Nina Ponomareva
Un disco, cinque cappelli e tre ghinee
Mosca, anno 2016. Nota del Ministero dello Sport:
«Oggi 19 agosto, lo sport russo ha subito una perdita irreparabile. Al suo ottantesimo anno di vita è morta la campionessa olimpica d’atletica, Maestro Onorato dello Sport dell’URSS, Nina Ponomareva Apollonovna (Romashkova). Questa grande atleta è la prima medaglia d’oro dell’Unione Sovietica».
Seguono in nota i primati e le onorificenze: oro alle Olimpiadi di Helsinki (1952) e Roma (1960). Bronzo a Melbourne nel 1956. Campionessa d’Europa nel 1954 e otto volte campionessa dell’URSS (1951-1956, 1958, 1959), detentrice di diversi record del mondo e olimpici. Completa la carriera sportiva allenando per più di 30 anni i giovani atleti. Insignita dell’Ordine della Bandiera Rossa del Lavoro, e dell’Ordine del Distintivo d’Onore.
Con un lancio d’agenzia didascalico, il Governo russo saluta una delle più vincenti lanciatrici della storia dei Giochi, più celebre, suo malgrado, per… articoli di modisteria. Cappelli di foggia londinese, nello specifico: quattro con piume, uno giallo, uno malva, uno nero e uno bianco. E uno rosso, di lana.
Il fatto
È un tipico mercoledì d’estate londinese. È l’anno d’esordio di Elvis non ancora “The Pelvis”, al primo posto delle classifiche inglesi c’è Doris Day che canta “Whatever Will Be Will Be”, mentre in Italia è l’anno di “Tu vuo’ far l’americano”. Nina si aggira per il negozio C&A Modes in Oxford Street, alla ricerca dell’amico che l’accompagna nel pomeriggio di shopping. Ha trovato dei bei regali, specialmente il cappello bianco per il figlio che l’aspetta a Mosca.
Anziché trovare è trovata: si avvicinano due inservienti che la portano nel retro. Lei non parla inglese, loro non parlano russo. Si cerca un interprete, mentre le assistenti aprono le borse: estraggono cinque cappelli, li ripongono sulla scrivania. Si mima una sottrazione di merce.
Le commesse riferiscono di essere state messe in guardia dal fare sospettoso della russa, la quale dichiara di avere regolarmente pagato, ma di avere lasciato lo scontrino all’inserviente in cassa, come usa in Russia. Invita a verificare il cambio di 108 rubli che possiede.
Aggiunge, sventolando un mazzo di banconote che ripagherebbero i cappelli numerose volte, di non aver bisogno di rubare per i propri bisogni e di essere disposta a ripagare tutto, se necessario.
Ma le sterline non vengono accettate. La polizia è già stata allertata e sta arrivando. Nina chiede di poter telefonare all’Ambasciata Russa.
Viene scortata alla centrale del West End, un diplomatico è al seguito: l’accusa è il furto di cinque cappelli, per un totale di una sterlina, 12 scellini e 11 penny. Nina dichiara le proprie generalità: 27 anni, maestra, soggiornante all’albergo Lancaster Court con il resto della delegazione atletica. Non vi è necessità di trattenerla: è rilasciata ma dovrà comparire in udienza al tribunale di Marlborough il giorno seguente, 30 agosto 1956, per essere giudicata.
Quel giovedì, però, Nina non si trova. Nessuno sa dove sia andata.
Scatta il mandato di arresto.
L’atleta
Maestra la è davvero a Mosca, ma ancor più Nina è detentrice del record del mondo nel lancio del disco, con primato stabilito alle Olimpiadi di Helsinki. Nata e cresciuta a Sverdlovsk (oggi Ekaterimburg), uno dei tanti gulag dove spesso sotto Stalin finivano deportati artisti (quali Apollon, padre di Nina) e kulaki (quali Anna, madre di Nina). Comincia a praticare l’atletica nella tarda adolescenza e dal campionato regionale del 1947 in pochi anni, battuto il record della connazionale Nina Dumbadze, campionessa europea, è la migliore russa in circolazione.
È pronta per le Olimpiadi finniche, le prime a cui partecipa l’Unione Sovietica, che fino ad allora aveva addirittura rifiutato di costituire un comitato olimpico. È un esordio di stile, con 295 atleti qualificati, una delegazione più numerosa di quella degli Usa.
Il primo oro arriva dal lancio del disco femminile. È Nina. La figlia di due deportati. Talvolta nota con il nome da sposata di Romaškova.
Dal lancio di qualificazione di 45,05m è un crescendo, fino ai sei lanci della finale, con i quali sbriciola con 51,42m il record olimpico di Gisela Mauermayer, risalente al 1936.
Uno spettacolo di forza e fierezza.
Il podio è tutto sovietico, con Elisaveta Bagryantseva al secondo posto (47,08m) e la georgiana Nina Dumbadze al terzo (46,29m).
A meno di una settimana dalla fine dei Giochi, Nina migliora il record mondiale a Odessa.
L’avvicinamento anglo-sovietico
Stalin muore nel 1953. La successione è travagliata: emerge la leadership di Krusciov che avvierà il Paese a una progressiva apertura. I tempi sembrano maturi per avvicinare i rapporti culturali/politici/sportivi tra Regno Unito e Unione Sovietica. L’ambasciatore britannico in URSS, Sir William Hayter, riesce con prudenza a organizzare per l’aprile 1956 una visita di dieci giorni in Gran Bretagna di Krusciov e del suo primo ministro Nikolaj Bulganin, combinando un programma misto di turismo e affari. La Gran Bretagna non poteva aggiudicarsi rappresentanti di più alta carica. Londra è la tappa aggiunta di un tour in India e Yugoslavia, preceduta a una serie d’iniziative volte a celebrare l’arte e la cultura russa in Inghilterra: un’entusiastica acclamazione di amicizia bilaterale, con la promessa di una visita di ritorno.
