Fabrizio Sottile

Fabrizio Sottile

Fabrizio Sottile (© Fabrizio Sottile)

 

La consistenza di un sogno

Ha ventitré anni, Fabrizio Sottile, e la certezza che nella vita ci sia sempre una seconda possibilità.
A questa consapevolezza si accompagna un’altra inconfutabile convinzione: se hai un sogno devi crederci.

Lui al suo ci ha creduto strenuamente, ci ha creduto nonostante le circostanze avverse, persino quando il semplice atto di sognare appariva un privilegio che era un lusso concedersi; una sfida all’impossibile. La sua giovane età svanisce di fronte all’incredibile esperienza accumulata negli anni attraverso le molte prove, sportive e personali, che lo hanno temprato.

Perché Fabrizio, nonostante i suoi successi, non rivela soltanto il lato eroico, invincibile del campione; al contrario, non si vergogna di ammettere il prezzo salato delle sconfitte, il sapore amaro delle lacrime che solo la delusione più profonda può suscitare.

Quando parla delle sue imprese si sofferma a lungo sulle sue fatiche, piuttosto che sullo splendore dei traguardi. Un atteggiamento che fa riflettere, inducendo a pensare che il vero campione si desume dal numero delle sue sconfitte, da tutte quelle occasioni in cui non si è sentito vincente, piuttosto che dalla gloria dei suoi trionfi. Ascoltandolo si rimane sconcertati quando sostiene, con totale spontaneità, e senza ombra di ironia: «Io non ho talento per il nuoto».
Come può dire una frase simile un ragazzo che ha solcato i podi di mezzo mondo e partecipato a un’Olimpiade? Un ragazzo che, persino di fronte a una malattia che minacciava di allontanarlo dalla sua passione, ha ritrovato ancora nel mondo del nuoto una ragione di vita e, si può dire, di resistenza.

«Il talento è genetico. Io non ho una struttura fisica idrodinamica», continua lui serissimo, senza arrestarsi di fronte agli sbalorditi rimproveri. «I veri nuotatori sono fatti con lo stampino, questo è un dato di fatto. Nel mio caso, invece, il talento conta per il 20%, una percentuale piccolissima. Tutto il resto è allenamento, sacrificio, fatica».
Con un certo stupore ci si ritrova a scrutare un volto giovane che racconta una storia saggia; una bella storia di sacrifici, traguardi, e speranze che non vogliono essere deluse.

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Un intenso primo piano di Fabrizio (© swim4life)

 

Che significato ha il nuoto per te, Fabrizio? Il tuo rapporto con l’acqua è stato precoce. È vero che tua madre ti ha “buttato” in piscina quando avevi appena tre mesi?

«Tutto vero, non è una leggenda. Mamma mi aveva iscritto a un corso di acquaticità e così a pochi mesi, senza nemmeno rendermene conto, mi ritrovai in piscina. Posso dire che il nuoto per me è una cosa innata; non l’ho scelta. Non è nata come una passione, ma è venuta con il tempo. Oggi vedo nel nuoto il rapporto più lungo della mia vita. Ѐ tutto ciò che mi rappresenta, al momento. In futuro mi piacerebbe lavorare come massoterapista, in questo campo il mondo del nuoto rappresenta un bel pacchetto d’esperienza. Negli ultimi anni mi sono reso conto di guardare al nuoto in chiave più scientifica-medica».

Perché, come accade per tutti i rapporti a lungo termine, il nuoto a volte diventa un amico noioso?

