Laura Ravani
L’Ultramaratona: una sfida oltre la montagna
È la follia l’ingrediente segreto che rende le imprese epiche. La sfida di un record che sembra impossibile; il confronto che pare irrealizzabile con un elemento inanimato, come la montagna; la lotta già persa contro il tempo che passa, contro la pelle che perde elasticità e le gambe che perdono agilità; un certamen sospinto dalla primordiale sete di fama e notorietà, combinato con il sincero desiderio di conquista, di fuga dalla routine, di migliorarsi e, almeno un pochino, migliorare anche il mondo.
È così che nasce la Pistoia-Abetone. Con follia, sfida, competizione, conquista, fuga, desiderio di migliorarsi. Artidoro Berti decide un giorno d’autunno del 1968 di dimostrare la fatica della maratona e da Pistoia, la sua città, si accinge ad andare all’Abetone di corsa. Lungo la strada il passaparola raduna gruppi di curiosi che dalla pianura alla montagna accorrono ad applaudirlo. Il viso scavato, gli occhi cerulei, il volto buono, Artidoro attraversa il comune con determinazione e tenacia: ama talmente la corsa da aver chiamato la figlia Maratona e porta nel cuore il ricordo delle Olimpiadi di Helsinki, dove corre i 42 km con la febbre pur di esserci.
Berti arriva in piazza delle Piramidi dove lo attende l’amico Zeno Colò, assieme a giornalisti e curiosi. Sono passate poco più di cinque ore. È la scintilla che fa nascere la classica del podismo di montagna: l’ultramaratona Pistoia-Abetone che quest’anno compie 40 anni, una competizione che si snoda su 50 km di cui 33 in salita.
La miccia della Pistoia Abetone
È sempre quella montagna che nel 2011 riaccende la passione per la corsa di Laura Ravani, lunigianese di nascita e pistoiese d’adozione. Di professione neuropsichiatra, a 36 anni, guardando il panorama innevato dell’Abetone, decide di voler correre quella gara e si avvicina alla corsa non come una neofita in punta di piedi, ma con il passo determinato di chi riconosce la follia di un’impresa e vuole portarla a fondo.
È sotto la guida di Massimo Santucci che Laura ritrova le scarpe da ginnastica che non utilizzava dalle corse di scuola.
«Mi ero fatta male a 15 anni non ho più fatto gare», spiega.
Correre è uno slancio interiore che rigenera.
«È così ancora ogni volta – , racconta Laura, – sono partita proprio da zero. Nella preparazione ho cominciato a fare maratone e ricordo che nel 2012, quando ho tagliato il traguardo della mia prima 42 km, di quella di Firenze, ho pensato che fosse semplice averla già finita. Così dopo tre settimane ho corso quella di Pisa e in Primavera è arrivata la prima ultramaratona».
A poco a poco il mondo delle gare di resistenza si svela alla Ravani: esistono anche maratone che durano sei giorni. E ci sono primatiste di specialità: Monica Casiraghi, che detiene il record italiano sui 100 km e sulla 24 Ore, ma anche Luisa Zecchino e Monica Barchetti.
È nel corso di un viaggio a Parigi che Laura guarda il marito Alessio e dice: «io voglio fare queste gare qua».
Il marito le risponde: «vedrai, vedrai», come si dice nelle sfide che paiono improbabili.
“Queste gare qua”
Comincia con un giorno: 24 ore di corsa. Da preparare in tre settimane. Quella che Laura definisce la “decisione perfetta”: la 24 Ore diventerà la sua specialità. «Nella mia vita avevo corso di filato solo per poco più di 60 km. Il mio allenatore mi propose, forse in modo avventato, la 24h di Grenoble. Si sarebbe tenuta dopo tre settimane. Io non ho avuto esitazioni. Non avevo idea di cosa si trattasse, non riuscivo nemmeno a immaginare cosa significasse correre 24 ore. Immaginavo me, al mattino, al suono della sveglia e la stessa sveglia del mattino seguente. Nel solito tempo in cui avrei fatto colazione, sarei andata al lavoro, avrei pranzato, fatto aperitivo con amici, magari una serata e dormito, io avrei solo corso. Sono partita come una kamikaze: spedizione in camper con allenatori e marito, meteo sfavorevole, ansia, quell’orribile pastone della cena pre-gara (la cena prima di una competizione è importantissima!) che ho snobbato per rubare pizza e birra francese ai compagni di avventura, l’ossessione di rispettare la tabella…».
