Chris Mears e Jack Laugher
La vita vince
Un tuffo conturbante, difficile. Dal trampolino di tre metri: salto avanti, due capriole, tre avvitamenti, 3.9 di difficoltà. Prima delle Olimpiadi i due ne parlavano come di un’arma segreta: «Stiamo preparando un nuovo tuffo, è qualcosa che nessuno ha mai provato prima nel nuoto sincronizzato».
L’hanno chiamato washing machine, che letteralmente in italiano si traduce “lavatrice”; ma, per qualche strana ragione, a me il termine inglese richiama un’esperienza vissuta di persona, una giostra del Luna Park: quelle attrazioni a centrifuga che ti mettono completamente sottosopra, tanto che quando scendi e posi i piedi a terra hai bisogno di un momento per ritrovare i punti di riferimento.
Il primo oro della Gran Bretagna nei tuffi è mirabolante e travolgente, proprio come un giro di giostra. Ha un sapore giovane, fresco, di innocenza, che riflette appieno lo spirito dei suoi campioni. Chris Mears e Jack Laugher, rispettivamente ventitré e ventun anni, sono riusciti a infrangere l’imbattibilità storica riservata agli atleti asiatici nei tuffi sincronizzati.
Una vittoria unica che ci restituisce tutta l’atmosfera epica dei Giochi Olimpici, assieme all’impressione istantanea di assistere alla storia nel corso del suo svolgersi. Irripetibile, proprio come quell’abbraccio commosso e prolungato che sprigiona tutta la meraviglia e l’incredulità per un successo inatteso. Non ci speravano, Jack e Chris, di mettere fine al dominio cinese nei tuffi e lasciare la consolazione di un bronzo alla coppia formata da Cao Yuan e Qin Kai.
Il loro abbraccio dice tutto e ancora di più raccontano le loro lacrime. Fra le tante immagini di atleti con gli occhi lucidi a causa di una bruciante sconfitta che ci hanno riservato queste Olimpiadi, sicuramente sarà difficile dimenticare l’emozione di un pianto di vittoria. Perché Chris Mears e Jack Laugher saranno per sempre cristallizzati in quell’istantanea che li ritrae stretti l’uno all’altro, uniti da un pianto liberatorio e attonito, a restituirci la sintonia di un momento che non si ripeterà più. Sembrano due fratelli, Chris e Jack: moro l’uno e l’altro biondo, ma con lo stesso sorriso, le fossette sulle guance accentuate, mentre sollevano le loro medaglie verso gli obbiettivi con timido entusiasmo.
Oltre i loro fisici scolpiti, la perfezione di una performance inimitabile, si annida una vicenda che non è andata in scena all’Acquatic Center di Rio de Janeiro, nel tempo breve di quel salto nell’acqua.
Una storia che emerge ora, a sette anni di distanza; prima del fatidico dieci agosto, il mondo ne era all’oscuro. Senza il trionfo di quell’oro, probabilmente la lotta personale, la battaglia privata di Chris Mears in un letto d’ospedale, sarebbe rimasta sconosciuta. Nulla più che una piccola storia, una trama di vita, destinata a cedere il posto agli onori di imprese atletiche di altra taratura.
Cicatrici e battaglie
Nel gennaio 2009 la speranza di vita di Chris Mears era ridotta ad un numero, una cifra minuscola, quasi troppo insignificante per concedere un margine di aspettativa: 5%.
A soli sedici anni un virus terribile, l’Epstein-Barr, lo stesso responsabile della mononucleosi, gli stava portando via tutto. Chris era già allora una giovane promessa dei tuffi e stava disputando il Youth Olympic Festival a Sidney, quando un malore lo colse all’improvviso. Pur di partecipare alle gare aveva trascurato l’infezione, attribuendola a una febbriciattola passeggera, e ignorando così le conseguenze più gravi. I suoi organi erano indeboliti e il continuo impatto con l’acqua causò la rottura della milza, provocando una forte emorragia. Lo trovarono ore dopo nella sua camera d’albergo, privo di sensi. Chris fu ricoverato d’urgenza e portato in sala operatoria, dove venne sottoposto a sette ore di intervento chirurgico. La sua vita restò per tre giorni appesa a un filo, a quel labile cinque per cento auspicato dai medici. Chris lottava nel sonno indotto dal coma, mentre attorno a lui si mormorava di gravi danni cerebrali, infermità fisiche irrimediabili.
