Alice Milliat
L’Olimpiade delle donne
All’evento il New York Times dedicò un articolo di cento battute, posto sotto il titolo: Women athletes in Paris.
Donne, atlete, a Parigi. Un aggettivo “atlhetes” dal genere non definito, non meglio specificato, quasi si trattasse di una specie rara, non identificata. Quel termine, tradotto in italiano come “atletesse”, veniva usato dai giornalisti dell’epoca quasi con un’inflessione sprezzante. Era il 1922. Si cominciava per la prima volta a parlare di una cosa inaccettabile, inconcepibile. Non esisteva neppure un termine per definirla.
Una donna al comando
La chiamarono “La suffragetta dello sport”, “La Pasionaria”, “La Militante”. Un’attivista, o forse una visionaria. La descrissero come l’anima del movimento femminile nello sport, un esempio vivente di donna moderna. Alice Milliat, atleta e dirigente sportiva francese, seppe precorrere con anticipo i propri tempi; era, in pratica, una donna che non sapeva stare al suo posto. Ebbe il coraggio di dire quello che nessun altro riusciva a dire: che lo sport favoriva il coraggio, la capacità di reagire e aiutava le donne a prendere confidenza con il proprio corpo. Pose in primo piano la fisicità dello sport, oltre all’aspetto psicologico- motivazionale. Era la parola di una maestra elementare che nella vita aveva subìto una serie di contraccolpi e, ciò nonostante, si era sempre mantenuta in piedi.
Il suo vero nome era Alice Million. Nata a Nantes, il 5 maggio 1884. Il padre Hyppolite gestiva un negozio di alimentari sotto casa, la madre Joséphine era una sarta; la giovane Alice capì ben presto che per compiere la scalata sociale aveva una sola risorsa: lo studio. Lei stessa dichiarò che l’idea dell’attività sportiva neppure la sfiorava in gioventù, preferiva guardare le partite anziché prenderne parte. Ma in seguito le cose cambiarono.
Grazie al suo impegno, a soli diciotto anni la Milliat ottenne un incarico come istitutrice in Inghilterra e lasciò la Bretagna alla volta del Regno Unito.
Qui conobbe il compatriota Joseph Milliat, che divenne suo marito. Da quel momento Alice abbandonò il cognome da nubile, divenne “Alice Milliat” come oggi è universalmente conosciuta. Joseph morì appena quattro anni dopo il matrimonio; lei, nonostante la vedovanza precoce, non si risposò mai più e mantenne il nome di Milliat come un vessillo. Non aveva avuto bambini, a poco più di vent’anni si ritrovò sola e decise di dedicare tutte le energie e gli sforzi alla causa che le stava più a cuore. A Londra si era avvicinata, per caso, al canottaggio, disciplina nella quale eccelleva e che iniziò a praticare regolarmente. Fu la prima donna della storia premiata con l’Audax per le lunghe distanze, per aver ricoperto diverse dozzine di chilometri in un determinato limite di tempo.
Dopo la morte del marito iniziò a viaggiare per l’Europa, e in seguito si spinse oltre, alla volta degli Stati Uniti. L’incontro con nuove culture le fornì una diversa percezione della realtà in cui viveva e dei cambiamenti del proprio tempo. Durante i suoi viaggi ebbe la possibilità di imparare varie lingue e quando tornò in Francia, allo scoppio della prima guerra mondiale, si dedicò al lavoro di traduttrice.
In Francia, la Milliat divenne membro del club sportivo Fémina Sport, fondato nel 1911 da Pierre Paysée. Si trattava della prima associazione che si dedicò alla promozione della pratica sportiva femminile, combinando danza e sport. In quegli anni l’attività della società si andava allargando; cominciò a sponsorizzare anche tornei di rugby, calcio e ciclismo. Pratiche non proprio associate all’immaginario femminile, che iniziarono a fare scandalo. Nel 1917, Fémina Sport organizzò il primo campionato nazionale francese di atletica leggera.
Le donne che praticavano sport a quei tempi erano viste come fanatiche, selvagge, se non addirittura malate di mente. Si diceva che vedevano nell’attività sportiva solo un’occasione per dare inizio a una rissa. Suscitò scandalo, all’epoca, l’idea che Violette Morris, sposata in Gourad, avesse partecipato a una gara senza reggiseno.
