Bruno Arcari
“C’era una volta la boxe…”
Il gong. Ci sono mille modi diversi con cui un pugile può accogliere l’ultimo gong di un incontro. Rabbia, gioia, disperazione, ansia, sollievo, frustrazione. Per Bruno Arcari, la sera del 31 gennaio 1970 il suono della quindicesima campanella significò attesa. Attesa del verdetto, attesa di un trionfo che poteva arrivare, attesa di entrare nella storia dello sport. Quindici riprese durissime contro un filippino di ventisette anni, Pedro Adigue. Tipino niente male, Pedro: lo chiamavano the rugged, il ruvido. Un lottatore piuttosto scorretto, che aveva la sua arma migliore nel destro, cosa non piacevole per un mancino come il genovese. Sul piano tecnico, pugile di certo inferiore al nostro, ma in grado di portare per l’intero match una pressione continua. Quella sera, in ogni caso, aveva mantenuto fede alle attese, il filippino, e aveva impegnato allo spasimo Arcari.
E allora, cominciamo da qui, Bruno. Cominciamo da Pedro Adigue. «Adigue… Bel pugile, quello. Un inizio davvero difficile: nella terza ripresa, ho piegato le gambe». A causa, va detto, di un gancio destro terribile piombatogli sulla mascella. Probabilmente il pugno più duro mai subito dal pugile genovese. «L’arbitro comunque non mi ha contato, niente knock-down. Poi ho abbracciato, l’ho tenuto. Sì, era veramente forte, Adigue. Un welter leggero come me, però io pesavo un po’ poco, lui invece aveva combattuto nei welters e nei superwelters. E poi era un filippino. I filippini in generale sono pugili molto cattivi, cattivi inteso in senso sportivo, di veri combattenti, naturalmente. Io con Pedro ho fatto un match così tirato, che alla dodicesima ripresa vado all’angolo e faccio al mio manager, Rocco Agostino: Come è la faccenda, Rocco? Come ti sembra? Lui mi risponde: Guarda, Bruno, sei lì. Un po’ vinci, un po’ sei lì. Ma come sei lì…, penso io, e decido di finirla. Così, mi ricordo le ultime tre riprese: lui ha chiuso in piedi proprio perché voleva finire in piedi. Però me ne ha dato, di filo da torcere!».
Tre riprese memorabili, dalla tredicesima all’ultima. Arcari attaccò e tenne l’iniziativa, ma Adigue gli era sempre addosso, poi alla quindicesima ripresa il filippino barcollò sotto un preciso gancio sinistro. Entrambi i pugili terminarono stanchissimi. Ora, non rimaneva che l’attesa. Attendeva Bruno, attendeva il pubblico romano al Palazzetto dello Sport, attendevano i milioni di italiani attaccati ai televisori. E l’attesa finalmente finì: l’arbitro inglese Teddy Waltham, ex pugile, alzò il braccio dell’italiano. Verdetto unanime: Bruno Arcari, nato ad Atina in Ciociaria l’1 gennaio 1942 e cresciuto in Liguria, era Campione del Mondo dei Welter Jr.
Fu forse il momento più esaltante di una carriera iniziata alla palestra Mameli Pejo di Genova, nel 1957: «Avevo quattordici anni e giocavo al pallone sull’ala sinistra, ma bisticciavo sempre con tutti» sorride Bruno, una persona schiva e modesta, di quelle che dopo pochi minuti ti sembra di conoscere da una vita. «Potresti fare del pugilato, mi han detto. Mi sono incuriosito e così sono entrato nella palestra con un altro, che poi se n’è andato via. Io invece sono rimasto. Facevano tutti a pugni, ho chiesto se potevo farlo anch’io e ho cominciato ad allenarmi. In palestra c’erano parecchi ragazzi che erano bravi, e un bel giorno ho detto al maestro: Io questi qui li picchio tutti. Non li ho battuti subito, naturalmente. Ho preso anche delle botte, perché nel pugilato non puoi mai sapere quello che può succedere, ma ho cominciato a combattere, poi da novizio sono passato a dilettante…».
Alle Olimpiadi Arcari non ha avuto molta fortuna: «Sono stato a Tōkiō già nel 1963, un anno prima dell’Olimpiade. Ho battuto due giapponesi e un coreano, i miei avversari più accreditati, e ho vinto il torneo preolimpico. Così sono arrivato ai Giochi come quello che doveva vincere, il favorito per l’oro. Purtroppo, una testata del keniano Alex Oundo mi ha messo fuori subito. Da dilettante non puoi fare affidamento su nulla: una ferita e ti fermano immediatamente. Da professionisti è diverso». Infatti, nei professionisti, Bruno rimane tutta la carriera praticamente imbattuto. Tranne… «Tranne il primo incontro, che ho perso per ferita. E il nono, sempre per lo stesso motivo. Poi sono arrivato a settantatré combattimenti senza più perdere. Il titolo l’ho lasciato volontariamente, nel settembre 1974, e ho fatto ancora qualche incontro tra i welter prima di ritirarmi».
