Merlene Ottey
Il graffio della pantera
Bella e misteriosa lo era davvero. Ogni volta che si preparava ai blocchi di partenza, che per un velocista è il momento mistico per antonomasia, avvertivo quella strana sensazione: un brivido e il ricordo di un racconto del grande poeta e scrittore cileno Pablo Neruda.
«…E poco più in là, nella sua gabbia, s’aggirava una pantera nera, ancora odorosa della foresta da cui era venuta. Era un frammento curioso della notte stellata, un nastro magnetico che si agitava senza posa, un vulcano nero ed elastico che voleva radere al suolo il mondo. Una dinamo di forza pura che ondeggiava, e due occhi gialli sicuri come pugnali, che interrogavano con il loro fuoco, che non capivano né la prigione né il genere umano».
Le parole del premio Nobel si trasformavano in immagini quando, prima di una gara dei 100 o dei 200 metri, la leggendaria Ottey scattava veloce, come una pantera a caccia della vittoria… Sinuosa, agile in ogni fibra, elegante e tecnicamente perfetta; qualità forse non nuove per chi è nato in Giamaica, ma Merlene Ottey era una velocista davvero speciale.
Movenze fulminee fin dall’infanzia: nata a Cold Spring nel maggio del 1960, si appassionò all’atletica e alla velocità quasi per istinto, con naturalezza. Andava a studiare allenandosi e correndo tutti i giorni, e il successo si concretizzò su entrambi i fronti. Già, perché Merlene riuscì anche a diplomarsi e laurearsi con merito. I sorrisi felini più accattivanti erano però quelli che dispensava nelle piste di atletica: i primi applausi e i primi riconoscimenti triplicarono la sua voglia di vincere e primeggiare sia nei 100 e nei 200 metri, distanza che, numeri alla mano, fu quella preferita.
Vinse tantissimo, fondendo la classe alla costanza negli allenamenti: il resto era la naturale conseguenza di quello che la natura le aveva generosamente donato dalla nascita. Perfetta anche per la gioia degli occhi, la Ottey era veloce, maestosa e con uno sguardo che avrebbe fatto innamorare molti poeti dei secoli passati. Tuttavia negli anni qualcuno in lei scorgeva, insieme al fuoco sacro dell’estasi sportiva, un sottile velo di tristezza, di malcelata malinconia. Per Merlene la nebbia che la divideva dalla felicità era quella casella mancante che mai si riempì nel corso della sua lunghissima carriera: la medaglia d’oro alle Olimpiadi.
Due volte campionessa del mondo nei 200 (Stoccarda 1993, Göteborg 1995); oro mondiale a Tokyo (1991) nella staffetta 4×100, ancora titoli prestigiosi fra mondiali indoor (tre ori, due argenti, un bronzo) e Giochi del Commonwealth. Ci vorrebbe un ragioniere per fare tutto il conto, e rischierebbe anche lui di sbagliare: altre undici medaglie iridate e nove olimpiche.
Appunto, tre argenti e sei bronzi: ma incredibilmente mancò la medaglia d’oro. Per sfregio, i media la denominarono “Regina di Bronzo”. Come se non fossero vittorie preziose. Merlene Ottey aveva tutto per riuscire a mettersi al collo il metallo più nobile: il talento e la stoffa, la passione e quella professionalità che le consentiva di arrivare sempre in forma nelle finali decisive e all’appuntamento col cronometro. Sul suo mancato guizzo si potrebbero aprire mille dibattiti. Anzi, a esser sinceri si sono aperti e mai chiusi, perché chi è favorito e poi non vince rappresenta un boccone succulento per stampa e organi di comunicazione. La verità è che nell’atletica non esiste l’assioma o un giudizio definitivo: di certo c’è soltanto l’ordine di arrivo. E comunque, anche quello, a distanza di tempo, può cambiare per squalifiche successive.
Tornando ai Giochi, la Ottey era tecnicamente una specialista dei 200 metri; nei 100 patì l’esplosività e lo stato di grazia di atlete straordinarie ma fu comunque sempre competitiva. A Los Angeles aveva 24 anni, conquistò il bronzo con un ottimo 11’’16’ arrendendosi alle statunitensi Evelyn Ashford (10’’97) e Alice Brown (11’’13); a Seul nel 1988, nei giorni che segnarono la leggenda di Florence Griffith, finì fuori dalla finale per problemi fisici. Quattro anni dopo, Barcellona 1992, si classificò quinta in una finale stellare vinta dalla Gail Devers in 10’’82. E con non pochi rimpianti, visto che Merlene aveva in dote il primato stagionale (10’’80) e con una spinta emotiva alle stelle.
Il destino crudele, che si sposò alla perfezione con la sfortuna, si concentrò però nella finale ad Atlanta del 1996: la Ottey, stavolta non favoritissima e con 36 anni già compiuti, volò in finale con un insperato 10’’94: identico tempo della solita Devers. I giudici assegnarono l’oro alla statunitense al foto finish, per cinque millesimi di secondo.
