Carlos Monzón
Una vita oltre il limite
Una lunga strada diritta, una macchina che procede ad altissima velocità: in un tentativo di sorpasso il conducente ne perde il controllo, l’auto sbanda e si rovescia sull’asfalto cominciando a rotolare lungo la carreggiata e sbalzando i corpi dei due passeggeri a più di cinquanta metri dal punto in cui terminerà la sua corsa.
I primi soccorritori si rendono subito conto del dramma che si è appena consumato, i corpi sono orribilmente maciullati, solo uno di loro ha il viso incredibilmente intatto, i suoi lineamenti sembrano scavati nella pietra: è l’uomo che annientò il campionissimo della boxe italiana.
L’inizio di una carriera di successi
Roma, 7 novembre 1970: Nino Benvenuti, campione del mondo dei pesi medi da oltre due anni, mette in palio il suo titolo contro un semisconosciuto argentino. Il match voluto dal suo manager Bruno Amaduzzi sembra una pura formalità, invece non sarà così. Alla dodicesima ripresa, infatti, un perfetto gancio al volto cambierà il destino e la carriera del pugile triestino e di colui che lo sconfisse.
Carlos Monzón divenne campione del mondo a 28 anni, dopo una carriera professionistica iniziata addirittura nel 1963 e spesa per molta parte in oscure riunioni di periferia dove per pochi soldi accettava perfino di combattere tre volte al mese.
Sesto di dodici figli, alcuni dei quali morti in giovane età ed altri invece rimasti vittime di vite al limite della legalità, Monzón era nato a San Javier il 7 agosto 1942 ma si era trasferito con la famiglia quasi subito a Santa Fè dove scoprì la boxe quasi per caso, come ultima spiaggia utile per evitare un futuro da piccolo criminale che un’infanzia poverissima e trascorsa sulla strada tra lavori di fortuna e piccoli furti sembrava presagire.
Ad intuirne le doti fu un tale Amilcar Brusa che da scopritore ne diventerà poi anche il manager e l’amico di tutta una vita.
Sei mesi dopo, l’8 maggio 1971, sul ring di Montecarlo, Benvenuti tenterà di riprendersi la corona dei pesi medi, ma basteranno tre sole riprese a convincere il suo stesso manager a porre fine a quell’impari confronto gettando sul quadrato la spugna della resa.
L’indio di Santa Fè si prese il mondo e noi passammo sette lunghi anni ad aspettare l’avversario giusto, la sera giusta, il momento in cui finalmente avremmo visto qualcuno vendicare il “nostro” Nino, ma quel giorno non arrivò mai.
Monzón continuò a vincere con la disarmante superiorità degli eletti, in virtù di una forza e di una resistenza che nessuno riusciva a scalfire. Era un peso medio anomalo, per la sua altezza, un metro e ottantaquattro centimetri, per quell’allungo degno di un mediomassimo e per quel pugno pesante come una sassata.
Lo guardavi e sapevi già prima di vederlo combattere che avrebbe vinto lui, perché nel profondo dei suoi occhi scuri non c’era ombra d’incertezza, e da lì arrivavano tagli di luce che mettevano paura, erano lame affilate che potevi solo intuire da quali e quanti dolori provenissero, non di certo arrestarle. La sua boxe mai elegante era un concentrato di resistenza e potenza, il tutto sublimato da una fredda spietatezza e da una capacità di soffrire ed incassare che non aveva eguali. Ne saprà qualcosa l’americano Benny Briscoe, uno dei pugili più potenti in circolazione all’epoca, da lui sconfitto ma che lo vide letteralmente rinascere dopo averlo ripetutamente colpito fin quasi a portarlo sul limite del KO.
Le corde del ring e quelle della sua inquietudine
Monzón non si arrendeva mai perché la vita gli aveva insegnato a fare così, da quando sulle strade polverose di Santa Fè aveva imparato che arrendersi una volta avrebbe significato perdere per sempre.
