Nicole Bonamino
Io non ho paura
L’hockey in-line è uno sport giovane, come lei. I primi campionati mondiali sono stati disputati nel 1995 e potrebbe entrare fra le nuove discipline olimpiche a partire dai Giochi di Rio nel 2016.
Si gioca su superfici dure, non scivolose, ma le cadute, i colpi, gli scontri non fanno sconti a nessuno. L’equipaggiamento protettivo parla chiaro: parastinchi, paragomiti, pettorina imbottita, il tutto completato da un casco con griglia di metallo. Ogni dettaglio lascia intendere che sotto quella divisa non c’è una persona disposta ad arrendersi, non senza lottare, almeno. Attraverso la grata in metallo di quel casco traspare grinta, il coraggio di chi non ha paura di farsi male.
A Nicole Bonamino, portiere della nazionale azzurra, il coraggio non manca. Difende con decisione la sua disciplina dalle voci che tendono a sminuirla: «L’hockey in-line ha una sua dignità, con un regolamento e una tattica a sé stanti. Non è, come molti dicono, il fratellino minore dell’hockey su ghiaccio».
E con la stessa convinzione, la stessa forza, un anno fa ha rilasciato una dichiarazione che è esplosa come una bomba nel panorama nazionale, e non solo.
È stata lei la prima sportiva italiana a fare coming out. L’ha fatto quando l’atmosfera era rovente, a causa delle leggi antigay emanate da Putin in occasione delle Olimpiadi di Sochi. L’ha fatto mentre il Paese era diviso dalle chiacchiere, dai pregiudizi, dai dibattiti più accesi sulla questione. L’ha fatto quando era un continuo mormorare, accusare e assolvere, ma in Italia nessuno osava esporsi seriamente. A ventidue anni, giovanissima, lei si è fatta avanti per dire: «Io non ho paura». E con la stessa convinzione ha dichiarato «Letta non sarebbe dovuto andare a Sochi». Perché la politica ha fatto troppo poco e continua a fare poco: solo promesse che in concreto non risolvono nulla. Lei, invece, racconta a Storie di Sport di aver parlato per cambiare le cose: «I pregiudizi ci sono perché la gente non conosce e quindi non capisce. È giunto il momento che le persone sentano vicina questa realtà, smettano di vederla come qualcosa di anormale o estraneo alla società. L’unico modo per far sì che questo accada è rendersi visibili».
Non deve essere stata una decisione facile esporti fino a questo punto, soprattutto in quelle circostanze. È stato un gesto istintivo o a lungo meditato?
«Un po’ ci ho pensato, in tutto per tre o quattro giorni, credo. Ne ho parlato anche con mia madre che, naturalmente, mi ha detto subito di non farlo. Era preoccupata per me, voleva proteggermi. Alla fine, però, mi sono decisa lo stesso. Le polemiche che si sono sollevate per i Giochi di Sochi mi hanno fatto riflettere, sentivo di dover fare qualcosa. Ho telefonato alla mia allenatrice, Teresa Turillo, per spiegarle le mie perplessità. Volevo essere sicura che non fosse una mossa sbagliata, magari capace di mettermi in guai seri con la Federazione. È stata lei a dirmi che, qualunque cosa avessi fatto, mi avrebbe appoggiato. A lei interessa come mi comporto con la squadra e durante la partita, non il resto. Credo che sia stata la sua risposta a convincermi definitivamente. Così ho scritto una mail a Milena di Lezpop (www.lezpop.it), un sito che considero un punto di riferimento. E tutto ha avuto inizio. Sapevo bene di essere la prima sportiva italiana a farlo, ma di certo non mi aspettavo il boom di popolarità che ne è conseguito».
Cosa è successo dopo?
«Innanzitutto sono stata sommersa dalle richieste di amicizia su Facebook. In un solo giorno ne ho ricevute così tante da dover aprire una pagina ufficiale abbandonando il vecchio profilo. Soprattutto mi hanno colpito i toni dei messaggi, tutti positivi e incoraggianti. Contrariamente a quanto mi aspettassi non ho ricevuto critiche. Non critiche aperte, almeno. Solo pochi in modo velato hanno insinuato che l’avessi detto per fare gossip o per sentirmi speciale. Questo perché non capiscono che solo dichiarandolo ad alta voce si possono combattere i pregiudizi e la discriminazione. Molte ragazzine più giovani mi hanno scritto ringraziandomi per quello che ho fatto. È importante trasmettere questo messaggio anche per loro che hanno paura, si nascondono ed invece devono capire di non essere sole. Insomma, eccomi qua, ho fatto coming out e sono ancora viva!».
Non hai mai avuto paura delle conseguenze? Per quanto si dica, l’Italia non è certo un Paese aperto su questi argomenti.