«Guardandomi indietro mi accorgo che il nuoto mi ha dato tante soddisfazioni, ma ha richiesto anche molti sacrifici. Mi ha tolto tanta vita sociale quando ero adolescente. Ricordo, soprattutto, i tempi del liceo, quando mi toccava studiare la sera perché rientravo tardi dagli allenamenti. A scuola i miei compagni dicevano tranquillamente di “non aver avuto tempo per studiare” e in quei momenti mi veniva il nervoso. Davvero, mi arrabbiavo, perché pensavo che loro non avevano idea di cosa significhi letteralmente “non avere tempo per studiare”. A causa del nuoto, per esempio, non mi è stato possibile iscrivermi a una facoltà di laurea a frequenza obbligatoria. Ѐ una passione che, in qualche modo, ha condizionato la mia vita. Tutto ciò che gravita attorno al mondo della piscina è per me una seconda famiglia. Devo a quel mondo tante emozioni memorabili, bei ricordi; ma allo stesso tempo vi associo anche esperienze meno gratificanti».

Qualche brutta delusione?

«Sì, so cosa significa perdere, l’ho vissuto sulla mia pelle. In certi momenti mi sono accorto che il mondo del nuoto ti lascia trofei, orgoglio, ma è capace di abbandonarti con la stessa rapidità. Quando inciampi non c’è nessuno a raccoglierti. C’è stato un periodo in cui avevo visto solo la prospettiva più rosea, il mondo dorato del vincitore, poi mi sono reso conto che c’era anche dell’altro».

Quando è avvenuto questo cambiamento di prospettiva?

«A diciotto anni, dopo aver vinto il bronzo ai mondiali di Berlino, mi celebravano come il nuovo Magnini. “Sei il quarto al mondo”, dicevano. Mi avevano montato la testa. Forse ero troppo giovane per essere caricato di tante aspettative e responsabilità.  Avevo tutti gli occhi puntati addosso.
Poi sono venute le Olimpiadi di Londra e non sono stato all’altezza delle attese. Arrivavo al traguardo distrutto, senza fiato. Ѐ stato terribile. Tutti si chiedevano cosa non andasse, non riuscivano a capacitarsi del mio fallimento. Quattro gare andate male. Mi volevo nascondere dalla vergogna, sapevo che li avevo delusi. E tutti, di fronte all’insuccesso, mi hanno voltato le spalle».

Fabrizio, tu sei stato il primo atleta paralimpico ad entrare nel corpo delle Fiamme Gialle. Direi proprio un bel traguardo. A diciotto anni hai partecipato persino a un’Olimpiade, non mi sembra che tu ti debba vergognare. L’esperienza di Londra è stata davvero così tragica?

«Londra era la grande occasione e non sono riuscito ad affrontarla con lo spirito giusto. Non avevo la testa. Era anche l’anno della maturità. Sono arrivato al villaggio olimpico completamente frastornato, mi sembrava di essere nella Città dei Balocchi. Ho tanti ricordi positivi di quei giorni, ma su tutti prevale l’amarezza delle continue sconfitte. Alla fine della quarta gara sono scoppiato in lacrime, ero sotto pressione e non mi spiegavo tante cose. L’unica persona che è riuscita a farmi ridere in quella trasferta è stato il mio fisioterapista, Francesco Saponaro. Per me è stato come un fratello, nei momenti più pesanti mi è stato vicino. Ho riso solo con lui e grazie a lui».

Fabrizio Sottile ai campionati italiani

Fabrizio Sottile ai campionati italiani (© swim4life)

 

Parliamo dei ricordi positivi. Partecipare alle Paralimpiadi di Londra 2012 non capita certo tutti i giorni…

«Quando penso a Londra 2012, ricordo un mondo che non esiste più. Per costruire il villaggio olimpico fu praticamente rasa al suo la città di Stratford e creata una città solo per atleti. Era meraviglioso; un posto dove si incontravano tutte le culture senza alcuna barriera. Ci si ritrovava per pranzo tutti insieme in una mensa enorme, dotata di cucina internazionale. E c’era l’Acquatic Center, il più grande impianto sportivo a livello mondiale, costruito proprio in occasione dell’Olimpiade. Poteva contenere fino a milleottocento persone. Non avevo mai nuotato in un posto simile. Quando la gente gridava all’unisono per fare il tifo, il boato era così potente che ti dovevi tappare le orecchie. Ѐ stata un’emozione fortissima, porterò sempre nel cuore l’Acquatic Center. Mi è stato anche di ispirazione per la tesina di maturità».

