Betty Robinson
La donna che vinse due volte
Le dissero che non avrebbe mai più camminato, che doveva ritenersi fortunata ad essere sopravvissuta.
Fino a pochi mesi prima i giornali le avevano dedicato titoli d’impatto: la donna più veloce del mondo, la definivano così. Come poteva accettare una sorte simile?
Del resto, la scena che si era presentata ai soccorritori era delle più catastrofiche. La carcassa ancora fumante di un biplano fu avvistata da due uomini nella periferia sud di Chicago. Il tentativo di soccorso scattò immediato. All’interno dell’abitacolo ritrovarono il pilota, un ragazzo, fortunatamente ancora in vita. Chiedeva con voce flebile notizie della cugina. Nel caos informe di cocci di legno, lastre di metallo, brandelli di stoffa, si intravedeva il corpo di una donna.
Sarebbe stato impossibile per chiunque accostare quella sagoma immobile all’immagine della giovanissima atleta che aveva mandato in visibilio l’America. Eppure era proprio lei, Betty Robinson, la prima donna a vincere un oro olimpico nella specialità dei 100 metri piani. Agli occhi dei soccorritori in quel momento apparve solo il corpo di una poverina che non dava segni di vita. Nella concitazione del momento, uno dei due uomini si fece il segno della croce e caricò la ragazza nel baule della sua auto, diretto all’obitorio. Una volta arrivato spiegò con rammarico la faccenda, disse di aver fatto il possibile e se ne andò. Qui, per fortuna, la situazione fu esaminata più attentamente. Il titolare di pompe funebri e suo nipote, Jim Rochford, dopo essersi consultati a lungo, decisero per precauzione di portare la ragazza all’ospedale di Oak Forest. Si trattava di un fatto senza precedenti: dall’obitorio nessuno era mai tornato indietro.
I referti medici diedero ragione alle loro esitazioni. Dopo alcuni controlli i dottori decretarono che la ragazza non era morta, si trovava semplicemente in stato di coma. Tuttavia, aggiunsero, c’erano poche speranze che si risvegliasse. Esattamente sette settimane dopo, invece, contro ogni aspettativa Betty Robinson tornò alla vita.
Dai banchi di scuola alle Olimpiadi
Fino a qualche anno prima Betty era un’ordinaria studentessa alla Thornton Township High School di Harvey, nell’Illinois. Figlia di Harry ed Elizabeth Robinson, era nata e cresciuta a Riverdale dove tutti la conoscevano come Babe. Appassionata di musica e teatro, aveva sempre la testa tra le nuvole ed una conseguente e spiccata propensione per i ritardi. Fu proprio una delle sue forsennate corse nel tentativo di acciuffare il treno a dare una svolta al suo destino. Da una finestra nei corridoi della scuola Charles Price, il suo insegnante di biologia, stava osservando divertito la scena, quando d’un tratto l’allegria si tramutò in stupore. Mentre lei saliva sulla locomotiva pronta per la partenza, il signor Price strabuzzava gli occhi, sbalordito dalla velocità della sua allieva. Il giorno dopo le propose un giro di corsa nel campo della scuola, sottoponendola, per l’occasione, alla prova infallibile del cronometro. Betty fece una performance brillante, dimostrando di non saper correre solo dietro al treno. Avuta conferma di quanto aveva intuito, il professor Price le suggerì di iscriversi ai campionati di atletica di Chicago e si offrì di allenarla per l’evento.
Mai carriera fu più immediata: il 30 marzo 1928 Betty esordiva nella specialità dei 100 metri, piazzandosi seconda dietro Helen Filkey, che al tempo deteneva il record femminile americano nella distanza. Nella sua seconda gara, al Soldier Field di Chicago, eguagliò il record mondiale di velocità con un tempo su pista di 12”. E per finire, il 4 luglio dello stesso anno, a Newark, nel New Jersey, conquistò la seconda posizione dietro a Elta Cartwright. Una vittoria che le valse la convocazione nella prima squadra Olimpica. Aveva solo sedici anni, le Olimpiadi sarebbero state la sua quarta competizione ufficiale.