Qualcuno, quel giorno, vide una pantera piangere.
Nel 2000, a Sydney, la Ottey a 40 anni confezionò un altro capolavoro: quarta in finale con 11’’19, ma guadagnò una medaglia di bronzo postuma (anni dopo Marion Jones, che aveva conquistato l’oro, fu squalificata per doping). Nei 200 metri alle malinconie per i mancati successi si accavallarono, però, record e soddisfazioni comunque degni di nota. A soli 20 anni Merlene conquistò il bronzo a Mosca con 22’’20; si confermò terza assoluta quattro anni dopo a Los Angeles con 22’’09, sconfitta solo dalle americane padrone di casa.
Per soli quattro centesimi non conquistò a Seul 1988 il terzo bronzo di fila, quarta con 21’’99 contro il 21’’95 della tedesca dell’est Heike Drechsler: l’oro andò alla solita Florence Griffith che con 21’’34 stabilì il nuovo primato del mondo. Anche perché a Barcellona 92 la Ottey fu nuovamente medaglia di bronzo, curiosamente di nuovo con 22’’09, stesso tempo di Los Angeles. Nel 1996 ad Atlanta arrivò l’argento ma non fu certo un podio gradito: Merlene partì impetuosa nella finalissima del primo agosto ed era in testa fino a una ventina di metri dal traguardo, con la francese Marie-José Pérec lesta a soffiarle il sogno di una vita. Per la transalpina 22’’12 contro il 22’’24 della giamaicana.
S’ intuisce, tra la carica emotiva e gli stati d’animo che la sua storia ci propone, l’incredibile longevità di Merlene Ottey. Le tante vittorie, gli allori e le sconfitte acquisiscono ancora più valore proprio per questo. Il trascorrere dei mesi e degli anni non hanno mai scalfito o mortificato la grinta e la voglia di allenarsi, nonostante i tempi sul cronometro non potessero che aumentare.
Nell’atletica leggera riuscirci non è un’impresa da poco: del resto lei è la donna più anziana ad aver vinto una medaglia olimpica nell’atletica leggera. Ha partecipato a sette olimpiadi, e sempre da protagonista, record assoluto nell’atletica e battuto solo da Josefa Idem nel 2012. Ai campionati del mondo Merlene Ottey ha messo via in totale quattordici medaglie, e volendo fare un conto unico con le altre manifestazioni più importanti (Mondiali indoor, Giochi del Commonwealth, Giochi Panamericani) il bottino tocca vette altissime. Innumerevoli i premi, i riconoscimenti e i primati personali, come ad esempio la striscia di imbattibilità fra il maggio 1989 e il marzo del 1991 nelle diverse specialità: 79 gare sempre prima al traguardo.
Anche gli affetti e l’amore spesso la rincorrevano, e forse solo loro potevano afferrarla e dominarla come la voglia di correre e vincere. Dopo il divorzio, datato 1984, dal primo marito Nathaniel Page, anche lui atleta e suo compagno di squadra all’Università del Nebraska, dove studiava Belle Arti, Merlene ha avuto una lunga relazione con il velocista italiano Stefano Tilli, che fu anche il suo allenatore.
Anni dopo, e con i crismi dell’ufficialità a partire dal 2002, ottenne la cittadinanza della Slovenia, dove da tempo si era stabilita col compagno e trainer Srdjan Djordjevic. Se correre equivale a vivere, per Merlene nulla poteva eguagliare l’emozione di una gara. Ci si abituò presto alla sua nuova sorprendente nazionalità; in fondo Giamaica o Slovenia erano solo le chiavi per poter essere ancora felice. E con i nuovi colori ha continuato a stupire, cogliendo un bronzo ai mondiali indoor e disseminando il percorso di altre primizie centellinate, come sfiorare una semifinale europea a 46 anni suonati. A 52 anni, nel 2012, era ancora in corsa agli Europei di Helsinki nella staffetta 4×100 come per dire a tutti: «Io non mi ritirerò mai». Peccato non poter rispondere al richiamo delle Olimpiadi londinesi per cinque posizioni.
Nei 100 metri il suo personale è 10’’74, nei 200 21’’64, tuttavia questi numeri, benché impressionanti, forse non saranno i soli a restare scolpiti nella memoria. Lo spirito indomabile e l’eleganza di Merlene Ottey sulle piste del mondo resteranno negli occhi di tutti gli appassionati di sport nonostante il suo inimitabile stile e la sua grazia, secondo accreditati addetti ai lavori, talvolta l’avrebbero addirittura danneggiata nelle gare decisive. Ma sarà anche la delizia estetica della sofferenza tutta umana a entrare nel mito; il mito di una pantera che graffia e che talvolta può restare ferita. Che non si arrende al giogo di un corpo mortale né alle critiche. E forse proprio per questo diviene ancora più bella…
Lucio Iaccarino
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