Koppenberg, spettacolo e tormento
Il sogno e l’incubo del peloton
“Koppen” in slang olandese è abbreviazione di “ciottoli”. La parola per intero è “kinderkoppen”, che significa “teste dei bambini”. La Koppenberg è la “montagna dei ciottoli”, letteralmente la “montagna delle teste (dei bambini)”. Si trova in Belgio nel cuore petroso delle Ardenne Fiamminghe, a Melden, un paese vicino a Oudenaarde. Qui il pedalare riempie le esistenze e non è un caso che nella cittadina di Oudenaarde vi sia un museo dedicato totalmente a una corsa ciclistica: è il Centrum Ronde van Vlaanderen, il Museo del Giro di Fiandre. Nemmeno il Tour de France, che si arrota nella sua aurea di celebrità mondiale, può vantare l’intitolazione di un museo. Il Giro delle Fiandre esiste da più di un secolo. Come il Tour de France o il nostro Giro d’Italia, nacque da un giornale sportivo, lo Sportwereld. Il suo ideatore, il giornalista, indipendentista fiammingo ed ex ciclista Karel van Wijnendaele, pseudonimo di Carolus Ludovicius Steyaert, voleva fare pubblicità al giornale. Entrò subito nel cuore, negli istinti, nel folklore, nell’intimità, nel patrimonio culturale del popolo fiammingo. Così come la birra o le visionarie invenzioni di un altro celebre e misterioso fiammingo, il pittore olandese Hieronymus Bosch, il quale non avrebbe avuto difficoltà a trasfigurare letteralmente la “montagna delle teste dei bambini” in una tela piena di bizzarrie e potenza visionaria. La Ronde è una corsa che si corre in un giorno e quel giorno tutto si ferma al passaggio del peloton: è una classica monumento (si chiama proprio così), una festa nazionale, un mondiale giocato in cinque ore. Si corre la prima domenica di aprile e inaugura il mese sacro del risveglio del ciclismo, con le classicissime del Nord. Nemmeno la seconda guerra mondiale fermò la competizione. Ci provarono i tedeschi nel periodo dell’Occupazione, ma non vi riuscirono e, anzi, parteciparono alla sua organizzazione, causando successive accuse di collaborazionismo. Fino alla seconda guerra mondiale la Ronde si teneva lo stesso giorno della Milano-Sanremo. Gli italiani e i francesi preferirono sempre il Turchino ai muri di pavé, per cui nell’albo d’oro figurano soprattutto nomi di ciclisti locali, fiamminghi e valloni. Nulla poté interrompere la continuità della gara. Nulla, sino al 2020.
E c’è voluto un nemico invisibile: il coronavirus, noto come Covid-19.
Quest’anno il Koppenberg rimane lì, solo con il suo profilo, spoglio di ciclisti.
La Montagna delle Teste non fa parte della Ronde dall’origine, ma ne è divenuto il simbolo. Qui non si vince il Giro, troppo distante dal traguardo, dai quaranta agli ottanta km; eppure questo muro è IL mito, l’orgoglio del Fiandre.
«Non è più ciclismo, è una barbarie! Finché il Koppenberg figurerà nel percorso della Ronde, non mi vedrete più!», tuona negli anni Ottanta Monsieur Bernard Hinault.
«Il Koppenberg? E’ il rimpianto di non aver scelto di starsene a casa», gli fa eco Claude Criquelion, il solo vallone ad aver conquistato, assieme a Philippe Gilbert, nel dopoguerra, la corsa.
«Mi sembrava di essere dentro una lavatrice», dichiara Vincenzo Nibali al termine della tappa, nel 2018.
La paternità dell’inserimento del Koppenberg nella Ronde non è rivendicata. Il pistard belga Walter Goodefroot giura di essercisi allenato con soddisfazione e terrore, ma di non averlo segnalato. Fu forse il ciclista belga Achiel Buysse, che vi passò in auto? Oppure Hubert Hoffman, un semplice abitante della zona, che guardando quella scia di alberi ordinati, che finiscono con la punta sempre più in alto, sognò di vedervi passare in mezzo delle biciclette?
La prima parola per descrivere il Koppenberg è quindi: bastardo.
