Pelé e Garrincha
Scatti mondiali
Due calciatori, due amicizie, due vite parallele. Almeno fino a un certo punto.
Sua Maestà Pelé e La Leggenda Garrincha. Pelé stella del Santos e Garrincha idolo del Botafogo. Pelé dal corpo perfetto, amato dalle élites e Garrincha lo storpio, amato dal popolo. Pelé il numero dieci, Garrincha il numero sette.
Una mostra fotografica a Roma celebra i due campioni verdeoro sino al 27 di luglio alla sede dell’Ambasciata del Brasile. A Palazzo Pamphilj, al numero 14 di Piazza Navona, là dove anticamente sorgeva lo stadio di Domiziano, ultimo imperatore della dinastia flavia, l’epica dello sport esce dai confini dell’agone per accompagnare quest’anno mondiale.
L’iniziativa, promossa in collaborazione con l’associazione Fare Cultura, raccoglie circa quaranta scatti dei due calciatori brasiliani, con particolare attenzione alle tre edizioni dei Mondiali vinti dal Brasile (Coppa Rimet, 1958-’62-’70) e all’amichevole di Milano, a San Siro, contro l’Italia nel 1963.
«Per l’Ambasciata del Brasile a Roma è un piacere ricordare, in questa mostra, i momenti cruciali delle carriere di due fenomeni del calcio che tanto hanno contribuito a conquistare simpatia e ammirazione per il calcio brasiliano come Pelé e Garrincha», ha dichiarato Antonio de Aguiar Patriota, Ambasciatore del Brasile a Roma. «Non sono pochi coloro che considerano i migliori momenti del calcio come momenti magici che si avvicinano a una vera e propria arte. È in questo spirito che abbiamo riunito, nella Galleria Portinari, alcune fotografie che ritraggono momenti indimenticabili di questo sport, tanto amato da brasiliani e italiani».
«Pelé era puro calcolo e arguzia; la sua continua ricerca dell’eccellenza calcistica lo avrebbe consegnato alla storia del calcio come il primo dei grandi atleti: O Rei. Mané Garrincha, invece, era puro estro e fantasia; con i suoi problemi fisici era la dimostrazione che il vero limite dell’uomo è la semplice normalità» – ha chiosato Antonio Lombardo, presidente dell’Associazione Fare Cultura e autore del libro Il passerotto di Magè, edito da Storie di Sport e dedicato proprio a Garrincha. «I due insieme non hanno mai perso, registrando 35 vittorie e 5 pareggi. La loro strada si divise nel 1966, in Inghilterra, dopo aver vinto l’ultima partita con la Bulgaria, in cui entrambi segnarono, in una perfetta sincronia divergente».
Sono gli eroi dell’età dell’oro del calcio brasiliano, diretti discendenti di quegli atleti che si combattevano sullo stesso terreno di dove sorge Palazzo Pamphilj.
Un’età dell’oro che parte da una sconfitta: il Maracanaço, la gara finale dei Mondiali del 1950 persi in casa contro l’Uruguay. Una Waterloo tropicale, con il sambodromo pieno di speranze dove duecentomila samberos divennero statue di cimitero. Il presidente della Fifa Jules Rimet commentò così la consegna della coppa: «tutto era previsto, tranne la vittoria dell’Uruguay».
A quel tempo Pelé ha dieci anni e Garrincha diciassette.
Nel 1958 il calcio in Brasile è ancora un’attività molto seria.
È con questa data che entriamo nel vivo della mostra Pelé e Garrincha. Con i Mondiali di Svezia.
Dal disastro nazionale del 1950 Garrincha riporta alla vita il Maracanã con le sue gambe storte e i denti mancanti, adorato dai fan del Botafogo e temuto dagli avversari. Il suo vero nome è Manoel Francisco dos Santos, detto Mané. Pelé è pseudonimo di Edson Arantes do Nascimento, porta nel nome l’omaggio a Thomas Edison, inventore dell’elettricità, e porta la luce quando scende in campo con il Santos. È al suo esordio mondiale. Lo si vede sorridente per le strade di Stoccolma, in elevazione. Garrincha è ripreso in azione. Indimenticabile la partita contro i sovietici: il suo caratteristico incedere, dovuto a una malformazione al bacino e alle gambe, distrugge la macchina sovietica e non lasciano scampo alla porta di Lev Jašin che rimane violata.