Dici che l’Olimpiade di Londra è stata una delusione, ma poi i successi non sono mancati.

«Sì, mi sono riscattato già l’anno successivo con i Mondiali di Montrèal. Poi sono seguite quattro medaglie agli europei e cinque nei cento metri stile. Ho fatto tempi che non mi aspettavo. Anche se la sconfitta dell’Olimpiade non l’ho ancora superata. Comunque l’esperienza insegna, adesso affronto Rio 2016 con uno spirito completamente diverso».

Partecipare alle Olimpiadi è stato il tuo sogno fin da bambino?

«Da bambino piangevo sempre prima delle gare, non ero certo Superman. Quando avevo quattro anni dovevano darmi il premio di consolazione in anticipo per convincermi a gareggiare. Poi vincevo; però lo stress era un ostacolo terribile, non sono mai riuscito a reggerlo. La mia prima vittoria memorabile è stata in Francia, nei cento metri stile. Sono arrivato terzo dietro due francesi molto più grandi e forti di me. Mi trovavo sul podio, in piedi in mezzo a loro, con la bandiera italiana sulle spalle. È stato bellissimo. Eh, sì, da allora ho iniziato a sognare le Olimpiadi. Ѐ questo il problema: il mio sogno erano sempre state le Olimpiadi, non certo le Paralimpiadi. Mi ero allenato per tanto tempo con la convinzione di partecipare alle Olimpiadi. Il cambiamento non è stato facile da accettare».

Tutto è cambiato all’improvviso. Come hai scoperto la malattia?

«L’ho scoperta nuotando. Un pomeriggio, mentre mi allenavo in piscina, ho iniziato a vedere un puntino. Uno strano puntino che non si allontanava più dal mio campo visivo. All’inizio pensavo fosse dovuto allo stress, non gli ho dato peso. Nel tempo, però, i sintomi sono peggiorati. I miei genitori mi hanno accompagnato a fare delle visite e i responsi erano agghiaccianti. Hanno ipotizzato di tutto: problemi neurologici, tumore al cervello. Vedevo mia madre in lacrime e non sapevo cosa stesse accadendo. Pensavo: figurati se capita a me. Volevo dire che io stavo bene, ma evidentemente non era così».

Quando è arrivata la diagnosi?

«Dopo mesi. Ho avuto i primi sintomi a marzo 2010 e solo nel mese di agosto un medico ci ha fatto il nome della Sindrome di Lebner, una neuropatia ottica ereditaria. Una malattia rara, per ora curata solo a livello sperimentale. Nel frattempo, la mia vista peggiorava. La malattia ha contagiato un occhio, poi l’altro, senza fermarsi. Il peggio è stato quando ho capito che il male mi poteva togliere qualcosa. A settembre i medici mi hanno detto che non avrei più potuto nuotare, perché temevano che il nuoto avrebbe peggiorato lo spegnimento dei nervi ottici. Per me è stato un colpo al cuore, peggio della diagnosi».

Fabrizio durante una gara

Fabrizio durante una gara (© swim4life)

 

Ma tu non hai desistito e al nuoto non hai rinunciato. Dopotutto, era tutta la tua vita…
«Ho dimostrato ai medici che, con qualche accorgimento, avrei potuto continuare a nuotare.
Quando sono in acqua la disabilità sparisce. L’acqua il mio elemento. Lì mi sento molto più sereno e tranquillo che fuori. Attraverso la malattia ho imparato a “vedere” il mondo del nuoto in un modo diverso. Per esempio, finalmente ho scoperto cosa significa la T sul fondo della piscina: serve per indicare la traiettoria. All’inizio avevo problemi ad andare dritto, non riuscivo a distinguere la direzione. E mi sono schiantato tante volte contro il muro, quanti lividi! Ma al nuoto non avrei mai rinunciato. È la mia dimensione. In piscina ci sono solo due colori: il blu e l’azzurro».