Sui suoi lineamenti di pietra, scolpiti dal vento e dalla fame andarono così ad infrangersi, uno dopo l’altro senza esito alcuno, i pugni e le speranze di campioni come Emile Griffith, sconfitto per KO tecnico alla 14° ripresa il 25 settembre 1971 e successivamente ai punti il 2 giugno 1973, il francese Jean Claude Bouttier, superato per abbandono alla 12° ripresa il 17 giugno 1972 e ai punti, dopo tre atterramenti, nella rivincita del 29 settembre 1973, il già citato Benny Briscoe con verdetto ai punti dopo 15 devastanti riprese l’11 novembre 1972, e l’elegante campione cubano dei pesi Welter Josè Napoles, uno di cui si diceva che i colpi gli scivolassero addosso come sul burro, ma che dovette gettare la spugna al 6° round il 9 febbraio 1974.
Sul ring Carlos Monzón era imbattibile: tra quelle dodici corde che delimitavano il suo mondo e le possibilità di scelta e di errore lui era il migliore, un uomo di sole certezze. Fuori era diverso, lì tra le tante variabili che la vita offriva lui si perdeva, non riusciva a trovare la sua via e così cominciò presto a dilapidare una ingente fortuna economica ed a buttarsi via in avventure galanti senza alcun senso e futuro. Fu a causa di una di queste, che una sera la madre dei suoi tre adorati figli, Beatriz Mercedes García, accecata dalla gelosia gli scaricò contro una pistola. Monzón se la cavò per fortuna con pochi lievi danni, ma nella schiena si portò dentro per sempre il ricordo metallico di quella disavventura.
Intanto all’alba del 1974 la sua dittatura comincia forse a dare un po’ fastidio, fatto sta che la World Boxing Council, una delle due associazioni che organizzavano l’attività pugilistica a livello internazionale, decide di togliergli il titolo mondiale dei pesi medi in conseguenza del suo rifiuto a difenderlo contro il colombiano Rodrigo Valdes.
Monzón non fa una piega e continua a combattere per la World Boxino Association, seminando vittime su vittime, tra cui Tony Mundine, che resistette sette riprese, Tony Licata dieci e il picchiatore francese Gratien Tonna liquidato in 5.
Rodrigo Valdes nel frattempo, sconfitto Briscoe nello spareggio valido per il titolo vacante WBC, chiede di diritto l’opportunità di un incontro per l’unificazione del titolo mondiale e Monzón questa volta accetta.
È il 26 giugno 1976, il ring è quello di Montecarlo, il parterre quello delle grandi occasioni, tra i presenti anche alcuni amici del pugile argentino, come gli attori Alain Delon, David Niven e Jean-Paul Belmondo. Il campione non delude le loro attese e dopo 13 tiratissimi ed equilibrati round trova il modo alla quattordicesima ripresa di atterrare il forte avversario. Valdes si rialzerà, ma quell’episodio gli costerà il match.
Monzón ormai è un uomo di 34 anni, ricco e corteggiato, con flirt più o meno dichiarati con modelle ed attrici, e pian piano si sta facendo largo in lui l’idea di poter vivere bene anche senza il pugilato. Chi lo conosce del resto sa quanto gli costi ultimamente sottoporsi agli estenuanti sacrifici ed allenamenti che la preparazione di ogni nuovo incontro comporta, è sempre più facile vederlo infatti cadere vittima di improvvisi attacchi di ira che lo portano a frantumare qualsiasi cosa gli si ponga di fronte, porte, sedie, bottiglie.
L’uomo probabilmente è al limite della sopportazione, quel grido di rabbia tenuto chiuso dentro per tutti quegli anni e che ha costituito la sua forza ed il suo segreto, adesso sta diventando un peso impossibile da sopportare e allora decide che la rivincita contro Valdes sarà la sua ultima recita in calzoncini e guantoni, qualunque ne sia l’esito.
Trenta luglio 1977, ancora Montecarlo, Rodrigo Valdes in calzoncini bianchi e bande nere, inizia danzando e giostrando da abile schermidore qual è, Monzón è un convitato di pietra in calzoncini neri con bande rosse che osserva, para e ogni tanto cerca di offendere con qualche colpo di sbarramento, ma il colombiano pare intenzionato a fare sul serio quella sera e lui lo sa, così come sa che al termine di quel match si spalancherà per lui il luccicante mondo del cinema.