Si risvegliò tre giorni dopo, convinto che fosse ancora lunedì. Il suo ritorno alla vita fu annunciato da un memorabile bisticcio con i medici che si ostinavano a ripetergli che, contrariamente a quanto credeva, era giovedì.
Poi gli dissero che non avrebbe più potuto praticare sport. Parole dure da sentire per un ragazzo che aveva dedicato l’intera esistenza ai tuffi. Da bambino si lanciava addirittura dal divano, poi ai genitori venne l’idea di metterlo su un trampolino e da quel momento l’ascesa fu inarrestabile. I suoi allenatori intuirono subito in lui la stoffa del campione, unita a uno sviluppo fisico eccezionale. I risultati non tradirono le aspettative, il suo destino sembrava già scritto; d’improvviso, invece, la partecipazione olimpica si riduceva a nulla più di un miraggio.
Lo consolarono dicendogli che era ancora giovane, avrebbe avuto tutto il tempo per dedicarsi ad altre passioni; ma gli stavano strappando il suo sogno. Chris non volle sentire ragioni e, a suo rischio e pericolo, diciotto mesi dopo era di nuovo in gara, partecipava ai Giochi del Commonwealth a New Delhi. Aveva oltrepassato l’anticamera della morte ed era sopravvissuto: così giovane aveva già sperimentato sulla sua pelle quanto fosse potente e allo stesso tempo effimera la vita, e non intendeva più risparmiarsi.
Non è dato di sapere se la filigrana che costituisce l’esistenza umana sia molto forte oppure molto fragile, ma c’è una certezza che si incarna anche nella persona di Chris Mears: la vita vince. Di fronte alla prospettiva del nulla che rappresenta la morte, c’è lo spiraglio della vita e l’energia, la forza di volontà, l’incommensurabile capacità di reazione che il semplice atto di vivere comporta.
«L’impressione che nulla possa andare peggio ti fornisce un buon atteggiamento mentale, utile nello sport», dice oggi Chris, «quando sento che mi mancano le energie per fare un altro tuffo e ritentare, il ricordo di ciò che è stato mi dà la forza per lavorare ancora più duramente. Tutto questo mi ha semplicemente insegnato che la vita è troppo breve».
Di quell’esperienza oggi Chris conserva una maturità saggia a dispetto della sua età, e una passione per la musica nata durante le lunghe giornate trascorse nel letto d’ospedale, che l’ha condotto inaspettatamente a scoprire il proprio talento come dj. A ricordargli ciò che ha passato rimane una lunga cicatrice verticale nel mezzo dell’addome. Il simbolo di chi combatte e ha imparato a non arrendersi.
Un’accoppiata vincente
La drammatica storia di Chris ha in parte oscurato le più ordinarie vicissitudini di Jack Laugher, atleta di tutto rispetto, che possiede già un palmarés impareggiabile. Jack è originario dello Yorkshire e, a soli ventun anni, nella sua carriera ha già conquistato quattro ori importanti, di cui due nel 2014 ai Giochi del Commonwealth.
Chris e Jack si sono allenati insieme per anni e sono diventati buoni amici, anche fuori dalla piscina. I due sono addirittura coinquilini e dividono un appartamento a Leeds. In Inghilterra sono conosciuti per essersi schierati apertamente a favore dei diritti delle persone omosessuali, in difesa del collega Tom Dailey.
Oggi raccontano che il clima britannico è stato un buon alleato per affrontare le acque verdi e melmose della piscina di Rio, tanto contestate dagli atleti, che tuttavia non hanno intimorito i due campioni inglesi: «Noi amiamo tuffarci sotto la pioggia. Molti dei fattori che sono stati causa di eliminazione per gli atleti in gara, per noi non erano affatto un ostacolo. Abbiamo ritrovato in Brasile il classico tempo inglese».
Mears ha perfino coniato l’espressione «English Rio weather»; un neologismo che esemplifica una perfetta fusione di culture, in ideale spirito olimpico.
Alice Figini
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