Gigi Meroni – 1
Il volo spezzato della Farfalla granata
Alle 21.30 di domenica 15 ottobre 1967 terminò di colpo il volo della Farfalla. In Corso Re Umberto, a Torino, una Fiat 124 coupé blu, guidata da un diciannovenne fresco di patente, all’improvviso si trovò davanti un’ombra che non riuscì ad evitare. Quel ragazzo catapultato senza preavviso in una situazione tanto più grande di lui si chiamava Attilio Tilli Romero e molti anni dopo (per combinazione o per destino, chissà…) sarebbe diventato presidente del Torino Calcio.
L’ombra che l’auto aveva appena investito aveva invece un nome già famoso che Attilio conosceva bene e che apparteneva all’idolo delle sue domeniche. Il giovane riverso sull’asfalto in una posa innaturale, con le gambe incrociate e gli occhi spalancati nella luce incerta dei lampioni, era infatti uno dei calciatori più estrosi, geniali e imprevedibili della storia del calcio italiano, un fuoriclasse che aveva appena iniziato ad esprimere le sue immense potenzialità. Era Luigi Meroni, la Farfalla Granata.
Gigi era nato a Como il 24 febbraio 1943 e la sua infanzia non era certo stata tra le più facili. Il padre era morto quando lui aveva poco più di due anni e la madre, Rosa, aveva avuto il suo daffare a crescere i tre figli: oltre a Luigino, c’erano Celestino, il maggiore, e Maria, la più piccola. Rosa lavorava a domicilio per un’industria tessile e ben presto i ragazzi impararono ad aiutarla. L’Italia di quegli anni stava faticosamente emergendo dalla catastrofe della guerra e il relativo benessere degli anni Sessanta era ancora lontano.
Un talento precoce
Unico svago – per Gigi come per i suoi coetanei – era il pallone. San Bartolomeo, il quartiere dei Meroni, aveva conservato i ritmi umani e rassicuranti del paese. Molti ricordano tuttora il ragazzino esile e scalzo esibirsi in improvvisi guizzi con la palla al piede nel campetto dell’oratorio (sessanta metri quadri di cortile), vanamente inseguito dai più robusti avversari di gioco. Di solito le partitelle della Libertas terminavano con la madre che piombava urlando a riprendersi Luigino, ma nonostante lo scarso entusiasmo materno fu presto chiaro che il calcio era il suo destino. Nel 1959 l’Inter – di cui Meroni era tifoso – lo chiamò per un provino. Il risultato fu positivo, ma tre allenamenti settimanali a Milano erano impossibili e il ragazzino continuò il suo lavoro di apprendista disegnatore tessile, rinunciando alla maglia nerazzurra.
Entrato nelle giovanili del Como, Gigi vi disputò due stagioni eccellenti, giungendo alla prima squadra, seppure in un campionato minore. Nel 1962, il gran balzo verso il Genoa e la Serie A. La tifoseria rossoblu adottò subito quel mingherlino che sapeva esaltare con i suoi numeri un intero stadio. Il primo gol era infatti arrivato molto presto, il 10 settembre in Coppa Italia contro l’Udinese, anche se poi i supporter genoani avevano dovuto attendere la prima rete in campionato sino alla gara con il Lanerossi Vicenza, il 5 maggio 1963.
Quasi per un fatale contrappasso, pochi giorni dopo si registrò l’unico momento ambiguo della carriera del calciatore che, al termine dell’ultima gara della stagione, rifiutò con un pretesto di sottoporsi all’antidoping. Allo stesso controllo tre suoi compagni furono trovati positivi alle amfetamine e Meroni fu squalificato per le prime cinque giornate del campionato 1963-64.
Nulla però poteva più arrestare la nascita del mito. I tifosi ormai adoravano Gigi per le sue finte, per i suoi dribbling inarrestabili, per la sua capacità di reagire senza cedimenti alle botte degli avversari. E lo adoravano anche per i suoi atteggiamenti inusuali fuori dal campo. Nella città ligure, la personalità estroversa e un po’ anarcoide di Meroni aveva infatti trovato un ambiente ideale. Erano gli anni in cui stava nascendo la nuova cultura giovanile, erano i tempi di Luigi Tenco, di Fabrizio De André, di Gino Paoli. Le spinte libertarie che sarebbero sfociate nel Sessantotto, iniziavano a produrre i primi effetti e Gigi vi aderì con entusiasmo. I suoi capelli iniziarono ad allungarsi e i suoi vestiti ad uscire dagli schemi classici. Soprattutto, però, ci fu l’incontro con la donna della sua vita. Non fu un incontro banale.
