Stella Walsh
Prigioniera di un corpo
Stella Walsh non era il suo vero nome. All’anagrafe risultava come Stanislawa Walaisiewicz; americana d’adozione, polacca d’origine. Per la Polonia gareggiò alle Olimpiadi di Los Angeles nel 1932, ma vinse per l’America. La sua vera patria la considerava una straniera: lei in realtà apparteneva alla cittadina di Cleveland che l’aveva consacrata sua regina. Era cresciuta nei sobborghi, in una zona rurale allora chiamata “villaggio slavo” dove emigrava la maggior parte della gente del nord. I genitori, trasferitisi in Ohio poco tempo dopo la sua nascita, una volta giunti sul suolo statunitense decisero di naturalizzare il loro cognome nel più americano Walsh. La smania di sentirsi cittadini di quel nuovo mondo li portò a chiamare la piccola non più Stanislawa, ma Stella.
Allora lei sapeva perfettamente chi era, prima che la vita scompigliasse le carte e rendesse tutto più confuso.
La sua carriera di sportiva e la necessità la portarono lontano, anche se non per molto. Una bussola nel suo cuore le indicava sempre la strada di casa, così , appena le fu possibile, tornò alle sue radici nella vecchia Clement Avenue. A sessantanove anni si trovava di nuovo a Cleveland, dove tutto accadde in un giorno d’inverno e di neve: il 4 dicembre 1980.
Quella mattina era uscita di buon’ora per comprare dei nastri; voleva farne delle coccarde da distribuire alla squadra femminile di pallacanestro in occasione di una partita alla Kent University. Uscita dall’Uncle Bill Discount, due uomini le si pararono d’innanzi intenzionati a derubarla. Avvenne tutto in una manciata di secondi: lei provò a difendersi, quelli fecero fuoco. Il fucile sparò un colpo, due colpi; i nastri volarono per poi posarsi a terra accanto al suo corpo esamine. Nella confusione i rapinatori si diedero alla fuga, senza neppure raccogliere la refurtiva. I duecentocinquanta dollari che aveva con sé rimasero intatti nelle sue tasche.
Tre ore dopo, sotto le luci della sala operatoria, si spegneva la più grande atleta che Cleveland avesse mai conosciuto, detentrice di un record da leggenda, una donna unica nel suo genere.
Ma la storia di Stella Walsh, in realtà, era appena iniziata.
Fu la sua fine, paradossalmente, a determinarne il mito. Per avviare le indagini sul suo caso venne predisposta un’autopsia da cui emerse un segreto agghiacciante, che la gente a lungo aveva soltanto osato mormorare senza mai pronunciarlo ad alta voce.
I primi successi
Era sempre stata la più veloce. Da ragazzina si confermava già come la miglior giocatrice di baseball della South High School e la sua unica possibilità di praticare quello sport ai tempi era giocare nella squadra maschile. Motivo per cui divenne presto un facile bersaglio degli scherzi dei suoi compagni. La chiamavano “Bull Montana” paragonandola a Lewis Montana, il celebre attore- pugile conosciuto per i suoi ruoli di teppista, lottatore, cavernicolo. Non era certo un complimento. Lei, però, era brava davvero. Eccelleva nel basket come nel softball, sapeva pattinare sul ghiaccio ed era ancora più agile nella corsa.
In un’epoca in cui l’opinione pubblica ancora dibatteva se fosse lecito oppure no far competere le donne a livello sportivo, lei già si annunciava come la più promettente atleta della storia. Mentre la gente si lambiccava il cervello formulando teorie più o meno opinabili, Stella collezionava trofei, record, vinceva competizioni, trasformandosi nella testimonianza vivente di un cambiamento possibile.
Nell’estate del 1932 l’intera Cleveland era in fermento, era ormai certo che una cittadina avrebbe partecipato alle Olimpiadi di Los Angeles. I giornali attendevano soltanto di scoprire sotto quale bandiera avrebbe gareggiato: Stella avrebbe rappresentato la Polonia oppure l’America? Lei voleva vincere una medaglia per gli Stati Uniti, ma nulla andò secondo i suoi piani.
