Surya Bonaly
A testa in giù
«Se fare i salti mortali nelle competizioni è sbagliato, non voglio essere giusta. A testa in giù».
È sempre stata molto chiara nelle sue esternazioni Surya Bonaly. Sin da quando era piccola. Ogni suo gesto, ogni sua parola, è performativa. È un’azione di per sé. Dinamica. Potente. Sorprendente. Veloce. Spettacolare. Che mette tutto sottosopra. Come la frase che si è scelta come biografia su Twitter.
Proviene da dove non ti aspetti che provenga una pattinatrice sul ghiaccio: dalla riviera francese. Originaria dell’isola di Riunione, fu adottata a otto mesi da genitori francesi. La madre adottiva era insegnante di pattinaggio artistico. Fu per lei naturale crescere sul ghiaccio. Ma tra gli anni Ottanta e i Novanta nel mondo glam-chic delle competizioni non era usuale vedere volteggiare sulle lame atleti dalla pelle scura. E Surya Bonaly aveva la pelle più scura di tutte. Più di Tai Babilonia, statunitense mezza filippina, oscurata nella fama da una disperata battaglia contro la dipendenza da alcool e sostanze stupefacenti; più di Debi Thomas, indimenticata, eccessivamente emotiva, sfortunata Carmen nera di Calgary.
Surya: la più nera, la più forte, la più anticonformista. Ha pagato, salatissima, la sua sfida alle convenzioni. Forse complice la congiuntura temporale: quegli anni Novanta che furono la cuspide del pattinaggio artistico, in cui le cosiddette “principesse del ghiaccio” trasformarono uno sport caratterizzato da grazia e bellezza in uno sport fatto di ferite, sangue e pugnalate alle spalle. All’apice della sua carriera, cinque volte campionessa europea di pattinaggio artistico, Surya era costantemente criticata per il suo stile, così differente dagli altri. Ma era proprio quel suo stile a non farti staccare gli occhi da lei. Quell’atteggiamento da “posso fare tutto”. Non potevi staccare gli occhi da lei per paura di perdere il suo salto mortale.
Ci sono pochi salti codificati nel pattinaggio artistico. Alcuni, come l’axel, sono nati nell’Ottocento e portano il nome del proprio creatore. Esaurita la varietà di salti, nel tempo se ne è aumentata la difficoltà variando le transizioni, inserendo trottole, facendoli divenire doppi, tripli o quadrupli. Qualcuno, come il quadruplo salchow, è ancora talmente raro che nel gergo viene chiamato Quad, come se nasconderne il nome dietro al numerale potesse renderlo più semplice.
L’immortalità, nello sport, non passa necessariamente da un oro. Può bastare un guizzo. Ulrich Salchow, Axel Paulsen, ma anche, cambiando campo di gara, Dick Fosbury e Olga Korbut, si sono assicurati l’immortalità grazie a un balzo.
Non esiste ahimè alcun salto Bonaly.
Ma esiste Surya, che ancora a oltre quarant’anni compiuti, volteggia, si stacca dal ghiaccio, salta all’indietro, rimane a testa in giù, completa la rotazione del corpo, recupera le gambe dall’aria e atterra su una lama. L’appeal del suo salto mortale sul ghiaccio è stato osannato da ogni pubblico. E punito da ogni giuria.
Il salto mortale nelle competizioni ufficiali del pattinaggio artistico è illegale. È molto pericoloso da regolamento: per evitare infortuni o, peggio ancora, disgrazie, è stato stabilito che i salti dovessero essere effettuati atterrando su un piede solo. Sembrava impossibile che sulla Terra, pianeta di umani governati dalla forza di gravità, qualcuno potesse arrivare a fare il salto mortale su una gamba. Ma chissà, forse anche per Ulrich Salchow doveva essere inimmaginabile che qualcuno riuscisse a fare il suo salto doppio. Figuriamoci quadruplo. Che vi sia qualcuno che addirittura azzardi l’uno e l’altro in un programma olimpico è follia anche oggi che seguiamo nelle storie di instagram i salti di Ondřej Hotárek, protetti da un materasso sul ghiaccio.
«Avevo visto Norbert Schramm, pattinatore tedesco, campione europeo, fare il salto mortale all’indietro. A dodici anni l’amico di Norbert, mio allenatore, mi disse: “ehi tu, vieni dalla ginnastica, perché non lo fai?”. Mi parve una cosa logica. E lo feci subito, senza paura». È una Surya adulta che si racconta nel documentario di 13 minuti di ESPN, dal titolo Rebel on Ice. Il video fa parte della serie Versus prodotta da Eva Longoria, dedicata ad atleti che hanno lasciato un segno al di fuori del loro campo di gara. Madame Bonaly è la figura di lancio della serie. Non è che un piccolo squarcio del temperamento fiero e saturnino di Surya. Non è che un piccolo assaggio del suo talento. Ma è di grande impatto.