Senza padre. Senza madre. Si staglia sull’orografia delle Fiandre, è bello, scenografico, esce dalla nebbia delle fiabe nordiche, un set privilegiato per servizi pubblicitari. Ma, come lo spiritello delle fiabe, non è ciò che sembra. Al pari di un arcangelo, però maligno. Non dovrebbe incutere timore: è alto settantasette metri sul livello del mare e lungo soltanto 682 metri, largo 2, con 11,6% di media e 22% di pendenza. Ma in gara, su due ruote, quello che va ad appesantire l’erta è la differenza tra pietra e pietra, poiché la caratteristica del Koppenberg è il ciottolato di pavé che taglia la collina. Cubetti squadrati, sconnessi, incrementano il dislivello sulla stretta carreggiata, ogni millimetro un rischio che potrebbe ribaltare il ciclista e, quindi, la gara. La ruota davanti è continuamente spinta in più direzioni e occorre continuamente aggiustare la posizione, a stretto contatto con gli altri ciclisti impegnati nella stessa battaglia. E poi c’è da tenere in considerazione la variabile del meteo belga, sempre generoso di piogge e con un bel vento sulla cima. “Kasseien” li chiamano in neerlandese quei cubetti. Un’onomatopea in consonanza con una celebre parola colloquiale italiana. In fondo, si gioca tutto lì.
Il Koppenberg è apparso nella Ronde in pieno stile fiammingo, in stile Hieronymus Bosch. Con esasperazione fisiognomica, scene caricaturali, atrocità di supplizio, miniature e proporzioni inaudite, superfici brulicanti di piccole figure, negli spalti e sul pavé, raffigurate negli atteggiamenti più diversi, nelle fogge più improbabili. I tifosi a stretto contatto con gli sportivi non si limitano a incitare, ma spingono e si spintonano. Ne esce un’allegoria sportiva epica.
È il 1976 e gareggia lui, il beniamino nazionale, Eddy Merckx, il Cannibale. Ha già vinto tutto e quel 4 aprile si trova al cospetto del Koppenberg assieme ad altri 167 corridori. Soltanto 44 taglieranno la linea dell’arrivo.
Chini, lenti, ondulanti, ondeggianti, zigzaganti, semi ubriachi, i ciclisti si allontanano dalle ultime rare case, si lasciano alle spalle gli ultimi murales a loro dedicati, aumenta l’ombra dei frassini, qua e là spuntano batuffoli di muschio tra i cubetti di porfido. Comincia la salita, si appigliano al manubrio, si attaccano alla fede, o, forse, alle bestemmie. I volti deformi, le gambe sporche. Si tamponano in grovigli dannati, strabuzzanti. Fanno blocco. Tra due metaforici muri di spettatori assiepati s’innalza il muro ciclistico. È una salita breve, stretta e ripida. Eccitante e sfibrante. Faticano anche le moto. Tutto vibra in sella: i gomiti, le mani, il cervello, anche quello che non si pensa che possa vibrare. Il potere contro la tecnica. Scivoli e sei fuori, ti tamponano e sei fuori, ti fermi e sei fuori. Appoggiano il piede, cadono o scendono da soli dalla bici. Eccolo, il grande Merckx. Vincitore della Ronde nel 1969 e 1975, casco nero, maglia Molteni Campagnole arancione con le maniche nere, lingua fuori: proprio lui, il Cannibale nato nelle Fiandre, cade. E riparte per guadagnare la cima a piedi, spingendo la bicicletta, incapace di rimontare in sella. Soltanto cinque resteranno in piedi. Altro che teste d’angelo: putti ghignanti di pietra annichilano l’orgoglio e l’ego. Citano di monito a chi li calpesta: anche i più grandi vacillano. Maledetti kasseien.