«Certo che ho avuto paura. Ero preoccupata soprattutto all’idea di perdere il mio ruolo in nazionale, veder andare in fumo la posizione conquistata con anni di allenamenti. Poi ho riflettuto, mi sono detta che in fondo non potevano cacciarmi dalla squadra senza una motivazione valida. Ci sono test fisici a cui siamo sottoposte continuamente che dimostrano le nostre capacità, ed io non avevo mai avuto problemi. La nostra Federazione è molto rigida, ha un regolamento ferreo. Basta ricordare che ai Mondiali del 2011 mi hanno costretto a tagliare i rasta perché non erano consoni all’evento, di certo il ricordo di questo episodio non mi incoraggiava troppo ad espormi. Poi, appena possono tagliare dei posti tagliano quelli delle nazionali minori. Quindi sì, il rischio c’era. Penso di aver rischiato più io di altri sportivi che occupano posizioni di maggior prestigio. Semplicemente ho pensato che la paura alimenta altra paura e non era certo quella la risposta giusta, allora l’ho fatto. In fondo ho solo detto la verità».
Non era la prima volta che lo dicevi, la tua famiglia ne era già al corrente, ma non per questo dev’essere stato facile. Adesso puoi fare un confronto: ti è sembrato più difficile dirlo ai tuoi genitori, al mondo o a te stessa?
«Sicuramente è stato più difficile dirlo a me stessa. Si rischia di diventare vittime di omofobia interiorizzata: fin dall’infanzia ci insegnano che l’uomo e la donna si sposano, eccetera. Non è facile accettare di essere diverso, all’inizio ti sembra di essere anormale, non riesci a confessarlo neanche a te stesso. Fino ai diciotto anni stavo con un ragazzo, poi mi sono detta che era inutile continuare a prendere in giro lui e mentire a me stessa, così ho deciso di essere sincera. Per fortuna la mia è una famiglia aperta, ha reagito bene, so che mi appoggiano. Forse è stato un colpo più duro per mia madre che per me sognava un marito e di avere dei nipotini, qualcosa di tradizionale insomma. Addirittura, quando le ho confessato la verità, mi ha dato un santino con l’immagine di Padre Pio e mi ha detto ridendo «Tienila, ti servirà!». All’inizio pensava fosse una fase adolescenziale, che mi sarebbe passata col tempo, adesso ha capito che non è così e lo accetta».
Hai dichiarato che in Italia le lesbiche non sono discriminate, ma ignorate. Che è anche peggio. Non ti è mai capitato di subire episodi di discriminazione?
«Sì, ma sono stati episodi molto velati, non una discriminazione aperta. Sottile, direi. Per esempio, ricordo una volta ad un raduno di hockey. Io allora avevo diciotto anni, ero piccolina. Avevamo gli spogliatoi con delle docce comuni e, ad un certo punto, ho sentito le ragazze a fianco a me dire: «Non facciamo la doccia adesso perché c’è Nicole». E non erano proprio delle ragazzine, avranno avuto tra i venticinque e i trent’anni. È stato umiliante, quei momenti in cui ti senti gelare il sangue. Certo, ripensandoci adesso sembra una cosa di poco conto, perché sono cresciuta e sono diventata più forte».
La situazione nella tua squadra, invece, è sempre stata più leggera?
«Sì, non ci sono mai stati episodi negativi. In realtà credo che sapessero di me da sempre, non hanno mai avuto bisogno di una vera e propria conferma ufficiale».
Come hai iniziato a giocare a hockey in-line?
«Nel paesino dove sono cresciuta, Casalnoceto, in provincia di Alessandria, tutti i bambini giocano a hockey. Non esistono alternative, non esiste il calcio: l’hockey è la tradizione. Io, in realtà, ho iniziato a giocare per caso. Avevo dodici anni, stavo guardando una partita assieme alle mie amiche. L’allenatore ci aveva già viste pattinare, ad un certo punto si è avvicinato e ci ha proposto di formare una squadra femminile. Noi abbiamo accettato, poi tutto è venuto da sé, forse era destino. Quando ci ha chiesto «chi è la più agile di voi?» le mie amiche hanno indicato me senza esitare. Sono finita subito in porta e da quel momento non ho mai abbandonato il mio ruolo. Dev’essere genetico, anche mio padre faceva il portiere in una squadra di calcio».
Hai ottenuto per due volte consecutive la nomina di “miglior portiere nazionale”. Di sicuro è il ruolo adatto a te. Quando ti sei accorta di avere talento?
