“Correre Oltre”
A New York contro la Sclerosi Multipla
La Sclerosi Multipla è un demone bianco. Una malattia che si insinua sotto pelle e colpisce nei momenti più imprevedibili. C’è, ma non si vede, e agisce in un modo vigliacco. È silente, invisibile; si manifesta con sintomi evidenti, eppure le sue cause sono sconosciute, al riguardo si può solo avanzare una lunga lista di ipotesi che tuttora si divide tra teorie genetiche e infettive. Si tratta di una patologia che colpisce le cellule nervose, rendendo difficile la comunicazione tra cervello e midollo spinale. Il sistema immunitario scatena un feroce e ingiustificato attacco contro la mielina, la sostanza che forma le fibre nervose.
Il nome “Sclerosi” deriva dalle cicatrici che la malattia, durante la fase infiammatoria, produce sulla materia del sistema spinale e del cervello, a causa della perdita della mielina. Si tratta di cicatrici leggere, sottili, di colore bianco.
La conseguenza più estrema della Sclerosi Multipla è la paralisi: può condurre le persone affette a perdere progressivamente il controllo del proprio corpo. I suoi attacchi sono imprevedibili: puoi svegliarti una mattina e scoprire di non riuscire più a muovere il braccio destro, per esempio.
Ѐ difficile convivere con una malattia quando è il tuo stesso organismo a ribellarsi.
La Sclerosi vuole condannarti all’immobilità e contro questa idea, tremenda, di paralisi ti costringe a lottare. Luana De Grandis ha scoperto di essere affetta da Sclerosi Multipla due anni e mezzo fa, ed è diventata una guerriera. Questa patologia, dapprima sconosciuta, ha completamente rivoluzionato la sua vita e ogni sua prospettiva: l’ha condotta a sfidare se stessa.
Quando le è stata diagnosticata la malattia si immaginava in carrozzina. La gente è solita associare immediatamente il termine “Sclerosi” a un’unica fine possibile: la sedia a rotelle. Le cose sono andate diversamente, perché Luana non solo ha scoperto come convivere con la malattia, ma ha trovato anche il modo di sfidarla, metterla all’angolo.
L’ha affrontata ad armi pari, come può fare solo una persona solare, piena di vita e di energia. Ha deciso di sconfiggere l’idea della paralisi con il movimento. E ha cominciato a correre. Lei, che non era mai stata un’atleta in vita sua, che mai avrebbe pensato di partecipare a una gara competitiva, il 6 novembre percorrerà i fatidici 42,195 chilometri della Maratona di New York. Una corsa per amore della libertà, una sfida personale; non contro la malattia, ma contro i limiti, le condizioni che essa impone. Una maratona attraverserà il cuore della “Grande Mela” in una scia brulicante di movimento, diventando un modo per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla Sclerosi Multipla, sui suoi effetti, sulle sue cause ancora sconosciute.
A New York, Luana non sarà sola. Al suo fianco ci saranno Maria Luisa Garatti, Andrea Verzelletti, Marina Parisio, Ivana Peli, Corinna Heidecker e Francesco Demaio. In tutto sette partecipanti, coraggiosi, motivati. Sono stati selezionati dal Centro Marathon di Brescia, che cura l’iniziativa diretto dal Dottor Gabriele Rosa. La partecipazione alla Maratona si inserisce all’interno di una ricerca scientifica in collaborazione con l’AISM, che avrà la durata di tre anni. Il progetto ha un nome che è anche una metafora di vita: “Correre Oltre”. L’associazione sta facendo il giro del web ed è attualmente seguita da persone di tutte le età.
Oggi Luana indossa una divisa da corsa e ha un nuovo motto: «Non saprai mai quali sono i tuoi limiti finché non li superi».
Con un sorriso confessa di essere stata catapultata «dal divano alla corsa». Lo dice quasi schermendosi, come se nemmeno lei credesse di aver fatto qualcosa di importante. Soltanto adesso, dopo mesi e mesi di duro allenamento, si sta rendendo conto che la sua storia può diventare d’esempio per molte persone.
«All’inizio la Maratona mi sembrava una cosa grossa, troppo grossa per me», ammette all’inizio della nostra conversazione, «non credevo di esserne capace, volevo tirarmi indietro. Poi mi sono detta: perché no? Anche la malattia, in fondo, era una cosa grossa, troppo grossa, che mai avrei immaginato potesse capitare proprio a me».
La assalivano le preoccupazioni di una persona comune: si domandava come conciliare la preparazione alla maratona con la famiglia, il lavoro. Ora il suo mondo è cambiato: le sue fotografie in divisa da runner tappezzano le pareti dell’ufficio. Ridendo, Luana rivela che il suo principale è diventato suo sponsor e che i colleghi la supportano come dei veri fans.