Qual era il tuo tabellino di marcia?
«Inizialmente un’andatura molto tranquilla: 61-62 km le prime sei ore, 50 km nelle seconde sei ore, dopodiché tutto quello che sarebbe venuto andava bene… anche se nella testa c’era come obiettivo quello di superare almeno 185 km».
Sei riuscita a rispettarlo?
«Le prime ore sono scivolate veloci, mi sono anche goduta un po’ dello spettacolo della corsa: ho il ricordo di una una coloratissima festa. Ho anche imparato qualche parola di incitamento in francese. Poi però la stanchezza prende il sopravvento: dal ritmo cadenzato regolare entro in uno stato quasi di ipnosi dove non c’è più il tempo e le dimensioni cambiano. Penso a tutto e a niente. E di notte vedo gatti, i miei gatti».
Allucinazioni?
«Eh sí! Mi attraversano la strada!».
Sono stati propizi, quei gatti di casa, nell’apparizione notturna a Grenoble. Uno scherzo della mente che vuole ritrovare il comfort domestico sotto 100 km di pioggia incessante. È un’esperienza inarrestabile che si tinge presto d’azzurro: dopo pochi mesi arriva infatti la convocazione in nazionale per il Mondiale 24 Ore d’Olanda.
«Quando arriva il pacco ufficiale è un vortice di emozioni che si sprigiona dai colori del tricolore: la canottiera azzurra, quelle lettere che formano la parola “Italia” che si dispiegano nel guardare i vestiti,… ».
Qual è stata la cosa più difficile?
«Mettere insieme l’Ultramaratona con il lavoro. Io corro 13/14/16 ore a settimana quando devo preparare il Mondiale. E quando sei lì che hai la maglia della nazionale, stimolata da chi ti segue, senti la pressione, raddoppi l’impegno. A volte in allenamento ci si fa proprio male, va affrontata la pesantezza di non correre, va evitato il rischio di correre troppo e arrivare affaticati,… io poi sono proprio una principessina, mi faccio male con niente: se uso delle scarpe che non van bene sto male, se mangio qualcosa che non va bene e sto male,.. tutto è calcolato al millesimo e in questo ho sorella e marito che mi curano come neonato».
Un fatto di famiglia
«La corsa è un fatto di famiglia. Non si prepara una gara simile da soli. Io poi sono particolarmente accudita: nelle notti delle 24 ore quando scende il buio si alza il freddo, occorre bere e mangiare continuamente, solo che le bibite vengono fredde, ecco allora che mia sorella mi scalda l’acqua con il pentolino. E gli sguardi di mio marito e della mia famiglia sono sempre lì, ad accompagnarmi mentre macino chilometri, montano prima il gazebo, assistono in ogni aspetto in ogni momento della gara, mi rialzano quando cado addormentata, controllano me e le mie allucinazioni. Ormai le riunioni familiari sono dominate dalle mie corse: il babbo mi accompagna con bici, la mamma prepara i cibi dedicati, mio marito Alessio per fortuna collabora, orgoglioso, non sempre contento».
Come mai?
«Beh, quando il corpo lo sottoponi a determinate cose ti presenta il conto.
Nell’ultima 24 ore a settembre 2014 in Svizzera quasi ci ho lasciato le penne: sono partita con influenza, un po’ di febbre, avevo scosse in corpo, contrazioni alle mani, eppure volevo migliorare il mio primato, mi hanno dovuta chiudere in automobile per togliermi dalla gara. Poi è arrivata pericardite fino a dicembre. Nel mio ricordo l’ho chiamato “Cronaca di un disastro annunciato” ».