Cristiana Uderstadt Arnone, diciassette anni, ricaricava i fucili nel tiro a segno del Luna Park alla Foce di Genova. Bionda e bellissima, era nata in Polonia da madre tedesca e padre napoletano. Purtroppo la sua famiglia non vedeva di buon occhio il giovane calciatore e le conseguenze che ne derivarono influenzarono non poco le vicende future. Nel 1964 Gigi dovette assistere impotente al matrimonio, imposto dalla madre alla Bella del Luna Park, con il regista Luigi Petrini. La cosa però non finì lì perché la caparbia Cristiana, d’accordo con Meroni, si rivolse alla Sacra Rota per l’annullamento.
Nel frattempo la piccola ala destra si era imposta a livello nazionale. Due meravigliosi gol in Genoa-Fiorentina del 27 ottobre gli avevano aperto le porte della Nazionale, sia pure di quella B. Edmondo Fabbri, allora CT, non si era però rivelato un suo grande estimatore. Schierato sulla fascia sinistra, a lui non congeniale, Gigi non aveva reso al massimo, ma il suo valore di mercato era continuato a salire grazie alle ottime prestazioni nel Genoa.
Speranza granata
Così, nonostante l’opposizione della tifoseria del Grifone, nell’estate 1964 Orfeo Pianelli, presidente del Torino, acquistò il suo cartellino per la cifra record di trecento milioni di lire. Pianelli raccontò poi di essere stato così deciso all’acquisto da chiudere le trattative in dieci minuti. Una bella attestazione di stima che Meroni ricambiò con una frase che fece subito breccia nel cuore dei supporter granata: “Fortuna che sono finito sulla sponda giusta di Torino”.
La nuova vita nella città della Mole accelerò l’evoluzione nel carattere di Gigi. L’era-Beatles era ormai in pieno corso e gli atteggiamenti esteriori del giovanotto andarono sempre più avvicinandosi a quelli dei Quattro di Liverpool. Meroni iniziò a disegnarsi gli abiti, affidandosi a un sarto per l’esecuzione. Rifiutata la sistemazione nel tranquillo e borghese appartamento messogli a disposizione dalla società, prese in affitto una mansarda in pieno centro, con vista su uno dei luoghi più suggestivi di Torino, Piazza Vittorio.
Arredò il locale con un estro particolare, coprendo i muri di manifesti e quadri. Tra l’altro, aveva cominciato a dipingere con ottimi risultati. Gli piaceva iniziare le tele dopo la partita, la domenica sera, e portarle avanti di notte, rinunciando a molte ore di sonno. Nel 2005 una mostra ha finalmente reso giustizia all’opera di Meroni, ma già in vita il calciatore aveva ricevuto l’apprezzamento di maestri come Corrado Cagli e Renato Guttuso.
La sua vita sentimentale prese in quei mesi un binario poco gradito all’Italia bigotta dei primi Sessanta. Cristiana, appena rotto il breve e indesiderato matrimonio, si sistemò infatti nella mansarda vicina, con grande scandalo dei benpensanti e di tutta una stampa conformista che cominciò a prendere di mira il giovane calciatore (continua – link alla Seconda Parte sottostante).
Danilo Francescano
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Nestor Combin, grande amico di Meroni, insistette per giocare nonostante la febbre che lo aveva colpito pochi giorni prima. In memoria dell’amico, lottando con furia, al terzo minuto segnò un gol, e raddoppiò al settimo, per poi firmare una tripletta al 15° della ripresa. Il quarto gol fu segnato dal successore di Meroni, il nuovo numero 7, Alberto Carelli . Dal “Dopo Superga” è il miglior risultato ottenuto ad oggi in un derby, e ha metaforicamente vendicato i sette derby senza vittorie giocati da Meroni.