Le Olimpiadi di Amsterdam
Amsterdam, 1928. Per la prima volta venne introdotta nel programma dei Giochi l’atletica femminile. Complice del progresso, il passaggio di testimone alla direzione del CIO: l’antiquato barone Pierre de Coubertin stabilì che la presidenza per lui stava diventando troppo gravosa e cedette la poltrona al conte Henri de Baillet-Latour. Fino all’ultimo, però, De Coubertin non mancò di strepitare contro l’agonismo femminile, cui si opponeva strenuamente. A suo dire, infatti, l’apertura delle Olimpiadi alle donne avrebbe tradito l’adesione all’ideale olimpico greco. «La differente fisiologia della donna», scrisse in un comunicato «e il suo differente ruolo nella società la rendono inadatta all’attività sportiva».
Malato, alla vigilia dei Giochi olandesi ribadì la sua ostilità nel messaggio inaugurale di saluto: le donne, sosteneva, non dovevano essere presenti ad un numero così vasto di gare. Il suo successore mise a tacere le obiezioni, il primo cenno di cambiamento si verificò nella scelta della città ospitante: Amsterdam, la capitale olandese per niente amata dal barone. L’Olimpiade si proclamò così all’insegna del rinnovamento, fu caratterizzata da tante prime volte. Per la prima volta i Giochi furono battezzati dalla fiamma olimpica, per la prima volta la Coca Cola fece il suo ingresso come sponsor ufficiale. E, non ultimo, ecco che per la prima volta le donne correvano in pista. Il movimento femminile aveva vinto la sua battaglia.
Fu l’Olimpiade di Johnny Weissmuller e Carla Marangoni, che ne rimane ora l’unica testimone ancora in vita. E soprattutto fu l’Olimpiade di Betty Robinson.
Rinvii e false partenze
L’americana non era certo tra le favorite, rimaneva eclissata all’ombra delle più celebri rivali canadesi. Minuta, gracile, non spiccava per niente nella sua maglia numero 879: perfino i flash dei fotografi prediligevano altri volti, come quello della bella Lily Cartherwood, per i loro primi piani. Il giorno delle semifinali, però, la Robinson aveva guadagnato qualche punto dando del filo da torcere alla stella canadese Myrtle Cook. La gara dei 100 metri piani iniziò alle 16, ma fu rinviata a causa di una serie di false partenze e conseguenti squalificazioni. Lo starter colse in anticipo la Cook che reagì con un pianto isterico, poi fu la volta della tedesca Leni Schmidt che si oppose alla decisione minacciando una rissa. Prima del suo inizio ufficiale la gara aveva già attirato su di sé più attenzioni delle precedenti. Il via fu dato alle 16 e 35, quando ai blocchi di partenza ormai si trovavano appena quattro concorrenti, tra cui la nostra Babe. Lei sfrecciò velocissima segnando il record di 12”2 e la vittoria fu sua. La foto finale la ritrae mentre taglia il traguardo esultante, le braccia levate come ad ampliare il sorriso, in mezzo alle due canadesi. A poco valsero le proteste delle rivali, Fanny Rosenfeld e Ethel Smith, arrivate alle spalle della Robinson, sebbene per poco più di un centesimo di secondo. Betty Robinson, la piccola sedicenne di Riverdale, fu il primo oro olimpico dei cento metri piani.
Quando venne issata la bandiera a stelle e strisce e l’inno americano tuonò nello stadio, lei scoppiò a piangere come una bambina, “like a baby” raccontò in un’intervista. Non fu la sua unica medaglia in quell’Olimpiade, ne conquistò un’altra nella staffetta a squadre, stavolta dietro le canadesi. Myrtle Cook, che aveva appena asciugato le lacrime dopo la squalificazione, a suo dire ingiusta, la prese come una rivalsa.
