Shizō Kanakuri
Il giapponese “scomparso”
Esiste, quel giardino tante volte evocato nelle letterature di tutti i Paesi: l’Eden biblico, il luogo delle delizie che come da promesse coraniche può offrire anche trasgressioni carnali. Recintato o aperto, hortus conclusus di spiritualità o locus amoenus dove, nelle parole di Dante, erbetta, fiori e arboscelli «la terra sol da sé produce». Un luogo magico e fatato: è quello dove Alice di Lewis Carroll scorge il coniglio bianco che da’ inizio alle sue avventure; un ambiente idilliaco e rifocillante, fecondo, come quello di Ogigia, dove approda Ulisse e di cui Ermes dice: «arrivato in quel luogo, anche un dio / avrebbe guardato stupito, e gioito nell’animo suo». Tale giardino è a Stoccolma, tra imprecisate coordinate comprese nel tracciato di gara della prova di maratona.
Sul tracciato quei 40,2 km il sole quel 14 luglio 1912 picchiava rabbioso: 32 gradi registrati nella capitale nordica. Non il clima ideale per gli emuli di Filippide: ben 34 atleti su 69 partecipanti non completeranno il percorso. Tra loro, quello che il giornalista svedese Oscar Söderlund qualche decade dopo definì “il giapponese scomparso”.
Era la prima volta dei giapponesi ai Giochi a cinque cerchi e grazie alla presenza degli atleti Yahiko Mishima (portabandiera) e Shizō Kanakuri, sotto l’egida del padre del judo Jigoro Kano, che promosse la partecipazione alla manifestazione, tutti i cinque continenti furono rappresentati. Yahiko gareggiò nei 100, 200 e 400 metri piani: fu eliminato alla prima batteria nei 100 e 200 e raggiunse la semifinale nell’ultima disciplina, ma spossato si ritirò. Shizō, ultima speranza di medaglia per il neo partecipante asiatico, correva la maratona, la disciplina regina, l’evento clou della rassegna e per questo programmato a metà dei Giochi, con partenza alle 13:48, ma non terminò la sua gara.
Kanakuri si era preparato in modo rigoroso e, non soffrendo apparentemente il caldo, aveva impostato la sua gara sull’attacco. Sembrava accreditato a terminare con un ottimo tempo, deteneva d’altronde la migliore prestazione mondiale dell’epoca: 2h32m45s. Fu in testa accanto al sudafricano Ken McArthur, che andrà a tagliare il traguardo per primo. Shizo fu prestante sino al trentesimo km, quando si fermò per accettare un bicchiere di succo di mirtillo (o limone, le fonti non concordano) offertogli da uno spettatore che stava seguendo la gara comodamente seduto nel giardino della sua abitazione, nel paese di Sollentuna. Al tempo non erano previsti punti di ristoro per gli atleti: eccola, Ogigia. L’hortus conclusus di un picnic casalingo. Il locus amoenus che per un maratoneta è un canto di sirene, il miraggio, la fata Morgana che fa del giardino di delizie una trappola infernale, senza nemmeno l’aiuto della notte.
Scrisse Umberto Eco nell’Ultimo Folio del Nome della Rosa: «E poi, se sarai bravo, [dovrai] accorgerti del modo in cui ti ho tratto nella trappola, perché infine te lo dicevo ad ogni passo, ti avvertivo bene che ti stavo traendo a dannazione, ma il bello dei patti col diavolo è che li si firma ben sapendo con chi si tratta».
Kanakuri sapeva e firmò il suo patto col diavolo: si abbandonò al canto di sirena che alle gambe promette ristoro, rinfresco alla testa, energia alla corsa. Quella voce che supplica di mettere fine allo sforzo a cui si sta sottoponendo il corpo. Shizō Kanakuri si adagiò sulla poltrona, e dormì.
Malgrado mancassero pochi km, nonostante il più fosse alle spalle, più dello spirito agonistico poterono le delizie del riposo. La ripartenza parve insopportabile, anche se sicuramente vide passare qualche altro corridore, il fisico a riposo non obbedì al comando di marcia.
Shizō dormì fino alla fine della gara e oltre, chissà per quanto. Come in una favola. Il risveglio fu amaro. E più dell’acido lattico poté l’imbarazzo. Nessuno seppe più nulla di lui: non i suoi delegati, non gli organizzatori, non gli altri atleti. La polizia svedese lo iscrisse nel registro delle persone scomparse.
Successe di tutto, quella domenica, lungo quei 40,2 km. L’immagine di Dorando Pietri traballante a Londra 1908 era viva tra i partecipanti e gli spettatori. Il circuito di Stoccolma fu una corsa a eliminazione. Dalla pagina di Shizō, tra le più divertenti dello sport a cinque cerchi, si passò a una delle pagine più nere: la morte del ventiquattrenne portoghese Francisco Lázaro, il quale detiene il triste primato della prima morte durante un avvenimento olimpico. Il giovane di Lisbona, per timore delle ustioni, si cosparse il corpo di cera. La sostanza applicata sulla pelle impedì la normale traspirazione. I cinque compagni della nazionale portoghese, allarmati per averlo perso di vista dopo averlo visto recuperare ben nove posizioni tra il quindicesimo e il venticinquesimo km, lo trovarono privo di conoscenza su una collina al ventinovesimo km. Morì disidratato il giorno dopo.