E meno male che sei medico…
«Correre tante ore significa dialogare con se stessi: da medico sento la mia voce intimare “fermati sciocca!”, da appassionata sento la voce che spinge, che inneggia “vai che si fa il personale!”. Se devi fare certe prestazioni, credo che debba prevalere la parte folle. Sono gare che ti mettono in difficoltà. In particolare in quel momento difficile ho avuto dei flash dei miei studi di Fisiopatologia. Mi ero accorta che scendevano solo poche gocce di pipì. Troppo poche. La testa recitava parti del mio manuale: “la disidratazione può dare insufficienza renale acuta. Se per più di 6 ore il flusso urinario è inferiore a 0.5 ml per kg di peso corporeo si va incontro a danno renale, squilibrio acido base, ipocalcemia e iperpotassiemia, con disorientamento, contrazioni, parestesie, aritmie cardiache, nausea, et cetera..” Però c’è voluta la famiglia per infilarmi a forza in auto!».
La tua gara memorabile?
«Quella su cui ho fatto il mio record personale a Basilea: 204 km sui 250 km che sono record mondiale. Poche atlete a livello italiano vanno sopra, è tra i migliori risultati nazionali di tutti i tempi sull’Ultramaratona. E punto a migliorarlo!».
Cosa ti carica?
«È tutta una questione della mia testa, devo essere positiva nei pensieri. In allenamento mi capita che se mi vien in mente un paziente, un problema quotidiano rallento, mi vien l’angoscia e non corro più. Non devono essere pensieri frivoli ma propositivi. Ed è chiaro che devi stare bene sia fisicamente che mentalmente per avere pensieri positivi».
Suona terapeutico.
«In un certo senso lo è. Ormai a Pistoia ho contagiato anche qualche paziente. Mi vedono correre tutti, continuamente, anche di notte. Per un periodo abbiamo organizzato in ospedale un gruppo di corsa, dove uscivamo due volte a settimana. Abbiamo anche ideato una gara competitiva che passava dal vecchio manicomio. È stato emozionante ma non abbiamo potuto continuare a causa dei tagli di fondi».
Ha corso davvero ovunque Laura: sulla sabbia, nello sterrato, dalle vie di Pistoia, mentre la città festeggia il Festival Musicale, la si vede sfrecciare, incurante dei turisti e degli appassionati di musica, con i suoi guanti e le sue cuffie nelle orecchie. Quasi un’apparizione fantasma, concentrata in una sfida che è tutta nella mente.
Ma poi l’hai fatta la Pistoia Abetone?
«Ovviamente! L’ho fatta tre volte per ora, e posso dire che è la gara che temo di più. Un po’ perché è caldo e io soffro molto la temperatura. Un po’ perché è lì che è cominciato tutto. Abbiamo corso in tutta Italia, da nord a sud, oltre i confini italiani, per quella montagna».
Abbiamo chi?
«Io e la mia famiglia! Sorella, marito,.. sono state studiate anche le magliette, ci siamo nominati “team Tuentiforavar».
Adesso ti appresti a correre un altro Mondiale, l’11 aprile a Torino. Ti ha fatto meno effetto ricevere la maglia della nazionale?
«Assolutamente no: la divisa azzurra significa orgoglio, gioia, ma anche paura. Sembra sempre di non meritarlo, non fare mai abbastanza. A questo mondiale mi piacerebbe riuscire ad avere una buona performance, soprattutto per contribuire al punteggio di squadra. Le mie compagne, molto forti, meritano che io contribuisca con un risultato degno».
Per aumentare il rendimento la medicina aiuta?
«Essendo innanzitutto un medico, sono contro l’assunzione di sostanze stimolanti, ma credo che nel nostro sport il doping prevalga fino a un certo punto: è l’aspetto mentale che è fondamentale. Poi se ti dopi vai più forte ma la vittoria è nella testa. Per quanto riguarda il mio mestiere devo dire la psichiatra e l’ultramaratoneta hanno molte somiglianze: devono andare oltre, trovare strategie diverse, combattere contro quello che sembra impossibile, e questo in psichiatria accade sempre con pazienti. Per cui vanno di pari passo».
Testa salda, psiche forte, gambe veloci, e un pizzico di sana follia. Così si conquistano anche le montagne.
Melania Sebastiani
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