«Giocare in porta significa saper prevedere la mossa dell’avversario. C’è una forte componente psicologica che devi saper sfruttare. Guardi l’avversario negli occhi e devi capire le sue intenzioni. Alla fine è tutto un lavoro di prevenzione. Quanto al talento, la domanda, piuttosto è: perché no? Fin da subito mi sono appassionata all’hockey e ho sempre pensato a dare il meglio di me. Quindi perché non dovevo essere brava? Soprattutto, se sono arrivata a questo punto, devo dire grazie a papà. Tornava a casa dal lavoro alle sei di sera e saltava la cena pur di accompagnarmi agli allenamenti, anche se ogni volta doveva fare un’ora e mezza in auto fino a Torino. Non ha mai detto di essere stanco, non si è mai rifiutato di portarmi, per quasi otto anni. E io mi allenavo anche tre volte a settimana, per non parlare delle trasferte nel weekend. A volte ero io ad essere stanca e lui mi spronava ad andare. È stato il mio primo tifoso e ha sempre creduto in me».
Adesso sei attiva in diverse campagne di sensibilizzazione contro l’omofobia. Sei sempre in prima linea. Lo testimonia anche l’ultimo progetto che ti vede protagonista, il documentario “Fuori!”. Nella prima puntata intervisti la gente per strada sul tema dell’omosessualità. Com’è nata l’idea?
«Sono stata contattata dalle ideatrici del progetto Chiara Tarfano e Ilaria Luperini, e ho accettato di partecipare. È un modo per scendere in campo direttamente contro l’omofobia, confrontarsi in modo aperto con le persone. Ad essere sincera, ascoltando le reazioni della gente mi sono un po’ preoccupata. La mia intenzione era conoscere il loro punto di vista, non convertire i pensieri. Il risultato è stato che ho raccolto più opinioni poco accettabili di quanto pensassi, perfino in una città grande come Milano. C’è questa idea dell’essere politicamente corretti: molti cercano di trattenersi dal discriminare apertamente, ma intuisci che non accettano del tutto la cosa. Tante persone, ad esempio, hanno detto sì ai matrimoni, ma no alle adozioni. Anche questo dovrebbe far riflettere, perché significa che non c’è ancora una piena accettazione da parte della comunità. Di sicuro la situazione non è buona.
Per continuare il progetto di “Fuori!” abbiamo bisogno di finanziamenti. Le luci, l’attrezzatura, gli obbiettivi hanno un costo non da poco. Purtroppo non c’è nessun produttore disposto a finanziarci, dicono che l’argomento non interessa, per questo ci affidiamo al crowfonding. Abbiamo bisogno dell’aiuto di tutti coloro che credono in questa campagna. L’obiettivo è raggiungere 10mila euro».
Riguardo i tuoi di obbiettivi, invece. Sei una studentessa universitaria vicina alla laurea, ormai. Cos’hanno in comune l’hockey e il design degli interni?
«Entrambi liberano la mente, secondo me. Quando gioco ad hockey riesco a stare bene da sola, sento la testa sgombra da tutti i pensieri. Con il design succede un po’ la stessa cosa. Adesso sto preparando la tesi con il mio gruppo di lavoro. Stiamo progettando un orto urbano, con l’intento di aumentare la relazione tra il centro sociale e il luogo in cui è inserito. Sfatiamo il pregiudizio che nei centri sociali ci siano solo drogati e bambini disagiati. Voglio fare qualcosa di concreto per aiutare le persone. Quanto al resto, adesso ho dei tempi molto serrati: i Mondiali di hockey in Argentina a giugno, la laurea il 27 luglio…»
E le Olimpiadi di Rio?
«Se dovesse arrivare la conferma ufficiale per l’hockey in-line sarei proprio felice. Sono già pronta a partecipare con la mia squadra».
A più di un anno di distanza dal tuo coming out mantieni il primato. Sei ancora la prima e unica sportiva italiana ad aver avuto il coraggio di ammettere la sua omosessualità. Corre l’anno 2015, ci definiamo una società evoluta, una situazione del genere ci dovrebbe far riflettere. Perché, secondo te, nessun altro si è fatto avanti?
«Per paura, sicuramente. Si teme per la carriera, per l’immagine, per mille motivi. Ma se c’è un messaggio che ci tengo a trasmettere è proprio questo: ditelo, abbiate il coraggio, ad alta voce. Io l’ho fatto e non me ne sono pentita neanche per un secondo, perché adesso mi sento libera. Alla fine se il prezzo da pagare per essere se stessi è prendersi qualche insulto, a me non sembra neanche tanto. Ci sarà chi non capirà, ma in compenso tante altre persone disposte ad appoggiarti. Io penso questo: se non l’avessi detto mi sarei insultata da sola, avrebbe significato che non ho il coraggio di essere me stessa».
Questo è stato il tuo piccolo atto di coraggio, Nicole, che ha un significato immenso. Perché l’unico volto che il cambiamento può avere è quello di chi, proprio come te, fa un passo avanti, si toglie la maschera del conformismo e mostra senza timore tutta la sua umanità.
Alice Figini
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