Brema 1966
La morte del nuoto azzurro
Si chiamavano Bruno Bianchi, Dino Rora, Sergio De Gregorio, Amedeo Chimisso, Luciana Massenzi, Carmen Longo e Daniela Samuele. Erano loro la meglio gioventù del nuoto italiano. Una gioventù spezzata.
Oggi ci appaiono uno ad uno in bianco e nero, in fotografie un po’ sgranate, che sui giornali avrebbero dovuto trovarsi per ben altre ragioni. Occhi vispi, lucenti, che spesso fissano l’obbiettivo dalla prima corsia di una vasca da nuoto. Non c’è nessun sinistro presagio ad oscurare quelle immagini, anzi, sembrano il ritratto di veri campioni, oppure l’istantanea sfuggente di ragazzetti vivaci che si scrollano il cloro dai capelli prima di lanciarsi in un altro tuffo; eppure i loro volti divennero il simbolo della tragedia
Una tragedia consumatasi in una sera di nebbia nei cieli di Brema, una tragedia dimenticata. A cinquant’anni di distanza di quei sette ragazzi si ricordano in pochi. Perché erano troppo giovani, perché erano sconosciuti, perché il nuoto all’epoca era considerato ancora uno sport di serie B, non appassionava le masse di tifosi.
Il disastro aereo per eccellenza si è impresso nella memoria collettiva come la strage di Superga in cui perì il Grande Torino. Brema venne dopo e si eclissò altrettanto velocemente. L’associazione più ricorrente è “Brema come Superga”, ma non accadde proprio lo stesso. Fu un aereo a cadere, ci fu uno schianto, certo, e delle vite spezzate; ma gli atleti di Brema non conoscevano il successo, soltanto il sacrificio e le loro speranze non si avverarono mai. Nella strage di Brema fu il futuro a morire, questo appare tuttora come il fatto più inaccettabile: la mente umana non è in grado di concepirlo, è come uno strappo, perché quando è il futuro a morire siamo portati a continuarlo. Quei sette ragazzi dovevano disputare una gara, in Germania, e sognavano l’Olimpiade di Città del Messico. Nuotavano nei ritagli di tempo tra la scuola e i turni in fabbrica, ed erano bravi, eccome se lo erano, ma ancora nessuno li acclamava come campioni. Erano partiti per partecipare ad un meeting di livello internazionale, vincere nuove medaglie, ma da quel viaggio non fecero mai ritorno.
Lo schianto
I pochi testimoni lo descrissero come un flash; poco più che una scintilla di luce che ammantò i boschi nei pressi di Brema. Erano le 18.51 di una nebbiosa serata di fine gennaio, l’Italia era distratta, pensava a Sanremo.
I giornali il giorno seguente titolarono “Morti per un ritardo di 12 minuti.” In quei dodici minuti si condensava tutta l’assurdità del destino. Un banale ritardo fece sì che la squadra perse il volo. Restarono bloccati in aeroporto, indecisi sul da farsi, mentre fuori imperversava il cattivo tempo. Stavano per rinunciare alla partenza, quando una fortunata serie di coincidenze cambiò i piani. Intanto il velivolo che avrebbe dovuto portarli a Brema decollava con nove posti vuoti: i loro. Arrivò a destinazione quel volo, loro ne presero un altro: l’aereo sbagliato. Il ripiego di fortuna contava una serie di scali, prima a Zurigo, poi a Francoforte. Proprio a Francoforte, sotto una pioggia battente, la squadra si imbarcò in extremis sul Convair 440 della Lufthansa che sarebbe dovuto atterrare a Brema. Paolo Costoli cercava di tenere alto il morale dei suoi ragazzi, che non erano abituati a gestire lo stress di un evento così importante. Erano tutti stretti attorno a lui, certi che avrebbe sempre saputo cosa fare. Costoli era stato il miglior nuotatore italiano dell’anteguerra; vantava una carriera di tutto rispetto con diciannove titoli nazionali all’attivo e quattro scudetti vinti nella pallanuoto con la Rari Nantes Florentia. Lo consideravano un autentico pioniere del nuoto di fondo, il mentore perfetto per quei giovani delfini della piscina. Aveva cinquantasei anni, Costoli, e una presenza sicura, imponente. Non badò alle chiacchiere di Bruno Bianchi che gli raccontava di essere preoccupato a volare d’inverno, perché un aereo indiano si era schiantato sul Monte Bianco in quei giorni. Liquidò quel pensiero con una risata. Costoli aveva accettato quella trasferta all’ultimo minuto, subentrando al tecnico Costantino “Bubi” Dennerlein che invece aveva preferito restare a casa con la moglie in dolce attesa. Su quell’aereo avrebbe dovuto esserci Dennerlein , invece Costoli lo sostituì, salvandogli la vita. Tante altre furono le coincidenze che determinarono i morti e i salvati in quella circostanza: Gianni Gross, Daniela Beneck, Pietro Boscaini, Elisabetta Noventa non partirono. Ciascuno di loro non si imbarcò su quell’aereo per motivi diversi: problemi familiari, un’influenza, addirittura un esame universitario improrogabile.