Dal 1976 il Koppenberg è passaggio obbligato della Ronde per ben dieci anni. Ovvero, fino a quando la bicicletta del ciclista danese Jesper Skibby, il quale vanta un buon vantaggio su tutto il gruppo, viene pericolosamente investita dall’auto del commissario di gara Ludo Schurgers. Skibby aveva imboccato il tratturo con metodo da alpinista, cercando di costeggiare per evitare le pietre più aguzze (le canale sono trabocchetti sul pavé, chiedere a Peter Sagan per dettagli), ed è fermato proprio mentre bordeggia da un lato all’altro. La scena è raccapricciante: la ruota posteriore viene schiacciata; Skibby incredulo, spaventato, ancorato a terra non si muove; il commissario tra i fischi continua a procedere; una persona si stacca dalla folla e va ad aiutare il danese, che chiude così intorno al 180mo km il suo Giro di Fiandre. Bici devastata.
«Ho dovuto prendere una decisione in un quarto di secondo, non volevo rallentare il gruppo che seguiva», dirà anni dopo l’autista Jaak Martens, che per quei meriti poco sportivi entrerà anche lui nella storia del ciclismo.
Troppo ripido, troppo pericoloso: al termine della gara, vinta da Criquielion, il monte è condannato: stop alle ascensioni.
Eppure nel 1985 il Koppenberg era stato la scenografia di un quadro di rimonta da appendere alle pareti della storia dello sport. Il belga Eric Vanderaerden, team Panasonic, è vittima di una foratura in un punto cruciale del Giro, a 2 km dal monte. Il tempo è un flagello: vento, pioggia torrenziale. Il fango è il colore dominante: fango sulle gambe dei ciclisti, sulle maglie, sui volti, sulle mantelline del pubblico,… Temperature siberiane. Ai piedi del muro Vanderaerden recupera e attacca la salita con una traiettoria “a esse”, come un’anguilla: uno dopo l’altro i ciclisti cadono, arrancano come vecchi cavalieri costretti in pesanti armature. Il pavé è scivoloso, il freddo pungente, la rivalità acuta come le pietre. Le intemperie condiscono l’antagonismo, magnificano l’agonismo. Lo ripetono tutti: la Ronde non si vince sul Koppenberg; però il monte fa la selezione. Mancano 70 km al traguardo. Sulla cima Eric Vanderaerden guadagna la quindicesima posizione avvicinandosi al drappello formato da Sean Kelly, Greg LeMond, Adrie van der Poel, Phil Anderson e soprattutto Hennie Kuiper, che gli ha appena soffiato la Milano-Sanremo. Kuiper attacca, Anderson favorisce il compagno di squadra Vanderaerden. Soltanto 24 partecipanti su 178 tagliano il traguardo. Eric Vanderaerden lo taglia per primo: ha 23 anni ed è una leggenda.
Per supplire alla “defenestrazione” del monte dalla Ronde, nasce il Koppenbergcross, noto anche come Grote Prijs Willy Naessens, una corsa in linea maschile e femminile che inaugura la stagione invernale del fango, a novembre. Nel 2006 l’organizzazione ha registrato la presenza di 15mila spettatori, tutti ad applaudire il ciclocrossista belga Sven Nys, che primeggerà nella competizione per ben nove edizioni. Anche qui, “Horum omnium fortissimi sunt Belgae”, riscriverebbe Giulio Cesare.
Il ritorno del Koppenberg nel Giro delle Fiandre data del 2002, con una splendida giornata di sole: «Non avrebbe mai dovuto essere eliminato dal circuito. Sarebbe come togliere il pavé alla Parigi-Roubaix», commenta Roger De Vlaeminck, ciclista belga laureatosi campione della Ronde nel 1977. E ancora una volta è quel passaggio a fare la selezione. Il belga Erwin Thijs guida per 200 km la gara, ne mancano 55 passato il monte: si staccano otto corridori; tirano in cinque, Johan Museeuw, George Hincapie, Peter Van Petegem, Andrea Tafi e Daniele Nardello; mancano 4km, Tafi attacca e lancia in fuga i corridori. È italiano il primo ciclista a domare il Koppenberg di nuova generazione.
Anno domini 2006, giornata di pioggia. Tom Boonen, ciclista belga, campione del mondo, guida l’attacco sul Koppenberg a 75 km dall’arrivo. Accelerano anche Paolo Bettini, George Hincapie, Andreas Klier, Roberto Petito, Peter Van Petegem e Fabian Cancellara. C’è un gruppo in fuga davanti, lo vogliono raggiungere. Il pavé è secco. La corsa è già decisa qui, perché gli altri corridori non riusciranno a raggiungere a tempo i fuggitivi. Rimangono quasi tutti a piedi. La Quick Step dimostra che non era il tempo di economizzare le energie.