Raccontando di sé non dimentica mai di nominare Mario, suo marito, colui che più di tutti l’ha motivata e spronata, fin da subito, a correre. Mario, il suo angelo custode, che ha sempre creduto nelle sue capacità, persino quando lei stessa era convinta di non farcela: «Puntava la sveglia al mattino presto per venire a correre con me. Insieme era meno faticoso. Lui era un allenatore un po’ improvvisato, mi faceva ridere».
Luana spiega come l’obiettivo l’ha salvata. Con entusiasmo parla della corsa come di una medicina buona. Dice di aver trovato nella maratona la sua «terapia alternativa».
La storia di Luana
Quando descrive la sua malattia Luana sorride, ne parla definendola: «questa cosa che mi è capitata».
«Ѐ successo tutto all’improvviso. Un giorno ero in ufficio e mi sono accorta di non riuscire più a vedere dall’occhio destro. Proprio non vedevo nulla: buio totale. Pensavo di andare da un oculista, ma mio marito Mario è stato più risoluto, mi ha detto: macché oculista, io ti porto in ospedale!».
Quanto tempo è trascorso dai primi sintomi alla diagnosi?
«Ci sono voluti mesi. A marzo 2014 mi è stata data la prima diagnosi. All’inizio non potevo crederci, mi sembrava impossibile che fosse capitato a me. Subito ho iniziato a fare tutte le ricerche possibili per cercare una spiegazione, per capire cosa mi stava succedendo. La mia neurologa mi ha detto che è “la malattia dello stress”, al che io sono scoppiata a ridere e le ho risposto: ma allora non dovremmo averla tutti?».
Com’è convivere con la malattia?
«Ѐ imprevedibile. Posso stare bene per lunghi periodi e poi avere delle ricadute improvvise. Una volta alla settimana devo fare delle iniezioni di interferone per tenerla sotto controllo: il giovedì sera. Odio quel giorno. Per me è un massacro, le iniezioni sono potenti e ogni volta mi gettano a terra. Ѐ così ogni settimana. Poi, il sabato pomeriggio ricomincio a vivere».
Sicuramente, in una situazione del genere, nessuno vorrebbe affaticarsi. Perché ti sei avvicinata alla corsa?
«Ho iniziato camminando, da sola, per stare in pace con i miei pensieri. Non pensavo di correre. Per gioco partecipavo a quelle iniziative di paese, come “la Camminata del Pompiere”, piccole gare non competitive. Poi, su consiglio di alcuni amici, ho deciso di iscrivermi alla mia prima maratona, la “Dj Ten”. Ѐ stato divertente, mi sono accorta che correre mi aiutava a distrarmi, così ho deciso di partecipare anche alla Milano Marathon; una tappa quasi obbligata per chi, come me, viene dalla provincia.
Probabilmente mi sarei fermata lì, se non avessi conosciuto Maria Luisa Garatti…».
Un incontro che ti ha rivoluzionato la vita. Cosa ti ha colpito di Maria Luisa?
«La sua energia. Maria Luisa sprona chiunque. Ѐ lei l’ideatrice del progetto “Correre Oltre”. Si è messa in contatto con il Dottor Rosa, poi ha coinvolto uno ad uno tutti noi. Lei è una persona molto attiva, ha una tempra forte, si è subito ribellata alla malattia. Ѐ difficile non lasciarsi contagiare dal suo entusiasmo».
Ma tu non ti sei lasciata convincere facilmente…
«Correre una maratona importante come quella di New York mi sembrava troppo impegnativo. E l’America è lontana. Ho pensato alle spese del viaggio, al tempo che avrei dovuto dedicare agli allenamenti. Poi, io non sono un’atleta, e continuo a non ritenermi tale. Maria Luisa, comunque, non si è arresa: continuava a insistere e a motivarmi. Il sostegno della mia famiglia è stato fondamentale, mi hanno consigliato di provarci. Mio marito si è improvvisato allenatore. Nessuno ha detto: “Poverina, è troppo per lei.” Tutti hanno sostenuto questa avventura incredibile».
Il primo impatto con il Centro Marathon di Brescia com’è stato? Hai conosciuto subito il resto della squadra?
«Ho fatto dei test con il Dottor Rosa per capire se il mio fisico avrebbe retto lo sforzo. Sono stata sottoposta ad alcune prove per valutare il grado di resistenza, poi, in base agli esiti, si procede con la tabella di preparazione. Il Centro Marathon ci fornisce dei programmi di allenamento personalizzati, siamo seguiti passo passo in questo percorso. All’inizio conoscevo gli altri membri della squadra soltanto di nome. Nel mese di luglio ci siamo ritrovati per la presentazione del progetto al giornale di Brescia e ci siamo dati finalmente anche un volto».
Che rapporto si è instaurato tra voi?