Al secondo round però il campione è già contato; al quarto diretto destro subito nel giro di pochi secondi il suo ginocchio si è piegato ed ha toccato terra. La folla ha un sussulto, l’arbitro prontamente lo conta in piedi, la velocità e la tecnica di Valdes hanno scoperto le carte: adesso il re è nudo, come farà a frenarne l’irruenza?
Monzón è un animale ferito, ferito nell’orgoglio, sente lo stupore del pubblico, capisce che neppure questa sera può giocare di mestiere e allora eccolo ricostruirsi piano piano, colpo dopo colpo, finché i suoi guantoni gialli cominciano ad abbattersi sul colombiano con sempre maggiore pesantezza e all’alba del decimo round ne sorprendono la difesa con un colpo d’incontro che lo fa vacillare fino a rischiare l’atterramento. Valdes è un campione pure lui e resiste in piedi, ma il veloce schermidore dei primi round ora è una fragile farfalla braccata che rischia ad ogni secondo di venire schiacciata; ci vuole tutta la sua classe e la sua sapienza pugilistica per evitarlo e per tentare nelle ultime riprese un disperato tentativo di recupero, ma ormai il campione argentino ha ripreso il controllo delle operazioni ed il verdetto alla fine gli sarà ancora una volta favorevole.
L’omicidio di Alicia
Dopo l’abbandono dell’attività agonistica la vita di Carlos Monzón sarà un discesa a rotta di collo verso l’oblio e le tenebre dalle quali era venuto e da cui per tanti anni era riuscito a rimanere lontano, svaniranno i soldi, poi gli amici ed in fretta anche il sogno del cinema, finché la sera di San Valentino del 1988, in preda all’alcool e ad una delle sempre più frequenti crisi di rabbia, si avventa sulla compagna e madre del suo quarto figlio, Alicia Muñiz e quasi senza rendersene conto la uccide e la getta giù dal terrazzo del residence di Mar del Plata dove sono ospitati.
Il tribunale non ha dubbi, è omicidio, e per l’ex campione si spalancano le porte del carcere di Las Flores dove negli anni di reclusione avrà modo di riflettere e capire forse molti degli errori commessi, oltre ad iniziare ad apprezzare le buone letture ad avvicinarsi a Dio e diventare un appassionato costruttore di modellini di navi.
Nessuna amicizia influente, neppure quella del presidente argentino Carlos Menem, poterono nulla per mitigarne la condanna, uscì solo per buona condotta dopo sette degli undici anni a cui era stato condannato usufruendo di un permesso che gli imponeva però di rientrare a dormire in carcere ogni sera.
Fu per uno di questi rientri che Carlos Monzón quella sera del dicembre 1995 stava correndo al volante della sua auto a oltre 140 chilometri all’ora sulla strada che da Los Carrilos l’avrebbe dovuto portare a Las Flores.
Una vita oltre il limite la sua, una vita che se mai ha avuto un ordine, quello va ricercato solo tra le dodici corde del ring, l’unico posto in cui l’eroe cattivo di un mondo crudele e miserabile sapeva prendersi le sue rivincite contro tutto e tutti.
Molti tra quelli che lo avevano esaltato, temuto e del quale si erano vantati di essere amici, diranno che la sua era una fine già scritta, ma la gente, quella più modesta, quella del popolo, il suo popolo, scriverà su uno striscione il giorno delle sue esequie: “Anche se una stella muore, la sua luce continua a brillare”.
Carlos Monzón ancora oggi è ricordato come un mito in Argentina, come il campione imbattibile che rendeva orgoglioso delle sue origini tutto un paese; il più grande peso medio della storia o forse uno dei due più grandi, di certo non sarà mai un esempio da seguire o imitare, ma negli ultimi tempi si vergognava molto degli errori commessi e in mezzo a tanti sbagli l’unica costante che non l’aveva mai abbandonato era stata la infinita tenerezza provata sempre per i suoi figli, forse quella che a lui era mancata, e che si era sepolto dentro in un grido di dolore mai svelato.
Carlos Monzón aveva 53 anni quando si arrese all’unico avversario che non era mai riuscito a sconfiggere: se stesso.
Marco Tonelli
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