“Il punto debole”
L’unico punto debole di Arcari erano le arcate sopraccigliari, fragili e facili a rompersi. Gli avversari lo sapevano, e cercavano di approfittarne in ogni match. Non sempre correttamente. Le arcate del campione portano i segni di cento battaglie. Ricordano i gradi di una divisa. Gradi conquistati sul ring, sfide al dolore e a sé stesso che Bruno ha superato a denti stretti, asciugando all’angolo il sangue che gli bruciava negli occhi per tornare al centro del quadrato con una volontà sconfinata.
«Il combattimento della svolta, quello che mi ha fatto diventare un pugile famoso, è stato quello con Hans Orsolics” riprende Arcari. «Quando l’ho affrontato per il Campionato d’Europa era imbattuto in venticinque combattimenti. Ho vinto a casa sua a Vienna, per ko alla dodicesima ripresa. Poi lui è passato alla categoria superiore e ha smesso. Pensare che voleva persino che continuassi a combattere in Austria, ma io non volevo lasciare l’Italia e ho detto di no».
Insuperabile nel portare colpi al corpo, nel demolire l’avversario, come boxava tatticamente, il fuoriclasse Arcari? «Partivo sempre con quattro-cinque riprese di studio, cercavo di capire come combatteva l’avversario, se era più forte di destro, di sinistro, di gancio, di diretto… Ero un guardia destra e dovevo stare attento al destro, micidiale per un mancino. Poi però avevo per fortuna una velocità di gambe, di spostamenti che mi faceva sempre fare bene».
“Il combattimento più bello”
Se deve ricordare un avversario, ricorda un brasiliano, Henrique: «Il mio combattimento più bello l’ho fatto con lui. Era veramente bravo a picchiare, a boxare: la prima volta sarebbe stato più giusto un pari, ma eravamo in Italia e mi hanno dato vincente. Poi non sono andato in Brasile per la rivincita e lui è tornato qui. Era sicuro di battermi, diceva che ormai mi conosceva e non avrebbe avuto problemi. Me la sono un po’ legata al dito, e mi sono allenato al massimo. Ricordo benissimo di aver fatto due prime riprese che il mio manager ha dovuto cercare di calmarmi. Invece ho continuato, ero troppo carico, quella sera. Ho vinto alla dodicesima. Tra l’altro non lo sapevo, ma gli ho rotto una mascella, a Joao: l’ho incontrato il giorno dopo, con la faccia avvolta in una bendatura. Mi è dispiaciuto molto, perché il pugilato è bello quando è fatto bene, e io non ero certo di quelli che se ne fregavano dell’avversario. Comunque non l’ho messo a terra, Henrique, ha finito in piedi. L’ho preso con un colpo sotto, allo stomaco, è andato giù, è riuscito a rialzarsi, ma ha fatto segno con la testa di non voler proseguire».
E magari ora siete anche amici, gli dico. Bruno si rabbuia di colpo, la voce si fa meno vivace. «Sono rimasto amico con tutti. Con lui non ho potuto, perché è morto. Da eroe. Quando sono capitato a San Paolo, nel marzo del 1982, era successo da pochissimo. Mi hanno raccontato che viaggiava su una corriera, che ad un certo punto si è rovesciata: Joao ha aiutato tutti gli altri a mettersi in salvo, ma aveva delle lesioni interne che lo hanno ucciso. Al cimitero ho fatto ancora in tempo a vedere la sua salma. Grande Henrique, è stato quello che mi ha fatto davvero crescere come pugile».
E Muhammad Ali? C’è una bella foto che vi ritrae assieme, all’epoca del match con Domingo Barrera, nel settembre del 1971… «Sì, ma sono dovuto salire su una sedia!» sorride Arcari, rasserenandosi per un solo attimo. Poi riprende assorto: «Ali è uno dei pugili che più hanno fatto del bene al pugilato. Ora sta male, male, male. Siamo coetanei, ha quindici giorni meno di me, ed è ridotto… Alle volte ci penso: nella vita sono stato fortunato, perché ho incontrato tanti avversari, ma non mi è mai successo niente di male. Anche se ora dovrei davvero mettermi a dieta, e dovrei riprendere le mie camminate sino al Bracco!». Qualche chilo di troppo che comunque non nasconde la struttura di Bruno: sotto la giacchetta blu e la maglietta azzurra non si fatica ad intuire il boxeur di un tempo.
Conclude con una riflessione amara: «Mi spiace dirlo, ma il pugilato oggi non va bene. Il professionismo non c’è più. Gente come Clemente Russo e Roberto Cammarelle combattono come dilettanti, e fanno bene, guadagnano di più. Non si organizzano riunioni, neanche all’estero, e allora cosa diventano professionisti a fare? Poi a parte loro non c’è quasi nessun altro, e poco anche a livello internazionale. Penso che il pugilato verrà sempre più messo da parte. Non lo so proprio cosa potrà fare la Federazione: io per problemi di lavoro ho dovuto uscirne anni fa. Ora vivo qui a Deiva, e solo ogni tanto faccio un salto nella palestra di un amico. Ci trovo ragazzi anche bravi, ma in queste condizioni…».
Danilo Francescano
© Riproduzione Riservata
(intervista raccolta nell’ottobre 2012)
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