La finale è contro i padroni di casa. Il Brasile vince ed è la fine della maledizione. Garrincha in patria è festeggiato per le strade mentre Pelé è tra le élites.
«Quando sono tornado a casa a Pau Grande nel 1958 ho capito di essere famoso -, racconta in un’intervista dell’epoca in televisione -, me lo hanno detto gli amici». È un tipo di paese: partite a piedi nudi con gli amici, bevute nei bar. Tante bevute, soprattutto un’acquavite derivata dalla canna da zucchero. Tantissime donne.
Aggiunge: «Andavo a prendere il treno, fare compere, ero sempre seguito, cominciavo a essere stufo di essere un idolo».
Conosce Elsa Soares, soubrette e cantante nera. S’innamora perdutamente e la società tradizionalista brasiliana fa sentire tutta la sua disapprovazione: è sposato con figli.
C’è il Mondiale del Cile in arrivo. Siamo a maggio 1962.
Pelé e Garrincha volano assieme a ripetere l’impresa di quattro anni prima, ma Pelé si infortuna alla seconda partita, dopo aver gicato e vinto in un anno 101 partite. È una stella internazionale e in terra cilena anziché segnare reti passa il tempo afirmare autografi.
In soccorso alla Seleçao si attiva Garrincha: ha fame di vittoria, ha fame di gol.
Rispetto a quattro anni prima, è appesantito dall’alcool. Le sue ginocchia ancora più ricurve e la sua gamba sinistra è sempre più corta dell’altra. Le speranze della squadra sono riposte su uno zoppo che soffre di leggero strabismo.
E non potevano essere poste in gambe migliori.
Il Brasile procede a ondate, scandite dalle reti di Garrincha che marca la differenza in campo: due reti e un assist.
Al trentasettesimo del secondo tempo impulsivamente Garrincha spinge un avversario: è cartellino rosso. Obbligato a una doccia anticipata, esce dal campo. Il Brasile mantiene il risultato: la partita finisce 4 a 2 per i verdeoro. Garrincha rientra per la finale contro la Cecoslovacchia. E il Brasile si aggiudica per la seconda volta la statua dorata.
In campionato Garrincha consacra il Botafogo campione: segna due dei tre gol della partita finale. I brasiliani amano la sua semplicità, ma è un padre molto assente. La società lo condanna per aver abbandonato la moglie. Nonostante ciò, Garrincha va a vivere con Elza.
Pelé è il giocatore amato da tutti: dai compagni di strada, dalle élites, una vita da fiction. Un amore bianco, in un Paese che non accetta matrimoni misti. Con tanto di benedizione papale. Gioca nella Coppa Intercontinentale ed è uno dei primo grandi atleti a divenire una celebrità internazionale.
Pelé immortalato in uno scatto contro Trapattoni.
Pelé con Sandro Mazzola.
Pelé nella celebre rovesciata consegnata all’immortalità del cinema con il film Fuga per la Vittoria.
E Garrincha che perde l’istinto buono del killer in campo. Colpa del ginocchio. Colpa delle gambe deformi. Colpa di un acrimonioso divorzio. Il Botafogo lo molla. Le otto figlie fanno la parata di fronte alla stampa.
Arriva un altro Mondiale. In Inghilterra. È il 1966: sia Pelé che Garrincha volano nella terra di Albione. Contro la Bulgaria ci s’illude che la magia sia tornata: un gol Pelé, uno Garrincha. Ma Pelé si infortuna, la responsabilità passa a Garrincha che non gioca bene. Contro l’Ungheria il Brasile non appare più invincibile. Ed è il Portogallo che lo elimina.
Nel 1969 Garrincha passa al Flamengo, con la maglia numero sette. Ma è il fantasma di se stesso.