Com’è stato l’impatto con il mondo paralimpico?

«Tragico, all’inizio. Mi sembrava di esserci capitato per sbaglio, mi scocciava essere lì. Io arrivavo da metodi di allenamento durissimi, ferrei, quasi militari. Ero abituato alla professionalità più rigida, mentre lì tutti sembravano divertirsi, giocare. Il nuoto paralimpico infatti è nato come disciplina riabilitativa. Quando ho iniziato eravamo pochi, otto o poco più, e molti erano inesperti. Adesso invece il movimento si è allargato, è diventato molto più competitivo».

Il tuo è un messaggio forte: non hai permesso alla malattia di strapparti i tuoi sogni. Dici che fin da bambino desideravi le Olimpiadi e vi hai partecipato. La categoria paralimpica non è affatto riduttiva. Anzi, siete doppiamente invincibili. Per voi, rispetto ad altri atleti, la sfida è doppia, così come doppi sono lo sforzo, la fatica…

«Io non l’ho mai odiata la mia malattia. Ora riesco a fare, con un po’ di riguardo, le stesse cose che facevo prima. Mi ha solo reso più cocciuto.
La Sindrome di Lebner è strana, perché non è una disabilità evidente. La gente non si rende conto del problema, spesso non capisce le difficoltà in cui mi trovo. Mi sono capitate situazioni molto bizzarre, in cui mi ritrovavo a chiedere aiuto senza essere preso sul serio, perché agli occhi degli altri il problema non esiste. Sono ipovedente, non cieco; per molte persone è difficile rilevare il confine tra le due patologie. Per questo, penso che ci sia ancora molto lavoro da fare a livello di informazione. Bisogna diffondere più notizie sulla malattia, innanzitutto».

Ti stai già impegnando su questo fronte. Per questo motivo ti sei trasformato da nuotatore a pilota attraverso l’esperienza della Guida al Buio. Il tuo obbiettivo è battere il record mondiale fissato da Daniele Cassioli. La vivi come un’opera di sensibilizzazione o come una sfida personale?

«Entrambe. Ho sempre sognato di prendere la patente, non poter guidare è una delle grandi rinunce cui mi ha costretto la malattia.
Quando Omar Frigerio mi ha proposto di partecipare al progetto della Guida al Buio mi sono venute le lacrime agli occhi. Era un sogno che si realizzava, non l’avrei mai creduto possibile. Da bambino sognavo di fare il pilota; penso che sarebbe stata la mia scelta se non mi fossi dedicato al nuoto. Attraverso l’esperienza della Guida al Buio posso sviluppare anche questo aspetto della mia personalità. E poi, l’idea di dover battere un record mi ha dato una scossa di adrenalina. Le prime guide sono state impegnative, non lo nego. Percorrere una pista a quella velocità penso che sia sconcertante per qualunque pilota inesperto. La tensione era altissima, quando sono sceso dall’auto mi girava addirittura la testa, ma avevo l’umore alle stelle. Potevo stare al volante, premere l’acceleratore, affrontare un circuito: fino a poco tempo fa non l’avrei mai neppure immaginato. È stata l’ennesima dimostrazione che la malattia non mi ha impedito di realizzare i miei sogni».

E, insieme a Rio 2016, quante altre nuove sfide si delineano nel futuro. Sfide, o forse sogni, che attendono di essere realizzati. Perché la vita a volte bisognerebbe viverla come una gara al limite del possibile.

Grazie a te Fabrizio, che ci ricordi di credere sempre nei sogni e non averne paura.

Alice Figini
© Riproduzione Riservata

Intervista raccolta nel mese di maggio 2016

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