«Siamo un bel gruppo, ci divertiamo e ci motiviamo a vicenda. Sono tutti solari, sorridenti, sprizzano di energia. A volte penso che cerchiamo di nascondere con l’entusiasmo il pensiero della malattia. Siamo tutti consapevoli di quel qualcosa che ci manca, non è necessario parlarne tra noi. Quando siamo insieme diventiamo forti. Ci siamo soprannominati “I Fantastici 7”».
Avrete avuto modo di confrontarvi e di conoscere le vostre storie. Avete un obiettivo comune, ma senz’altro i vostri percorsi sono diversi. Qualcuno della squadra ha avuto dei trascorsi sportivi?
«Io dico che gli uomini vengono a New York per fare il tempo. Sono loro i veri atleti. Andrea giocava a calcio, finché la malattia non glielo ha impedito. Mentre Francesco è un triatleta. Loro sono più energici, competitivi. Anche Corinna non è da meno: lei è stata istruttrice di sci, non si ferma davanti a niente. Marina ed Ivana invece si sono avvicinate per caso, proprio come me. Ivana mi ha raccontato che neppure lei all’inizio voleva correre, poi è stata convinta da sua sorella Linda, che è maratoneta. Proveniamo tutti da percorsi diversi, ma una cosa senz’altro ci accomuna ed è la straordinaria forza di reazione».
Ci sono stati dei momenti difficili? Hai mai pensato “non ce la faccio”?
«Certo. Mi alleno tre volte a settimana percorrendo dai cinque ai sei chilometri; la fatica la sento, eccome. Ѐ stata dura soprattutto allenarsi durante l’estate. Il 4 settembre sono stata in Franciacorta. Dovevamo percorrere 16 chilometri collinari, in mezzo ai vigneti. Il caldo era estenuante. Guardavo sempre il cronometro, mi sentivo sfinita. C’è stato un momento in cui quasi mi veniva da piangere. Poi mi si sono affiancati altri corridori e mi hanno incoraggiata. “Distraiti,” mi dicevano “sei troppo concentrata sul cronometro, sul tempo. Guarda i filari, guarda l’uva!”. Eravamo in un posto meraviglioso e io non l’avevo neanche notato. Da quel momento non ho più sentito la fatica».
Pensi che questa esperienza ti abbia cambiata? Che significato ha assunto per te la corsa?
«La corsa è la mia terapia alternativa. Ora ci penso in continuazione, è diventata una vera e propria fissazione. Prima nei negozi guardavo i vestiti, adesso sono ossessionata dalle scarpe da corsa! Ne ho un armadio pieno a casa, vari modelli per i diversi tipi di terreno. Sicuramente questa esperienza mi ha cambiata, a volte mi domando: “Chissà se questo è solo l’inizio?”. Non penso di fermarmi dopo la maratona di New York, la corsa è diventata la mia valvola di sfogo. Ѐ successo tutto in modo così imprevisto che talvolta mi sorprendo io stessa. Ho iniziato a vedere le cose da un’altra prospettiva. Sotto certi aspetti questa potrebbe apparire quasi “l’occasione della vita”».
E soprattutto è un messaggio forte da trasmettere…
«A questo non avevo pensato, me ne sono accorta col tempo. Ora capisco quanto è utile parlarne e far conoscere l’iniziativa. Purtroppo c’è ancora la mentalità che un malato debba stare il più possibile a riposo, limitarsi alle cure e a vivere senza fare sforzi. Che, in ogni caso, debba rallentare, fermarsi. Ora la gente mi vede in divisa da runner parlare della mia malattia, e si sorprende. Vorrei mostrare alle persone che ci sono possibilità: che se ti capita una cosa del genere non è la fine. Anzi, a volte è semplicemente un nuovo inizio.
Ma io mi vergogno a parlare in pubblico, non credo che riuscirei a dire tutto quello che vorrei…».
E cosa vorresti dire alle persone, se ne avessi l’opportunità?
«Di non arrendersi. Quando ho partecipato alla Milano Marathon, nel mese di aprile, ho incontrato una ragazza. Era molto più giovane di me e stava per ritirarsi. Continuava a ripetere che non ce l’avrebbe mai fatta.
Allora mi sono affiancata a lei. “Guardami,” le ho detto “se ce l’ho fatta io.”
Ѐ stata la prima volta che ho parlato della mia malattia in pubblico, di fronte a gente estranea. All’improvviso non ho più avuto paura, è come se avesse fatto “outing”. La ragazza piangeva quando, una volta tagliato il traguardo, le ho detto: “Hai visto? Ce l’hai fatta. Complimenti.”
Mi ha risposto: “Grazie.”
Alla fine eravamo tutte e due in lacrime».
Alice Figini
© Riproduzione Riservata
(Intervista raccolta nel mese di settembre 2016)
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