È di grande impatto vedere il video amatoriale inserito nel documentario dove Surya a dodici anni azzarda il salto mortale sul ghiaccio: bassa risoluzione, telecamera a cassetta, atmosfera da allenamento quotidiano, gli anni Ottanta nei colori dei vestiti,… una meraviglia. Sono d’impatto le lacrime di Surya ai Campionati Mondiali di Chiba del 1994: lei, ventunenne tutta di rosa vestita, non vuole salire sul podio. Serba un sorriso per Yuka Sato, la prima classificata, padrona di casa, e per la terza classificata, la tedesca Tanja Szewczenko. Rivolge uno sguardo sprezzante a tutto il tavolo della giuria. Spazza via una lacrima davanti al cerimoniere che nel metterle la medaglia d’argento l’invita a salire sul podio. Gli fa “no, no, no” con la testa, il nastro rosa dei capelli, pertinace, a ribadire con il suo movimento la negazione. La forzano ed è lì, accanto alla giapponese raggiante, con il naso arricciato. Mentre sale l’inno giapponese, si toglie la medaglia. Si leva il mormorio della folla. Qualcuno fischia. Si alza più frequente il petto di Surya, colmo di tutte le lacrime che non vuole mostrare, ma che traboccano dal costume.
Quell’argento lei non lo vuole. Non lo merita. Al diavolo l’etichetta. Al diavolo la disciplina che la vuol piegare a un ruolo di principessina col tutù. Che le fa tagliare la sua spessa coda nera. Che non ama i suoi muscoli. Il suo stile troppo ginnico. È l’acrobata, e la giuria vuole la ballerina. L’orda di giornalisti l’assale: chiedono «chi ti ha spinto a fare quel gesto?».
«Nessuno», risponde tirando su con il naso. «Non sono fortunata».
Non è un’adolescente bizzosa e delusa: è una formale protesta contro il punteggio ricevuto. Due decimi la separano dal primo posto. Due decimi al veleno. La madre dal bordo della pista sorride, ma è il sorriso di una maschera. Come una eco rimbombano le parole pronunciate da Surya Bonaly all’Olimpiade di Albertville di due anni prima, quando fu scelta dalla Francia per leggere il giuramento olimpico degli atleti: «A nome di tutti i concorrenti, prometto che prenderemo parte a questi Giochi Olimpici, rispettando e seguendo le regole che li governano, nel vero spirito della sportività, per la gloria dello sport e l’onore dei nostri atleti». Sembrava che scandisse con un megafono quelle parole così importanti: “sportività”, “rispetto per le regole”. Lei, un’outsider per natura, non poteva stare dentro ai dettami di una disciplina.
Ricorrono due termini nel raccontare la vicenda di questa pattinatrice fuori dal comune: “ingiustizia” e “vice”.
Vice: con quell’orribile prefisso ad allontanare dall’oro. Tre volte vicecampionessa mondiale, una volta vicecampionessa europea. Ingiustizia: un termine controverso, per uno sport che è fatto di persone, umane, da cui dipende la gara della vita. Che ti fanno sentire benvenuta sul terreno di gara. O indesiderata. «Io dovevo essere la migliore, così nessuno mi avrebbe potuta questionare». E quando la migliore è cosciente di essere stata tale, pretende il riconoscimento.
È proprio ai Giochi di Albertville che Surya Bonaly sceglie di mostrarsi al mondo. Vestita da Christian Lacroix, è accompagnata come sempre dall’occhio vigile della madre. Durante un riscaldamento, senza preavviso, senza predeterminazione, spicca il suo salto mortale e atterra su una lama. A dire di un arbitro, atterra un po’ troppo vicina alla delicata Midori Ito, la quale cadrà nel suo programma lungo, dando la colpa della caduta allo spavento preso in allenamento. “Esibizionista”, diranno. Ci proverà anche in gara, a essere esibizionista, improvvisando un quadruplo toe loop: non era previsto dalla coreografia, ma vuole alzare il punteggio tecnico. Ci starebbe bene: la musica è spagnoleggiante, Lacroix ha confezionato un costume da matador, perfetto per un’ostentazione di potenza. Ma non riesce a chiudere il quarto salto, perde l’equilibrio e atterra con una mezza spirale. Mentre scandiscono i punteggi, la platea fischia: i giudici non hanno gradito. Cade dal suo terzo posto e finisce quinta nella classifica finale. È il momento di un altro cambio di allenatore, sempre sotto l’occhio vigile della madre, che educa la figlia dentro e fuori dalla pista, la stimola, le svela i rudimenti del fare l’orto come pratica antistress.