Si vocifera anche di una serie di spettacoli della compagnia di ballo del Bolshoi previsti per il mese di ottobre alla Royal Opera House: una tournée storica, dato che la compagnia non ha mai fatto rappresentazioni al di fuori del Paese.
Il meeting competitivo organizzato nel White City Stadium tra atleti britannici e sovietici, nella cui delegazione Nina è la stella indiscussa, oltre a rafforzare la manovra diplomatica Krusciov nello stesso anno della sua visita londinese, si configura anche come preludio olimpico: a novembre si svolgono i Giochi di Melbourne e l’estate inglese è un’occasione per misurare i 56 atleti russi in trasferta.
Particolarmente atteso il confronto Vladimir Kuts e Gordon Pirie, protagonisti di appassionanti sfide di mezzofondo. I due s’incontrano nella hall dell’albergo delle delegazione sovietica, attorniati da ragazzi in cerca di autografi.
Cinque cappelli annullano anni di trattative diplomatiche.
L’epilogo
Sei settimane: tanto impiega Nina a presentarsi in tribunale quell’estate del 1956. È la distrazione della stampa, stufa di occupare le pagine con la crisi di Suez. I primi giorni è letteralmente dispersa, mentre i giornalisti e la polizia monitorano le liste d’imbarco di aerei e navi. Il meeting al White Stadium, previsto il venerdì della settimana del furto presunto, salta. Il manager della squadra, Konstantin Krupin, annuncia la cancellazione dell’evento e attacca dichiarando che Nina sia vittima di una “sporca provocazione”, lasciando intendere che sia stata incastrata. Il White Stadium è vuoto.
Alcuni fortunati spettatori riescono a vedere gli atleti in allenamento il giorno seguente. Gli sportivi si studiano a vicenda, qualcuno preferisce fare il turista e viene organizzata una gita a Windsor.
L’aereo della delegazione riparte. Annullata anche la tournée inglese del Bolshoi.
Nei giorni successivi l’Ambasciata sovietica annuncia che Nina è rifugiata in sede. Sir William Hayter è richiamato dal Ministero degli Esteri per risolvere l’annosa e tediante questione. La stampa britannica, lungi dall’essere annoiata dalla vicenda, continua a dedicare ampio spazio al caso.
Una triviale circostanza sbilancia le relazioni anglo-russe e comincia a scivolare nell’assurdo. A meno di due mesi dalle Olimpiadi, dove la Ponomareva è attesa per difendere il titolo vinto a Helsinki.
Il 12 ottobre intorno alle 10 del mattino una macchina dell’Ambasciata sovietica si avvicina alla stazione di polizia del West End. Scende Nina Ponomareva. Si scusa attraverso un’interprete per il ritardo con cui compare. Le leggono i diritti e viene messa in stato di fermo.
L’udienza è fissata al giorno stesso.
Nina si dichiara innocente, come dal principio. La difesa fa leva sul suo status, il suo ruolo, il suo buon carattere. Si sottolinea la sua disponibilità economica. Semi involti nella loro carta, i cinque cappelli sono in patetica mostra su una panca.
Il processo dura tre ore. Il giudice condanna la rispettabile primatista al pagamento di tre ghinee. È all’incirca il doppio del prezzo dei cappelli. Riecheggia la lezione contenuta nel saggio di Virginia Woolf, “Le tre ghinee”, che data del 1938, proprio quando il conflitto bellico sta per diventare realtà: tre ghinee sono quanto occorre per evitare una guerra.
Nel caso di Nina, chiudono la crisi diplomatica. La Ponomareva esce dal tribunale velocissima, sorridente, quasi in atteggiamento di sfida, diretta alla nave che da Surrey Docks la riporta a Mosca. Il pontile è gremito di fotografi. Curiosamente, al momento di salpare, un agente marcia verso la passerella con un ordine del tribunale in mano. Per un attimo si trattengono i respiri: il mandato è per una bambina di due anni contesa tra padre russo e madre americana, che scende tra le braccia del padre stringendo una bambola.
L’epilogo
L’Ambasciata russa di Londra non è il miglior terreno dove preparare un’Olimpiade. Nina si presenta a Melbourne sottotono. Non riesce a difendere il titolo, ma sale sul podio: è bronzo con un lancio di 52,02m. La stampa australiana ironizza sui suoi cappelli, lei ribatte senza rilasciare dichiarazioni.
Vladimir Kuts batte l’avversario e amico britannico Gordon Pirie per 11 secondi: per loro primo e secondo posto.
In Inghilterra in fretta e furia viene confermata la tournée del Bolshoi.
I rapporti tra Gran Bretagna e Urss, che archiviato il casus dei cinque cappelli riprendono calore, vengono raffreddati dall’invasione russa dell’Ungheria, che arriva a tingere di rosso le acque antartiche in quell’edizione dei Giochi.
L’oro che Nina doveva difendere a Melbourne è riconquistato a Roma, dove ripete il trionfo di stile del suo esordio: un lancio da 55,10m che vale il record olimpico. Ci crede sempre e si qualifica anche per i Giochi di Tōkyō del 1964, dove però finisce undicesima.
Al ritiro dalle gare, continuerà ad allenare i giovani, praticando sempre l’atletica nei circuiti Master.
È il caso di dire: chapeau!
Melania Sebastiani
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