Il vero problema era che, oltre a non essere legittimamente autorizzate a praticare sport, queste donne non possedevano neanche l’abbigliamento adeguato per dedicarsi all’attività sportiva. Erano paralizzate da abiti ingombranti, lunghe gonne e veri e proprio scafandri che avevano lo scopo di coprirle dalla testa ai piedi per non dare adito alle malelingue subito pronte a definirle, oltre che pazze, pure scostumate.
La Milliat all’epoca era solo un’appassionata canottiera e nuotatrice, ma ben presto decise che era venuto il momento di prendere in mano le redini della situazione. Nel giugno del 1918. diventò segretario generale della Société Feminine du Sport, e nel marzo 1919 fu eletta presidente a unanimità di voti. Prima di allora i leader dei club sportivi in Francia erano tutti uomini. Sotto la sua direzione l’associazione organizzò campionati di atletica leggera e di hockey, football e basketball. Fino a quel momento alle donne era permesso competere ufficialmente solo nel tennis, nel pattinaggio su ghiaccio e nel nuoto.
Alice Milliat era una donna di forte personalità, come si può rilevare dalle testimonianze dell’epoca. La sua franchezza la portò a farsi numerosi nemici nella società. La trovavano una donna scomoda e fastidiosa. Se fosse stata un uomo, i suoi sforzi sarebbero stati molto più apprezzati.
Era nata nel 1884, dopotutto, e possedeva un’educazione superiore rispetto alla media, che la poneva in diretto confronto con le massime personalità del suo tempo – ovviamente maschili – che non potevano tollerare la sua posizione e il rapido successo sociale a cui stava andando incontro.
Nel 1934, rilasciò una dichiarazione incisiva per il giornale Indipendent Woman: «Nel mio Paese lo sport femminile subisce un handicap per la mancanza di spazio che gli viene riservata. Se noi non abbiamo la possibilità di voto, non possiamo dar voce ai nostri bisogni. Ho detto alle mie ragazze che il diritto di voto è una delle cose su cui dobbiamo lavorare in Francia, se vogliamo prendere posto con le altre nazioni nel regno dello sport femminile».
Le Olimpiadi di Parigi
Forte del successo di un meeting internazionale a Monte Carlo, denominato “Festival mondiale dello sport muliebre” nel marzo 1921, cui avevano partecipato donne provenienti da Francia, Italia, Inghilterra, Norvegia e Svezia, la Milliat decise di fondare la Fédération Sportive Féminine Internationale (FSFI) che nacque il 31 ottobre 1921, a Parigi.
Il numero delle sue sostenitrici era aumentato vertiginosamente, ormai Alice non era più sola a combattere la sua battaglia. Per l’anno dopo Madame Milliat decise di organizzare un evento storico senza precedenti; si preparava alle Olimpiadi. Un guanto di sfida lanciato come uno schiaffo a Pierre de Coubertin, il Barone progenitore delle moderne olimpiadi e fermamente convinto dell’esclusione femminile ai Giochi. Fu la Milliat a demolire a poco a poco l’embargo sessista creato dal Barone attorno ai Giochi Olimpici, che de Coubertin vedeva come una creatura di sua proprietà.
Il 20 agosto 1922, allo stadio Pershing di Parigi, vennero inaugurate le prime Olimpiadi delle donne.
Si trattò di un festival della durata di tre giorni, seguito da oltre 15mila spettatori. Settantasette in tutto le sportive partecipanti, provenienti da venti paesi, tra cui Cecoslovacchia, Francia, Inghilterra, Svezia, Svizzera e Stati Uniti. La gara fu aperta in grande stile, come una normale cerimonia olimpica. Le medaglie vinte non furono riconosciute come ufficiali, ebbero solo un valore dimostrativo. Tuttavia, la portata dell’evento attirò l’attenzione pubblica. Nei giorni successivi alcune testate giunsero persino a paragonare le Olimpiadi della Milliat ai Giochi Olimpici del Barone de Coubertin con grande disappunto di quest’ultimo, che vedeva inficiato il suo regolamento storico.