Ai tempi gli atleti dovevano pagare a proprie spese la partecipazione alle Olimpiadi e purtroppo non tutti potevano permettersi dei costi così elevati. Il padre di Stella, Julian, aveva perso il lavoro in seguito all’avvento della Grande Depressione e oltre a lei aveva altre due figlie da mantenere. La necessità costrinse la Walsh ad accettare un lavoro al consolato polacco di New York e, dopo una difficile decisione, dovette rassegnarsi a rappresentare la Polonia. Una scelta che fece posticipare la sua acquisizione della cittadinanza americana di oltre quindici anni.
Quando comunicò la notizia ai giornali non poté trattenere il rimpianto: «Correrò per la Polonia, ma ci sarà sempre un posto nel mio cuore per Cleveland».
Ai Giochi di Los Angeles gareggiò sotto il nome di Stanisława Walasiewicz , e vinse. Non si trattò di una semplice medaglia d’oro, ma di un’impresa straordinaria. Corse i 100 metri piani in 11″9, stabilendo il nuovo record mondiale che rimase imbattuto per quindici anni. Fu la prima donna della storia a infrangere la barriera dei dodici secondi.
Alcuni giornali il giorno seguente osservarono che le sue falcate erano così lunghe e ritmate da ricordare lo stile di un uomo. Si riferivano a lei come “alla variante femminile di Jim Thorpe”.
La rivalità con la Stephens
Quattro anni dopo, in occasione delle Olimpiadi di Berlino, Stella era di nuovo la favorita. Aveva ventiquattro anni ed era in perfetta forma fisica, sembrava di nuovo destinata al successo, se non fosse stato per quella rivale piovuta dallo spazio, non prevista: la diciassettenne americana Helen Stephens, dal Missouri.
Helen era alta, slanciata e bionda, la perfetta ragazza americana che la stampa adorava. La Stephens personificava tutto ciò che Stella non sarebbe mai potuta essere ed in più gareggiava per la sua nazione, l’America, rappresentando anche quel paese che l’altra si portava nel cuore. La Walsh poteva anche sentirsi l’eroina di Cleveland, ma non sarebbe mai stata l’atleta americana ideale: era una creatura ibrida, una polacca che si sentiva americana. Aveva due nomi, due nazionalità, si trattava di un caso complicato; ma lei sapeva esattamente chi era e voleva vincere.
In quell’Olimpiade, tuttavia, per la prima volta nella sua carriera sportiva, Stella Walsh non fu la numero uno. Fu battuta dalla Stephens per appena due secondi di distanza e le toccò la medaglia d’argento.
In seguito alla vittoria chiesero a Helen Stephens come si sentisse dopo aver sconfitto Stella Walsh; lei sgranò gli occhi e rispose «Chi è questa Stella Walsh? Non la conosco!». Non poteva riconoscere quel nome perché a Stella era toccato gareggiare sotto le spoglie di Stanislawa.
Divamparono le fiamme della rivalità; presto si diffusero anche delle voci, delle accuse infamanti. Giorni dopo un giornale polacco pubblicò nero su bianco che Helen Stephens non era veramente una donna. La notizia si diffuse, volò, il dibattito si fece acceso. L’americana fu umiliata e ribatté ferocemente alle insinuazioni che, come in effetti si scoprì, poi si rivelarono infondate.
L’ironia della situazione emerse solo a quarantaquattro anni di distanza.
La rivelazione
Il 23 gennaio 1980 il referto dell’autopsia sul corpo di Stella Walsh fu reso pubblico e sconvolse il mondo intero. Riportava, testualmente, che la Walsh non aveva un utero, ma un’uretra malformata e un pene non funzionante.
La rivelazione travolse l’opinione pubblica con l’onda dello scandalo, tutti d’improvviso sembravano porsi un’unica domanda: chi era veramente Stella Walsh?
I telegiornali in realtà avevano già iniziato a diffondere la notizia subito dopo la morte di Stella, ma per la gente leggere la prova schiacciante dell’autopsia fu tutta un’altra faccenda. Si sfruttò una vicenda privata e personalmente sofferta a scopo mediatico; ma questo clamore se non altro servì ad aprire gli occhi dell’opinione pubblica su una tematica a lungo ignorata.
