italiano Mirko Vuillermin gli penetra nella gamba recidendo l’arteria femorale. Steven sviene, perde 4 dei 6 litri di sangue, gli vengono dati 11 punti di sutura.
«Credo di essere stato terribilmente fortunato», dichiarerà nelle interviste successive.
Sembra la fine ma è solo l’inizio: l’inizio di una lunga riabilitazione, il secondo tempo di un sogno interrotto, il primo tempo di un riscatto.
L’australiano torna sul ghiaccio e a poco a poco recupera i suoi tempi. Ma il caso si accanisce ancora contro di lui. Nel 2000 cade in allenamento e si rompe due vertebre del collo. Bradbury però vuole un’altra medaglia e decide di meritarsi un terzo tempo. Diciotto mesi dopo porta quel collo infortunato a Salt Lake City 2002.
La vita risponde: dalle qualificazioni alla finalissima, a vincere non è il più veloce o il più forte, bensì il brutto anatroccolo che aveva perso le ali ma voleva volare.
La lezione di Bradbury
Un epilogo scontato, talmente incredibile da non sembrare vero. Eppure, la vicenda di Bradbury è la più pura essenza dello sport, che pone sfortuna e sfortuna come facce della stessa medaglia; che prima promette successi e poi li trancia; che premia con una rutilante vittoria dopo una carriera travagliata, non all’altezza delle premesse; che allo sberleffo della vita risponde… restando in piedi.
Steven Bradbury era un apprezzato sportivo sin da prima di Salt Lake City: suo l’onore di portare la torcia olimpica nella tappa di Brisbane in occasione dei Giochi di Sydney. Sua la tecnica che migliorò il tempo negli scambi della staffetta e portò il team australiano alle Olimpiadi per quattro volte consecutive.
È diventato una celebrità: commemorato dal suo Paese con un francobollo, oggi gira il mondo dando conferenze motivazionali e portando in giro spettacolo comici. È sposato, con tre bambini, di cui due gemelli.
Si dedica all’automobilismo, alla televisione, ai discorsi in pubblico. Dal suo sito internet si definisce con sfrontatezza e umiltà un professionista: prima un campione olimpico, poi uno speaker.
È diventato anche un modo di dire: l’espressione “doing a Bradbury”, “fare il Bradbury”, è entrata nel linguaggio comune come sinonimo di rocambolesco e insperato successo anche al di fuori della terra down under. Contro ogni pronostico, contro ogni aspettativa, contro ogni verosimiglianza, contro tutto e tutti, chissà quanti, tra gli sportivi e non, sarebbero davvero pronti ad aspettare per 12 anni un’occasione che si presenta all’improvviso, ed “essere un Bradbury”.
Melania Sebastiani
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