Ercole Baldini
“La volta che io e Coppi…”
Ci sono campioni che si identificano immediatamente con un’epoca. Jesse Owens con il mondo che si avviava alla guerra. Rocky Marciano con gli anni Cinquanta. Per noi italiani, Ercole Baldini si identifica con il periodo a cavallo tra due decenni in cui il Paese si stava avviando al boom economico. Grande corridore professionista, Ercole: Giro, Campionato del Mondo, vittorie a ripetizione. Quello che non tutti sanno è che Baldini si era dimostrato un fuoriclasse già da dilettante.
«Ero un discreto dilettante su strada, e la pista non la praticavo ancora. Però andavo bene in pianura e un giorno a metà del 1956 il mio CT, Giovanni Proietti, mi propose di provare. I miei tempi sui 4 km, la distanza su cui correva allora l’inseguimento dilettanti, risultarono buoni, e così mi fecero partecipare ai Campionati Italiani al Vigorelli. Li vinsi, battendo un grande come Leandro Faggin. Mi selezionarono immediatamente per i Mondiali, che si sarebbero corsi a Copenaghen non molti giorni dopo e anche lì in finale mi trovai di fronte Faggin. Riuscii a batterlo di nuovo, e qualcuno cominciò a pensare che potessi pedalare veloce anche più a lungo. Insomma si cominciò a pensare al record dell’ora. Si arrivò ad organizzare un tentativo, e questo mi permise di conquistare uno dei traguardi più grandi della mia vita».
Un’impresa storica
Sì, perché Ercole il record lo tolse ad un mostro sacro del ciclismo, che lo aveva conquistato appena due mesi prima, a sua volta spodestando Fausto Coppi. Lo tolse niente meno che a Jacques Anquetil: 46,393 km indimenticabili, un’impresa storica.
«La stagione stava finendo. Si era già al 19 settembre, ma a fine anno c’era l’Olimpiade in Australia. Fui selezionato per la corsa su strada: conquistai l’oro, anche grazie ai compagni di squadra…». La fa sembrar facile, Ercole, ma venerdì 12 novembre 1956, il sole implacabile dell’estate australe rendeva liquido l’asfalto dei 187 km del percorso. Baldini scattò su una salitella al decimo e penultimo giro, lasciando sul posto gli avversari. Un’accelerata perentoria, che non ammise replica alcuna. Al traguardo, l’azzurro arrivò con 1’ 59” sul secondo, il francese Arnaud Geyre, vincitore di una volata a quattro.
«Quando noi corridori eravamo già saliti sul podio, e la nostra bandiera sventolava sul pennone più alto, ce ne stavamo tutti in attesa che suonasse l’Inno di Mameli. Passarono parecchi secondi, ma l’inno non partiva, non partiva… Allora un italiano tra i presenti cominciò a cantare Fratelli d’Italia, poi si aggiunsero tutti gli altri, e anch’io cominciai a cantare dal podio. Insomma, finì in gloria, con quest’inno che ufficialmente non c’era e che ci facemmo da noi, diciamo così, in casa. Furono attimi emozionanti, piangevano tutti e naturalmente mi commossi anch’io. Il canto finì quasi soffocato nei pianti: un episodio toccante, che rese la vittoria ancora più bella. Tra l’altro non si è mai saputo perché non si trovasse l’inno. Forse avevano perso il disco, o si era rotto, chissà». Una storia che sa di antico. Una storia di Melbourne, 1956. Gli emigranti, uomini lontani migliaia di chilometri dal proprio paese e dalla propria gente, ma che proprio per questo dell’Italia volevano ancora catturare l’anima. Vederne la bandiera salire e poterne cantare l’inno regalò loro una rivincita che valeva tutta una vita: Baldini questo lo sa oggi come allora, e ne conserva intatta la fierezza.
«L’anno dopo, nel gennaio 1957, passai professionista, senza vincere molto. Comunque, fu una stagione promettente, quella: terzo al Giro, campione italiano su strada in cinque prove, un totale di dieci vittorie. Tra tutte, il Trofeo Baracchi, in coppia con Fausto Coppi. Fu un Baracchi anomalo, e io e Coppi non partivamo da favoriti. Io stavo bene, ma lui era già anziano, e non si sapeva se avrebbe retto sino in fondo. Infatti a 20 chilometri dall’arrivo, quando eravamo in testa, Fausto andò un po’ in crisi, e mi fece segno di rallentare per aspettarlo. Ai 18 km eravamo già dietro di 10”, e andando avanti così saremmo arrivati con due, tre minuti di distacco. Proprio in quel momento, bucai una gomma. Normalmente, quando si buca, si finisce per perdere la corsa: a noi successe il contrario. Infatti, mentre io cambiavo la gomma, Coppi proseguì, anche piuttosto forte, perché non solo nel frattempo aveva mangiato e bevuto, ma i tifosi gli lasciavano libera la strada. Dietro di lui il pubblico si richiudeva, imprecando contro Baldini, che faceva perdere la corsa al Campionissimo con il suo ritardo: sì, perché il tempo veniva preso sul secondo ed erano convinti che mi avesse staccato.
L’ultimo trionfo di Coppi
Impiegai un tempo enorme a riprenderlo, e pensai addirittura che Fausto lo avesse fatto apposta per far vedere alla gente che lui mi aveva staccato, e che la colpa della sconfitta era solo mia. La rabbia mi fece correre ancora più forte. Passai in testa a tirare con tutta la mia volontà e feci un finale veramente ottimo. Lui che si era ormai ripreso riuscì a tenere la mia ruota, e così recuperammo lo svantaggio e andammo a vincere, sia pure per pochi secondi». Fu l’ultimo grande trionfo del Campionissimo. Baldini quella vittoria ebbe il privilegio di conquistarla piuttosto che di condividerla.