Simili discorsi sulla sessualità erano ritenuti un tabù nell’America degli anni ottanta. La parola “transgender” non era ancora stata coniata, nessuno era preparato ad affrontare un problema del genere. Si preferiva fingere di non vedere e, quando proprio era inevitabile, si liquidava il tutto attribuendolo ad uno “scherzo della natura”. Il vicinato aveva sempre rumoreggiato sulla presunta “mutazione” di Stella, ma il tutto si era semplicemente ridotto ai nomignoli di cattivo gusto inventati dai bambini e nulla più. I soli a conoscere la verità erano i parenti più prossimi della Walsh che, intravedendo nel fatto un motivo di vergogna, l’avevano tenuto nascosto per oltre sessant’anni. L’unica persona con cui Stella si era confidata era stata una cara amica, Beverly Perret Conyers; la sola capace di difenderla di fronte agli assalti del mondo intero quando il suo segreto fu svelato. Beverly infatti dichiarò che Stella viveva la sua condizione con sofferenza, e ricordò in proposito una loro vecchia conversazione in cui la Walsh le aveva domandato se fosse stato, per caso, Dio a farle questo.
«No», le rispose dolcemente Beverly «è stato un errore».
Non si sapeva spiegare in altri termini un fatto simile; poi arrivò la scienza ad attribuire a questa condizione il nome di “mosaicismo”. Quando un bambino nasceva affetto da una simile patologia spettava ai genitori stabilire il suo sesso; nel caso di Stella fu deciso di allevarla come una ragazza e lei si sentì tale. Ora, spiegano i medici, esistono delle procedure di ricostruzione dei genitali e, una volta raggiunta l’età giusta, viene data al soggetto stesso la possibilità di scegliere.
All’epoca una situazione simile era sconosciuta e, proprio perché tale, faceva paura, non se ne poteva parlare. Stella Walsh fu costretta a custodire il suo segreto, imprigionata in un corpo ambiguo, continuò a vivere lungo quella linea indefinita, tra luce ed ombra, che aveva condizionato tutta la sua esistenza. Aveva due nomi, due nazionalità, ma lei sapeva esattamente chi era. Stella Walsh ha vissuto la sua vita come donna, ed è questo che conta. Al di là delle polemiche che seguirono inevitabilmente la scoperta, alcuni medici commentarono: «Il suo certificato di nascita dice che è una donna. È stata conosciuta per oltre sessant’anni come donna. Infine, il suo certificato di morte ci dice che è una donna».
Provarono a strapparle le sue medaglie, dissero che i suoi record non erano più validi.
Molte persone, compreso l’ex marito Neil Olson, si fecero avanti per accusarla -fra le quali spiccavano molte atlete da lei sconfitte. I giornalisti subito accorrevano a dare voce a tutte queste presunte vittime di ingiustizia. Hilda Strike, medaglia d’argento alle Olimpiadi di Los Angeles, disse che pensava di meritarsi la medaglia di Stella ora, ma che non l’avrebbe chiesta ad alta voce, si limitò ad un caustico commento: «Loro sanno dove sono».
Le invidie, le sottili meschinità che si erano accumulate nel corso degli anni avevano trovato un punto di sfogo, ma furono presto messe a tacere. Gli esami medici dimostrarono che Stella Walsh non aveva mai fatto uso di sostanze dopanti e la difesero dalle accuse. Tutelarono la sua dignità di persona e, soprattutto, di essere umano. Stella Walsh aveva vissuto ogni singolo giorno della sua vita come donna e come atleta. A lei spettavano tutte le vittorie. Poteva anche apparire un uomo ad un’occhiata distratta, ma lei si era sempre sentita una signora ed era stata tale per tutti coloro che l’avevano conosciuta.
Ed è così importante, in fondo, la distinzione tra donna e uomo? Il curioso caso di Stella Walsh dimostra come spesso il tutto si riduca ad una pura formalità lessicale.
Alice Figini
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