Il destino assunse le vesti più bizzarre per materializzarsi e si acquattò in un angolo, in agguato, pronto a presentare il conto. Poco prima della partenza si aggiunse al team azzurro un giornalista della Rai, Nico Sapio, specializzato nel commento dei campionati di nuoto. Aveva trentasette anni ed era uno dei migliori cronisti sul campo. Erano i migliori tutti quanti, volavano alla volta della Germania convinti di fare una bella figura, tesi nell’eccitazione impalpabile dei grandi eventi che capitano di raro nella vita.
Il 28 gennaio del 1966 era un venerdì, su quel bimotore partito da Francoforte viaggiavano quarantasei persone, inclusi i membri dell’equipaggio. Nello schianto delle 18.51 morirono tutti, non ci fu nessun superstite.
Agli occhi dei primi soccorritori, che avevano udito il fragore dell’impatto, apparve la desolazione. Un silenzio angosciante regnava sul luogo del misfatto. Dissero di aver chiamato, ripetutamente e a gran voce, credendo che qualcuno fosse sopravvissuto; ma tutto fu vano, non si udì nessuna risposta.
Tra le macerie e il fumo c’erano le stoppie del campo in cui l’aereo era precipitato, di integro restava solo il timone di coda, l’ala destra, le staffe del carrello.
Le circostanze dell’incidente non furono mai chiarite. Si parlò di illuminazione difettosa all’aeroporto, di manovra errata, perfino di un malore del pilota. Alcuni fra i soccorritori raccontarono di aver trovato il copilota, morto sul colpo, con una tenaglia arrugginita in mano. Un’indagine più accurata risultò impossibile dato che tutto era andato distrutto. Dissero che era stata una disgrazia e col tempo nessuno badò più ai dettagli. Restava solo la disperazione, parole poche, un senso profondo di ingiustizia per la tragica fine di quei ragazzi a cui non fu concesso di diventare grandi.
Le vittime
Daniela Samuele era la più giovane del gruppo: diciassette anni compiuti da poco, era alla sua seconda presenza in Nazionale. Una foto la ritrae in piscina mentre fissa l’obbiettivo con un’espressione corrucciata, il volto incorniciato da un paio di trecce brune. In valigia, accanto al costume, si trovava ben piegato il suo primo abito da sera di chiffon, comprato apposta per l’occasione. Amedeo Chimisso, invece, di anni ne aveva venti e proprio quel giorno aveva stabilito la migliore prestazione italiana nei 200 misti. Anche lui era soltanto all’alba della sua carriera e per pagarsi gli allenamenti lavorava a giornata come fattorino, perché il padre gli aveva detto «Non posso mantenere sei figli. Se vuoi nuotare, arrangiati!».
Carmen Longo frequentava il liceo classico e nello zainetto, oltre a costume ed accappatoio, portava un libro di poesie di Saffo. Aveva conquistato il titolo assoluto nei 200 rana e vantava record personali sia nello stile rana che nel misto.
Erano di Roma Sergio De Gregorio e Luciana Massenzi, rispettivamente di venti e ventun anni, provenivano dalla stessa città ma portavano sulle spalle storie diverse. Sergio era detentore di cinque record assoluti e contava già sedici presenze in nazionale, durante il giorno lavorava e si allenava di notte. Di buona famiglia invece Luciana, primatista italiana nei 100 dorso, che aveva avuto la possibilità di perfezionare il suo stile in Francia.
Bruno Bianchi e Dino Rora erano buoni amici, lavoravano entrambi come impiegati alla Fiat. Bruno, triestino d’origine, era il capitano della nazionale e il più anziano del gruppo. Viveva da solo a Torino e lavorava per mantenersi l’università; era stile liberista, aveva già conquistato tre titoli assoluti ed era stato per sedici volte primatista italiano. Il vero nome di Dino era Chiaffredo, ma lui non amava essere chiamato in quel modo. Aveva ventun anni, Dino, ed era stato uno tra i pochi italiani a siglare il record europeo nei 100 metri dorso. Si racconta che prima di partire chiamò casa e disse «Perdonami mamma». «Di cosa?» domandò lei ridendo. «Di tutto,» fu la risposta.
La telefonata fatta da Dino alla madre aleggiò come un presagio sulla vicenda, ma si cercano sempre spiegazioni al destino quando ormai si è compiuto. I riflettori sulla tragedia ormai si sono spenti da tempo, ma a cinquant’anni di distanza rimane ancora la stessa domanda, come sospesa nel tempo: che cosa avranno voluto dire questi giovani a noi che sopravviviamo loro? Pier Paolo Pasolini, all’epoca, disse che l’unica risposta ad una simile disgrazia era la disperazione.
Nonostante l’accaduto, le gare del meeting di Brema si disputarono ugualmente e sui blocchi di partenza che avrebbero dovuto occupare gli azzurri vennero posti dei mazzi di fiori. Fu quello l’ultimo omaggio ai nostri atleti scomparsi. Oggi quel tragico giorno del gennaio 1966 si commemora con un trofeo: la Coppa Caduti di Brema. Un modo per consentire ad altri di partecipare alla gara del destino che quei sette ragazzi non poterono mai disputare, e vincere.
Alice Figini
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Ciao, per la precisione: Costoli, grande pallanuotista e nuotatore, non ha vinto nessun europeo. Nulla toglie al suo grande carisma e al suo onore di atleta e uomo, fino alla fine.
Grazie Mauro per la precisazione, correggiamo subito, deve essersi trattato di una fonte errata.
E’ bello avere lettori così attenti e partecipativi
(La Redazione)