«Il Giro del 1958 fu senza storia. Ero l’uomo da battere, e già il secondo giorno vinsi la cronometro del Lago di Varese, conquistando la maglia rosa. Sapevo bene che era impensabile conservare sino alla fine il primato, così il giorno dopo fui lieto di cedere la maglia rosa al mio compagno di squadra Arnaldo Pambianco. Mi comportai bene tutto il giro, coi primi in salita e il più forte in pianura. Vinsi l’arrivo in salita a Bosco Chiesanuova, riprendendomi la maglia, e poi il tappone dolomitico. Insomma dimostrai che non avevo paura né di Charly Gaul né di Federico Bahamontes. Sì, fu davvero un Giro senza storia».
Il 1958, un anno magico per il Treno di Forlì… «Ero considerato giovane: tutti si permettevano di darmi dei consigli, e per qualche settimana sembrò che si andasse al Tour. Poi non se ne fece niente e così regolai la stagione in modo da presentarmi alla fine di agosto al Mondiale di Reims in forma come al Giro e convinto di andar forte. Però mentre al Giro se uno va forte riesce un giorno o l’altro ad emergere, in un Campionato del Mondo c’è sempre il rischio che si perda e non ci sia niente da fare. Quel giorno ebbi l’occasione di andare in fuga sin dall’inizio con Louison Bobet, Gastone Nencini e Gerrit Voorting. Sembrava una pazzia, una fuga così lunga, e tutti nel gruppo dietro pensavano che da un momento all’altro saremmo scoppiati. E invece, quando mancavano due giri al termine lasciai tutti. Una cosa che nessuno ha mai considerato è che da solo corsi il giro più veloce, a dimostrazione che vinsi non per fortuna o perché dietro andassero piano, ma perché correvo forte io. Nella fuga avevo tirato forse più io che tutti gli altri messi assieme, poi ebbi ancora la forza di scattare e fare il giro migliore. Voleva dire che avevo della birra, e uno che ha birra merita anche di vincere».
Gli anni seguenti furono meno felici del trionfale 1958… «Sì. Nel 1959 ebbi un attacco di appendicite, ma non fu solo quello. Fui frenato da tutta una serie di piccoli contrattempi e incidenti. C’era sempre qualcosa che non andava, un raffreddore, una caduta. Vincevo sempre meno e piano piano persi la convinzione, maturò la voglia di smettere. Cercai di reagire, ma senza riuscirci. Così nel 1964 decisi di abbandonare e fare un altro mestiere, anche se avevo solo trent’anni ed avrei potuto continuare».
Il doping
Inevitabilmente la chiacchierata con Baldini si conclude con un argomento doloroso, il doping. Il campione di Forlì ci tiene a difendere la memoria di Tom Simpson, il ciclista inglese morto durante il Tour del 1967, mentre, sotto un sole terribile, stava completando l’ascesa del Mont Ventoux: «Posso garantire, e lo metterei per iscritto, che Simpson morì per un colpo di sole e non per aver ingerito prodotti dopanti. Questo sono disposto a sottoscriverlo. Proprio la settimana scorsa sono stato a Parigi ad un incontro di vecchi corridori. C’era anche la moglie di Simpson, e anche lei conferma questa cosa che ho detto. Comunque, a parte Tommy, non si usava doping alla mia epoca. Al massimo si usava qualche cosa per stare svegli, qualcosa che usavano anche gli studenti…».
E oggi? «Oggi c’è una situazione molto balorda. Come vecchio corridore sono indignato per quello che hanno fatto i grandi dirigenti per l’antidoping, perché il 99% dei controlli per anni li hanno fatti sul ciclismo, trascurando altri sport importanti e in cui il doping usava ancora di più. Un ciclista che prendeva una pastiglia era dopato e squalificato, se la prendeva un atleta di altri sport poteva farlo perché tanto nessuno se ne accorgeva. Questo in passato. Ora hanno cominciato a fare controlli anche sugli altri sport, ma in confronto a quelli sul ciclismo sono all’acqua di rose. Con il caso di Lance Armstrong poi è saltata fuori una cosa di cui nessuno parla, ma che è molto, molto grave.
Hanno parlato tutti di Armstrong, come se gli avessero dato l’ergastolo, e nessuno ha parlato di persone, e sono tante, molto più colpevoli di lui. In questi anni Armstrong ha subito 800 controlli, da laboratori italiani, francesi, inglesi, tedeschi, svizzeri, e non hanno mai scoperto nessuna positività. Adesso scoprono che è positivo e che ha fatto quello che ha fatto, e non c’è nessuno che dica che gli analisti di questi laboratori devono dare le dimissioni. Secondo me andrebbero addirittura denunciati, meriterebbero le vie penali. E oltre a loro, metterei tra i colpevoli anche i dirigenti della Federazione Ciclistica Internazionale, dove sono stato anch’io e da cui sono uscito quando ho capito che c’erano cose che non andavano bene. Sono d’accordo sui controlli, anche se stanno forse esagerando, ma siccome il controllo lo fanno tutte le sere, specie nelle corse a tappe, all’indomani devono sapere chi sono i dopati. Non li facciano nemmeno partire, invece di lasciarli in corsa per tutto il Giro, per un anno, due anni, sette anni e poi dopo sette anni portargli via le vittorie. Queste sono le cose che io condannerei molto, molto severamente».
Danilo Francescano
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