Nel 1926 lo svedese Sigfrid Edström, presidente della Federazione internazionale di atletica leggera (Iaaf), proibì ad Alice Milliat di usare il termine “Olimpico” per i suoi Giochi Femminili. Lei senza scomporsi ripiegò sulla denominazione di “Women’s World Games,” decisamente più ad effetto. La seconda edizione dei giochi femminili ebbe luogo a Göteborg, il 20 aprile 1926. Nei Paesi scandinavi lo sport femminile ebbe un riconoscimento precoce rispetto alle altre parti d’Europa, l’appoggio della Svezia si rivelò la strategia vincente. Le donne gareggiarono nel salto in lungo, nel lancio del disco e in altre competizioni. Fu la volta della stella giapponese Kinue Hitomi.
La Milliat era appagata dalla riuscita della manifestazione: «Le persone sono interessate allo sport femminile», dichiarò «non è già di per sé un successo?».
Fu una battaglia a colpi durissimi, che vedeva una donna sola al comando contro le più importanti istituzioni secolari del tempo. Paragonavano la sua lotta a uno svago momentaneo, per sminuirla. Dicevano che si sarebbe stancata presto, ma non fu così: la sfida era appena iniziata.
La Milliat, negli anni successivi, continuò a battersi contro il Comitato Olimpico Internazionale per vedere riconosciuta la presenza femminile nello sport. L’osso più duro era l’atletica. Solo nel 1928 alle donne fu concesso di gareggiare in cinque gare di atletica leggera alle Olimpiadi di Amsterdam, dove si assistette al trionfo dell’americana Betty Robinson.
Le Olimpiadi di Parigi erano state solo l’inizio di un percorso, un vagito subito soffocato, un passo incerto in direzione dell’uguaglianza. Il cambiamento fu molto lento, perché si trattava di modificare un’intera tradizione, convinzioni radicate a fondo nella società, non semplicemente di modificare un regolamento sportivo.
L’avversione del Barone
La libera espressione femminile e il desiderio di parità erano ostacolati dalle critiche del Barone de Coubertin, che si compiaceva di ridicolizzare e criticare qualsiasi pretesa sportiva da parte delle donne. Si definiva scioccato nel vedere donne impegnate in esercizi che andavano, a suo dire, al di là dei loro sforzi. Sono note le sue veementi accuse rivolte alle donne inglesi che scendevano dalle colline innevate con lo slittino, esibendosi in pose indecenti e poco consone alla grazia femminile. Approvava l’esercizio sportivo femminile se praticato per ragioni di salute, e solo se svolto nei margini di ambienti strettamente privati. I suoi pregiudizi non si attenuarono con lo scorrere degli anni, anzi, la sua disapprovazione si radicalizzò in ostilità.
L’opposizione di de Coubertin fu sostenuta da James Sullivan, rappresentante del comitato olimpico degli Stati Uniti. De Coubertin intendeva mantenere l’antico rito greco, che impediva alle donne di partecipare ai Giochi Olimpici, se non in qualità di spettatrici. Il Barone definì i Giochi indetti dalla Milliat «una mezza Olimpiade. Non pratica, non interessante, inestetica, scorretta».
Stanca delle continue pressioni, nel 1935, Madame Milliat inviò una lettera al Comitato Olimpico Internazionale (IOC) in cui chiedeva espressamente di eliminare la partecipazione femminile dai Giochi Olimpici, perché le donne avrebbero avuto i loro propri giochi, con cadenza quadriennale, che avrebbero incluso tutti gli sport autorizzati dalla FSFI. La lettera era in realtà una provocazione. I dirigenti sportivi si resero conto che non potevano ormai più ignorare la realtà dello sport femminile.
Alice Milliat morì nel 1957, nel più completo anonimato. Fino all’ultimo fu fedele alla sua causa e all’emancipazione femminile. Le sue dichiarazioni a favore dei diritti delle donne fecero storia: «Un essere sano fisicamente e moralmente senza timore delle responsabilità e pronta a far valere i propri diritti, in tutti i campi, senza perdere la grazia e il fascino».
Alice Figini
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