Carla Marangoni
La favola delle “piccole pavesi”
C’era una volta il “fiume azzurro”, quel Ticino la cui acqua si poteva ancora bere nel punto in cui incontrava il Po. Lo solcava in barca tra maggio e settembre una fanciulla del posto, per raccogliere i mughetti che fiorivano sulle sue rive. Ma l’estate dei suoi 12 anni Carla Marangoni scese da una nave e scoprì i tulipani. Accadde ad Amsterdam nel 1928, quando insieme alle sue undici compagne della Ginnastica Pavese conquistò ai Giochi olandesi la prima medaglia olimpica femminile italiana. Oggi quasi centenaria, Carla è l’unica superstite di un gruppo che divenne leggenda, la sola a poter raccontare la favola dolceamara delle piccole pavesi.
La più giovane, Gina Giavotti, detta Popolo perché abitava nel quartiere delle case popolari, aveva 11 anni; la più anziana 17. Le aveva pescate dalle scuole di Pavia il prof. Gino Grevi, padre di quel Vittorio poi autore del Codice di procedura penale e futuro Commissario della Nazionale femminile di ginnastica. Si allenavano tutti i pomeriggi nella Palestra Civica di via Porta o intorno alla rotonda di Piazza Castello, finché non furono chiamate alla prima, grande verifica: le qualificazioni olimpiche di Pallanza.
Era il 4 luglio quando «quelle della Pavia, che il diavolo se le porti via», come le apostrofavano le loro avversarie sottolineandone la fastidiosa imbattibilità, strapparono il pass per Amsterdam dando il “la” all’avventura in terra d’Olanda. Poi il loro primo viaggio in treno e l’alloggio sulla Salunto, la nave attraccata al canale di Coehave dove le piccole pavesi dormivano in quattro in una cabina, in un settore a parte da schermidori e pugili, attente a tener a debita distanza quei giovanotti guardati in cagnesco dal professore e da “mamma” Maria, la portinaia della Civica che per tutto il soggiorno ad Amsterdam non le avrebbe lasciate mai sole.
Un primato ideale
Il giorno della gara Carla e le sue compagne si presentarono di fronte ai giudici con una casacca azzurra e una fascia bianca tra i capelli a caschetto, per il concorso di ginnastica artistica a squadre. Era la prima volta che le donne venivano ammesse ai Giochi olimpici, nonostante le ritrosie del barone Pierre de Coubertin, che riteneva l’ingresso delle atletesse (così le definì spregiativamente un giornalista) nello stadio un autentico scandalo. Solo dopo Amsterdam lo sport si sarebbe reso conto di non poter più fare a meno dell’altra metà dell’universo, deponendo le armi di una caccia alle streghe che presto si sarebbe chiusa anche alle urne.
Le piccole pavesi non erano ancora donne fatte, ma quando si disposero al centro dell’arena fu chiaro dal loro portamento che avrebbero dato un saggio di grazia femminile. Poco più in là, un pianoforte muto: le ragazze volteggiarono senza musica in un esercizio collettivo che valse loro il terzo posto provvisorio dietro alle olandesi e alle britanniche. Poi in pedana scesero le rivali orange e il pianoforte tornò a suonare, accompagnando la loro performance. Qualcuno disse che più del talento poterono le note. Certo è che quando le piccole pavesi scorsero i volti compiacenti dei giudici davanti alle padrone di casa, si rassegnarono a rinunciare al podio più alto, ma non al primato morale.
L’occasione fu data dall’esercizio agli attrezzi, che il professor Grevi aveva preparato avvalendosi di una rivoluzionaria combinazione di spalliera, piani inclinati e tavoli ginnici. Fu di fronte all’armonia di quei corpi in movimento, quasi indistinti nella visione d’insieme che ne risultava, che il pubblico tramutò idealmente il futuro argento delle piccole pavesi in oro. Poco importa che durante l’esibizione di Carla e compagne le olandesi già brindassero con boccali di birra alla vittoria finale: all’eleganza delle ragazze italiane s’inchinò perfino la Regina Guglielmina d’Olanda, che volle riceverle nella sua reggia, scoppiando a ridere quando Carla a precisa domanda confessò candidamente di essere anche un’ottima giocatrice di football.
Gloria e tragedie
Per le piccole pavesi fu un’estate di principi e principesse. Sulla Sagunto salirono anche Umberto e Mafalda di Savoia, e a Carla fu affidato il compito di omaggiare i due reali con un mazzo di fiori. Li porse con la mano tremante, raccogliendo in gola l’emozione più grande di un’Olimpiade vissuta con la leggerezza di una bambina. L’ultimo ardore d’inconsapevolezza.
Sul gruppo allenato dal professor Grevi si allunga infatti l’ombra di una malattia all’epoca mortale: la tisi. A soffrirne è Bianca Ambrosetti, convocata come riserva, ma già malata ad Amsterdam. Morirà un anno dopo, a soli 15 anni, lasciando nelle compagne il ricordo struggente della giovinezza sfiorita pria che l’erbe inaridisse il verno.
Non sarà l’unica tragedia intrecciata alla storia delle piccole pavesi: sulle loro avversarie olandesi, di cui cinque di sangue ebreo, si abbatteranno anni dopo le svastiche naziste. Morirono in una camera a gas con i loro figli Helena Nordheim, Anna Polak e Judikje Simons a Sobibor; Estella Agsterribe ad Auschwitz. Elka de Levi fu l’unica sopravvissuta.
In Italia l’exploit delle ragazze pavesi non passò inosservato, tanto più in un momento storico in cui il regime consolidava la propria simbologia anche tra le nuove generazioni. Il Balilla, giornale della gioventù del Littorio, e La Piccola Italiana, settimanale per le giovinette fasciste, celebrarono le piccole italiane come regine di patriottismo nell’istante supremo del cimento. Il Duce si congratulò personalmente con loro premiandole con un libretto di risparmio di 100 lire ciascuna e invitandole a esibirsi presso il Teatro Lirico di Milano. Ma la vera festa fu l’abbraccio di Pavia al loro rientro il 14 agosto: una stazione addobbata come le strade del centro nel giorno di San Siro, gremita di soci e appassionati chiamati a raccolta dalla Pavese per accogliere le sue olimpioniche, cui rimase il solo rimpianto di non esser potute tornare a casa circumnavigando l’Europa, come aveva promesso loro il comandante della Salunto alla vigilia della gara in caso di medaglia d’oro.
Dopo Amsterdam, le piccole pavesi divennero un’istituzione cittadina. Gina Giavotti, con i suoi 11 anni e 302 giorni, resta la più giovane medagliata della storia olimpica. Le altre ragazze si chiamavano Lavinia Gianani, Virginia Giorgi, Germana Malabarba, Luigina Perversi, Diana Pissavini, Luisa Tanzini, Carolina Tronconi, Iole Vercesi e Rita Vittadini.
La maggior parte di loro insieme alla medaglia olandese appese al chiodo anche le scarpette da ginnastica. Carla Marangoni, invece, proseguì la sua carriera fino ai vent’anni, intervallando i volteggi alla Civica con le passeggiate in barca su quel “fiume azzurro” che lei e le sue compagne avevano colorato di rosa.
Graziana Urso
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