Nulla tuttavia poteva offuscare quel giorno la stella splendente di Betty Robinson, a lei vennero tributati tutti gli onori. Il risultato strepitoso dell’atletica femminile ripagò la delusione data dalla categoria maschile, che ad Amsterdam totalizzò il punteggio più basso della storia olimpica americana. Il presidente del comitato olimpico degli USA, Douglas MacArthur, regalò alla giovane campionessa un braccialetto d’oro da cui pendeva un piccolo mappamondo. Al suo rientro in patria, Babe fu festeggiata da ben due parate di benvenuto, a New York e a Chicago. I suoi concittadini promulgarono una colletta per regalarle un orologio di diamanti e la sua scuola le tributò una coppa d’argento. Lei ripagò tutti i riconoscimenti ricevuti dando prova del suo talento. Negli anni successivi continuò a siglare record e divenne la rappresentante ufficiale della Northwestern University. Fu la prima studentessa ad essere insignita di un simile onore prima della laurea. Le piaceva correre e sapeva vincere, ma in fondo restava sempre la ragazzina spensierata che tentava di acciuffare il treno in tempo, prima che partisse.
E d’un tratto, nel biancore di quella stanza d’ospedale, le dicevano che difficilmente sarebbe tornata a camminare sulle sue gambe. Di correre, poi, non se ne parlava neppure.
L’incredibile ritorno
Babe non poteva accettare di guardare quei titoli di giornale che la celebravano come un passato lontano, riflettendosi a stento in un’altra se stessa. Era sempre lei, Betty Robinson, non poteva rassegnarsi a vivere come una mutilata, limitandosi a stare dietro ad un’immagine che l’avrebbe preceduta sempre di un passo.
Non avrebbe permesso ad un incidente di privarla della sua capacità: così Babe decise che sarebbe tornata in pista ad ogni costo, perché era ancora viva, dopotutto, e doveva correre. La forza di volontà fu, in questo caso, la miglior medicina. Ci vollero due anni di riabilitazione per rimetterla in piedi, ne trascorse buona parte in carrozzina. Le avevano impiantato sostegni di metallo nelle gambe, di conseguenza una restava un poco più corta dell’altra e lei non riusciva più a flettere il ginocchio sinistro. Se non piegava il ginocchio come avrebbe potuto scattare in avanti ai blocchi di partenza? A questo avrebbe pensato più tardi, ora la priorità era imparare di nuovo a camminare. E Betty ci riuscì, dando prova di tutta la sua tenacia. Quanto dolore, quanti sforzi e sacrifici le abbia richiesto questo fermo proposito lo raccontano le sue cicatrici. Ma la ricompensa venne, di nuovo sottoforma di medaglia. Nel 1936, si presentò alle Olimpiadi di Berlino, reggendosi salda sulle sue gambe. Di nuovo pronta a correre. Non poteva più gareggiare nei cento metri, perché il ginocchio menomato le impediva di compiere lo scatto iniziale, allora decise di ripiegare sulla staffetta a squadre. L’avevano considerata morta, poi le avevano detto che non sarebbe tornata a correre, pronosticandole così una seconda morte. E lei ce l’aveva fatta, a dispetto di tutto, quella vittoria ne era la conferma. Non si trattava di un premio di consolazione, ma di una medaglia del metallo più prezioso: l’oro che rifletteva la sua personale battaglia. Anche dopo il ritiro dalle gare, Betty Robinson continuò a vivere nel mondo dell’atletica, come giudice di gara e cronometrista. Diede voce alla sua difficile riabilitazione attraverso l’attività di motivational speaker. Oggi sono i suoi figli a raccontare quest’incredibile storia; entrambi apprezzano la sua fama di sportiva, ma dicono di ricordarla soprattutto come «una brava mamma».
Si spense ad ottantasette anni nella sua casa di Aurora, nel Colorado. Se n’e andata senza rimpianti, lasciando in questo mondo soltanto tanti ricordi dove l’esempio straordinario della sua vita luccica più dell’oro di due medaglie. Il suo nome sopravvive ancora, dotato del fascino imperituro di un’ispirazione.
Betty Robinson, la donna che visse due volte e due volte vinse.
Alice Figini
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Bravissima, una storia da medaglia d’oro. Sia sulla pista d’atletica che nella vita. E brava pure l’autrice dell’articolo, che ha saputo raccontare con il ritmo incalzante di una gara olimpionica.