«Il terreno è accidentato, i cubi del pavé troppo distanti, in cattivo stato. In caso di pioggia forte sarebbe una catastrofe», dichiara a termine corsa l’organizzatore della gara, Wim Van Herreweghe. Nuovo arresto per il tratturo nel circuito.
Con nuovo afflato per un rinnovamento della strada: divieto di transito ai mezzi pesanti, pulizia profonda per non far incastrare il fango nelle fughe, appianamento delle pietre. Lo spettacolo prosegue: dal 2008 il Koppeberg rientra nel percorso di gara.
Gli spettatori in questo tratto hanno quindi potuto vedere Cancellara caricarsi la bici in spalla e ritirarsi per una banale rottura della catena nel 2009; nel 2011 hanno assistito al lancio al galoppo di Sylvain Chavanel, il quale non ha mai nascosto che fosse la sua corsa preferita “per l’odore di patatine fritte, di birra, per il pubblico scatenato” (ma arriverà secondo, senza trionfo); alla rimonta dell’olandese Mathieu van der Poel nel 2019, il quale caduto prima del monte perde il gruppo e in salita scala uno a uno i corridori, esaurendo però le energie (sarà Alberto Bettiol a scattare); e al folle slancio del vallone belga Philippe Gilbert nel 2017, che parte quando ancora mancano 56km, quando ancora mancano sette muri, quando manca il Koppenberg che è 10km dopo, invece lo supera con slancio, scollina infiammato da una fuga solitaria che gli farà posare la bicicletta soltanto a un metro dall’arrivo, per tagliare la linea a piedi, innalzando la bici come un trofeo, riportando i colori di casa sul podio più alto.
Nel 2016 in una puntata dedicata al Koppenberg andata in onda su Global Cycling Network, autorevole canale inglese gestito da Daniel Lloyd, Tom Last, Simon Richardson e Jon Cannings, gli autori si sono divertiti a raccontare in sella il mefitico tratturo. Giunti sulla sommità e recuperato un po’ di fiato, i conduttori si chiedono chi sia stato su quei quadratini il ciclista più veloce. Con 1 minuto e 59 secondi è – e non poteva che essere altrimenti -, un belga, specialista delle classiche del pavé: Dries Devenys. Il record è siglato nel 2015. Per quanto riguarda invece le donne, l’ascensione più veloce è –e non poteva essere altrimenti -, quella dell’italiana Elisa Longo Borghini, figlia d’arte, amante del pavé nonché vincitrice del Giro delle Fiandre nel 2015, prima italiana a scrivere il proprio nome nell’albo d’oro della Ronde, dopo una bella fuga in solitaria.
Stando a Global Cycling Network, il record, ancora valido, è stato segnato nel 2012, quando la Longo Borghini aveva 22 anni.
«È un record fatto in allenamento, perché in gara non ci sono mai passata», specifica la campionessa a Storie di Sport. Il passaggio del Koppenberg è sempre stato escluso dai circuiti femminili della Ronde. «Ma i numeri sono corretti sicuramente, perché GCN è molto attendibile», chiosa l’atleta della Trek Segafredo dalla quarantena della sua casa di Ossola, dove continua ad allenarsi.
Se la Longo Borghini si chiude in casa a pedalare – con il trofeo delle Strade Bianche in vista quale augurio per inaugurare questa stagione di rinvii -, il marchio di squadra, il Maglificio Santini di Lallio, Bergamo, parte in volata contro il coronavirus: l’azienda è stata riconvertita per realizzare non tute e maglie tecniche ma mascherine per la protezione individuale.
Chiediamo alla Longo Borghini se abbia nostalgia del pavé.
«Nostalgia del pavé, sì ma non troppo. Ho più nostalgia di un’Italia senza così tanti malati. Per il pavé c’è tempo».
Allineiamoci. Mettiamoci a ruota. Torneremo a scorrere.
Melania Sebastiani
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