Migliorare, migliorare, progredire, migliorare: nuovo allenatore, negli Stati Uniti questa volta; via la coda con gli elastici; via l’estetica di riferimento; via le lunghe pause della gara, necessarie per spiccare i salti e basta quadrupli salti. E benvenuta sperimentazione nelle musiche: dalle Spice Girls al Cancan. «L’allenatore mi diceva di fare dieci addominali, io ne facevo quindici». Ai Giochi Lillehammer è quarta. Non basta. Punta alle Olimpiadi di Nagano, ultima possibilità per scrivere il nome nel Pantheon dello sport. Per la quinta volta consecutiva è campionessa europea: vince con un dito rotto.
Nel 1996 in allenamento, mentre prova il suo salto mortale si strappa il tendine d’Achille. Nonostante l’infortunio, l’anno seguente è per la nona volta consecutiva campionessa nazionale. E strappa il pass olimpico a cui puntava.
Nagano 1998: completo color oro e Tiffany, orecchini pendenti, capelli raccolti in una stella dorata, la madre Suzanne le lancia la benedizione, Vivaldi attacca. Nell’impeto delle Quattro Stagioni, Surya cade su un triplo salto. Si ricompone, riprende la coreografia, la calma, la concentrazione e decide di cambiare quel programma così minuziosamente studiato con fatica e sacrifici per due interi anni: spicca il salto mortale. Atterrando, come da regolamento, su un pattino. Gli spettatori esplodono, dagli spalti lanciano mazzi di fiori, le mascelle cadono e gli occhi strabiliano anche davanti alle televisioni. Tutti sono increduli per ciò che hanno appena visto. Surya chiude l’esibizione con un volto trionfante. Ci si aspetta che il punteggio tecnico schizzi verso i numeri più alti, ma la giuria è di altra opinione. Viene penalizzata per il rischio corso: finisce decima. Tuttavia, il suo nome rimane scritto nel Pantheon di Olimpia. Associato a un corpo nero che danza sulle lame in paillettes senza conoscere la paura.
I giornalisti scrivono che Surya è stata trovata su una spiaggia, in Africa, su una nave. «Mi stai nascondendo qualcosa papà?». È una crisi personale scaturita dalle parole dei media. Questionano la madre.
Comincia una seconda vita fatta di professionismo con la compagnia Champions On Ice: sempre in tour tra l’Europa e l’America, muovendosi anche in Concorde per accorciare le distanze tra la Francia e le piste di pattinaggio del resto del mondo, dove le sue esibizioni sono osannate. «Per me ogni spettacolo era come una finale mondiale». E in ogni spettacolo c’era la sua firma, il salto mortale. Poi la stabilità negli Stati Uniti, dove diventa allenatrice privata per giovani promesse statunitensi. Prende anche la cittadinanza.
Oggi, a quarant’anni passati, non ha ancora abbandonato i salti sul ghiaccio. Nel 2013 l’emittente M6 lancia in Francia un programma dal titolo Ice Show: un Ballando con le Stelle sul ghiaccio. Quattro professionisti insegnano a due vip a pattinare. Surya è una dei quattro campioni. In occasione del lancio della trasmissione, il giornalista di Le Figaro Julien Mielcarek le chiese nel corso di un’intervista, se avesse intenzione di insegnare il suo celebre salto mortale. «No no, è troppo difficile e mi sono detta che non l’avrei mai insegnato ad alcuno. Per il momento è “made in Surya”. Allo stesso tempo credo di non sentirmela di prendermi la responsabilità d’insegnare una mossa che potrebbe divenire fatale». Salto mortale o no, il corpo chiede presto il conto agli atleti: nel 2014, in Brasile, mentre esegue il suo marchio di fabbrica, Surya avverte un dolore lungo la spina dorsale. Cominciano notti di dolore. A casa dorme su una lastra di legno, in albergo con una gamba sulla sedia. «Sono sempre stata abituata al dolore. E quando tante persone pagano un biglietto salato per vederti, lo spettacolo deve continuare».
Sono cisti: deve essere operata. La Francia rimane lontana. E anche la madre, dopo tanti anni. Negli Stati Uniti Surya Bonaly ha trovato un amore, una casa, la possibilità di continuare a esibirsi, un esercito di piccoli pattinatori che sognano a Cinque Cerchi: «Ci vuole pazienza ad allenare. È come crescere delle grosse zucchine, una notte non basta». Attendiamo il pieno recupero di questa campionessa, mentre segue le giovani pattinatrici nelle competizioni internazionali. C’è da scommettere che ritroverà il giusto momento per spiccare un nuovo salto. E lascerà tutti ancora a bocca aperta, anche vent’anni dopo Nagano 1998.
Melania Sebastiani
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