Beve, i compagni non lo aiutano. In un incidente d’auto uccide la suocere. Elza, divenuta moglie, non lo incolpa, e lo sostiene nella conseguente depressione. Pelé con il suo Santos segna il suo millesimo gol: contro il Vasco de Gama, un rigore leggendario, atteso dalle migliaia di spettatori al Maracanã e fuori. I suoi tifosi avevano contato ogni rete precedente, tutte e novecentonovantanove. Il rigore non fa che aggiungere pathos al risultato tondo.
Non è soltanto il dio dello stadio: il mondo è ai suoi piedi.
Elza firma per un contratto che possa allontanare Garrincha dal Brasile e dalla depressione: partenza per l’Italia, verso il Sistina. Ma nemmeno nel Belpaese il fuoriclasse trova la cura per l’alcolismo, né ingaggio. «Mi raserò i capelli a zero quando ti contratteranno», promette fiduciosa Elza. I due dimorano a Torvajanica. Un articolo di giornale appeso alla mostra dell’Ambasciata Brasiliana ricorda il suo allenamento con la Lazio. Un’intervista di Elza nel salotto di un giovanissimo Renzo Arbore li vede insieme. Arbore presenta un «nome famosissimo per gli appassionati di calcio: Garrincha, famosissima ala che ha lasciato il calcio da un po’ di tempo».
«No, non l’ho lasciato», interrompe Garrincha.
«E quando riprenderai?», incalza il conduttore.
«Dopo la Coppa», chiude il calciatore.
E la Coppa è sempre Rimet. Da conquistarsi in Messico. Ma stavolta c’è solo Pelé, più giovane del compagno di sette anni. L’attaccante marca una splendida rete di testa al diciannovesimo e chiude all’ottantasettesimo con un assist al capitano. È la finale, partita contro l’Italia. Il Brasile con il 4 a 1 è campione del mondo per la terza volta. La piccola statua d’oro resterà in patria.
È una vittoria importante perché distrae dalle tensioni politiche in patria. Il calcio diventa propaganda.
Elza è rasata: Garrincha è ingaggiato dal Flamengo. Non tornerà alla gloria. Ma la sua storia non è la storia di un miracolo: è piuttosto la storia di un popolo che ama il suo eroe.
Pelé porta avanti il suo impegno di stella del calcio e abbandona il Santos per andare a promuovere il gioco del calcio negli Stati Uniti. È la gioia degli sponsor: non ha colore o razza o religione. È un campione universale, e pazienza che il livello di gioco statunitense sia inferiore a quello brasiliano.
Da una parte una stella luminosa, dall’altra una cometa che si spegne: nulla può risollevare Garrincha, nemmeno la nascita di un altro figlio, stavolta dell’amatissima Elza. Si separano. Lui torna a Pau Grande a giocare con gli amici, trascinarsi nei bar. Allena qualche bambino, ingaggiato dalla Federazione, ma l’alcol ha già raggiunto i suoi organi. Muore di cirrosi nel 1983.
E tutti coloro che lo avevano dimenticato in vita, da morto lo ricordano: giungono da ogni dove, si accalcano ai bordi delle strade, occupano i ponti per vedere passare il feretro.
Pelé termina la sua carriera agonistica nel 1972. Mantiene la sua corona di re e tutti gli osanna.
Nel ricordare queste due figure, che insieme con la maglia della Nazionale restano imbattute, si riporta spesso un detto brasiliano che recita: «ancora oggi, se chiedi a un vecchio brasiliano chi è Pelé, il vecchio si toglie il cappello, in segno di ammirazione e di gratitudine. Ma se gli parli di Garrincha, il vecchio chiede scusa, abbassa gli occhi e piange».
Due icone che fino al 27 luglio 2018 si possono ammirare a Palazzo Pamphilj dalle 10 alle 17, dal lunedì al venerdì. La mostra, un’immersione nel sogno verdeoro mondiale, è organizzata dall’Ambasciata del Brasile ed è stata creata in collaborazione con l’associazione Fare Cultura e curata da Antonio Lombardo.
I Mondiali passano, le leggende restano.
Melania Sebastiani
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