In Svezia il nome di Shizō rimase ad aleggiare nel mito. Mitica fu la sua selezione, mitica la sua partecipazione e mitica la sua scomparsa.
A quel tempo l’interesse per lo sport in Giappone era scarso. In seguito alla speciale richiesta d’invito del barone de Coubertin, Jigoro Kano creò nel 1911 l’Associazione Giapponese di Sport Amatoriali, con l’obiettivo di soprintendere e addestrare gli atleti selezionati per partecipare alle Olimpiadi. Vennero pubblicati annunci sui giornali e, su novantadue aspiranti atleti che risposero, soltanto Yahiko e Shizō furono considerati idonei.
Kanakuri era allora studente all’Istituto Magistrale di Tōkyō, scuola presieduta da Jigoro. Jigoro chiese al ragazzo di allenarsi almeno un’ora al giorno dopo le lezioni. Era una richiesta impegnativa, tenuto conto del fatto che il Ministero dell’Istruzione accordò controvoglia ai due atleti il permesso di saltare le lezioni per partecipare ai Giochi. I giapponesi erano consapevoli di non essere all’altezza delle altre nazioni e già imputavano lo scarso risultato alla disorganizzazione sportiva nipponica.
Shizō Kanakuri partì grazie a una colletta di duemila yen messa insieme nella sua scuola. Era una somma considerevole, attualizzabile 154.000 euro. Partì con Yahiko Mishima in treno, da Shinbashi a Toruga, poi in nave fino a Vladivostock, poi ancora in treno lungo tutta la transiberiana: un totale di diciotto giorni a bordo di un vagone, mangiando cibi insoliti, attraversando il clima freddo dell’emisfero nordico. Arrivarono a Stoccolma demoralizzati, ma sfilarono con orgoglio alla cerimonia inaugurale, con Shizo che reggeva il cartello del Paese e Yahiko che sventolava la bandiera del Sol Levante, polo bianche a maniche corte, seguiti dai funzionari giapponesi con giacca a coda di rondine.
Fu una spedizione destinata a restare nell’epica delle Olimpiadi. Cominciata nell’avversità e finita nella sparizione.
In occasione del Cinquantenario dei Giochi di Stoccolma, il giornalista svedese Oscar Söderlund fu inviato in Giappone alla ricerca del maratoneta addormentato: trovò Shizō Kanakuri a Tamana, la sua città natale, padre di sei figli e nonno di dieci nipoti. Svolgeva ancora la professione di maestro elementare di geografia. Altro che sperduto. Il giornale, fiero del proprio scoop, invitò l’ex atleta a completare simbolicamente la gara dal punto in cui era stata interrotta.
Fu così che il settuagenario Shizō nel 1967 concluse la maratona nell’imbattibile tempo di 54 anni, 8 mesi, 6 giorni, 5 ore, 32 minuti 20 secondi e 3 decimi. La televisione svedese lo celebrò come “il giapponese ritrovato”: la storia dell’atleta scomparso durante la gara senza lasciare tracce per cinquant’anni era troppo curiosa per essere vera. Shizō non era un latitante della maratona, non fu inghiottito da un triangolo delle Bermude nordico: fu selezionato anche per le Olimpiadi del 1916, cancellate per motivi bellici, concluse la maratona ai successivi Giochi di Anversa 1920 al sedicesimo posto e partecipò anche all’edizione di Parigi 1924, quella volta senza tagliare il traguardo. In Giappone gli furono riconosciute onorificenze per i risultati ottenuti e il contributo allo sviluppo dello sport di lunga distanza, con la creazione della Tōkyō-Akone; Karakuri però ignorava di aver lasciato dietro ai suoi passi tanto affetto in Europa.
Morto Shizō nel 1984 in veneranda età, nel 2012 fu invitato un suo pronipote, Yoshiaki Kurado, a correre la maratona del Centenario dei Giochi di Stoccolma. Aveva 24 anni, era impiegato in banca e aveva corso nella sua vita una sola maratona. Dal pedigree umile come Shizō, si considerava un “corridore ordinario”. Il percorso era lo stesso di cento anni prima: dallo stadio olimpico di Stoccolma alla chiesa di Sollentuna e ritorno. Attorno al chilometro trenta, la casa della famiglia Petré che aveva accolto la stanchezza di Shizō e addormentato la sua corsa, fu allestita come punto di ristoro per i partecipanti.
Chi si ferma è perduto? A volte…
Melania Sebastiani
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