Italia-Corea 1966
L’onta del calcio italiano
Fu un Mondiale di incroci di destino quello del 1966 in Inghilterra, in casa degli inventori del calcio moderno e dei Beatles che spopolavano. Quegli anni Sessanta erano un germogliare continuo di novità, di ribellioni, di evoluzioni, dall’imposizione della cultura beat alle manifestazioni anti Vietnam. Segnavano anche la voglia di mondo dei Maestri inglesi del calcio che, dopo anni d’isolamento dovuti al loro superiority complex, avevano capito di non poter più restare arroccati al di qua della Manica: dovevano adeguarsi ai tempi ed aprirsi agli altri, se non volevano diventare solo un ricordo. Il calcio tornava a casa, il Brasile di Pelè dettava legge già da due edizioni mondiali, al riscatto era attesa l’Italia.
In cerca del riscatto
Reduci dal mondiale cileno che aveva avuto, per gli Azzurri, un epilogo pugilistico (Cile-Italia fu una delle partite più violente della storia), la squadra fu affidata alla guida tecnica di Edmondo Fabbri. La scelta sembrò felice e azzeccata per i tempi: il romagnolo aveva portato una ventata di novità con il Mantova, che aveva guidato addirittura dalla Serie D alla Serie A in cinque stagioni. Soprattutto il suo gioco sembrava avere, agli occhi del presidente della Federcalcio Giuseppe Pasquale, il giusto respiro europeo, in contrapposizione con quello catenacciaro, ma vincente, dell’Inter di Helenio Herrera e di un po’ tutto il movimento calcistico italiano. I risultati iniziali dettero ragione al nuovo corso. Solo l’Unione Sovietica diede un dispiacere eliminando gli Azzurri dalla seconda edizione del Campionato Europeo (1964 in Spagna), ma non contava: l’obiettivo erano i Campionati del Mondo in Terra d’Albione.
Ottenuta la qualificazione, il girone era tra i più abbordabili: per la squadra di Fabbri si presentava subito l’occasione di vendicarsi del Cile; c’era l’Urss di Lev Jašin, pronosticata per il superamento del turno insieme all’Italia; c’era la sconosciuta e misteriosa Corea del Nord. L’approccio a quel luglio inglese non fu tranquillo, a partire da quell’ «Adesso siamo in guerra!» pronunciato dal CT appena messo piede sul suolo inglese. Molto influirono negativamente pure le polemiche con i sostenitori del gioco “all’italiana” (tra cui anche Gianni Brera), ostracizzato, come detto, da Fabbri. Neanche la sede del ritiro, la Scuola dell’Agricoltura di Durham, con la sua tetraggine e quasi desolazione, aiutò a sciogliere le nubi che si andavano addensando sulle teste degli Azzurri.
Nel primo match (Sunderland, 13 luglio) l’Italia doveva vedersela proprio con il Cile, la squadra che l’aveva eliminata nel Mondiale precedente. Stavolta il tutto fu meno traumatico, la scontata vittoria italiana pervenne grazie alle reti di Sandro Mazzola e Paolo Barison, ma più di un dubbio sollevò la prestazione: il gioco espresso fu in realtà un “non gioco”, le già poche certezze di Fabbri si dispersero nella nebbia inglese.
La gara successiva, il 16 luglio, il CT rinnegò un po’ le sue idee: contro la tetragona, monocorde ma potente URSS decise di giocare una partita di attesa invece che di aggressione, con il risultato di perdere per una rete di Igor Čislenko al 57’. Nulla era perduto, tranne le convinzioni di Fabbri, che andò in totale confusione. L’ultimo avversario sulla strada di una “sicura” qualificazione erano gli “improponibili” giocatori della Corea del Nord, dai nomi a filastrocca e dalle fattezze di “Ridolini”, come ebbe a descriverli Ferruccio Valcareggi, allora assistente del CT. Un grave errore di sottovalutazione.
La disfatta che non ti aspetti
La Corea del Nord rappresentava una nazione che non c’era, un Paese non riconosciuto dall’Occidente, che ancora non si era ripreso dalla guerra civile che lo aveva devastato durante gli anni Cinquanta, lasciando un lungo, triste, elenco di quattro milioni di morti. Proprio questo era un punto di forza di quella squadra, l’orgoglio, lo stesso su cui aveva fatto leva il presidente coreano, Kim Il-sung, richiedendo almeno una vittoria. Soprattutto di questo non tenne conto lo staff azzurro, facendosi fuorviare dalla tecnica approssimativa e dalla tattica elementare degli avversari. Quel 19 luglio, a Middlesborough, “Mondino” cambiò ancora, ma l’errore più grave che fece fu quello di schierare Giacomo Bulgarelli con un ginocchio malandato, in un’epoca in cui non esistevano sostituzioni.
Pure, la partita non presentava difficoltà apparenti: quando alle 19,30 l’arbitro francese Pierre Schwinte fischiò l’inizio del match, subito Marino Perani ebbe una, due, tre occasioni, sprecandole per bravura del portiere Lee Chan-Myung o per errori di mira. Ogni occasione sembrava scandire l’avvicinamento a quel vantaggio che avrebbe liberato molti cuori oppressi. I minuti, però, passavano, e i coreani, che sembravano in balia degli Azzurri, iniziarono a dispiegare sul prato la loro velocità e una tecnica non certo da analfabeti della pelota. Con il lievitare del livello di prestazione degli asiatici, lentamente, inesorabilmente, l’Ayresome Park si trasformava in un catino di scherno per gli Azzurri, il prato in una palude mortale che ne avvinghiava le gambe, impedendone i movimenti.
Gli avversari, i coreani, i “Ridolini”, ingigantivano sovrastando per velocità, e anche gioco, gli spaesati uomini di Fabbri. Il vero crack avvenne al trentacinquesimo minuto, ed aveva il rumore del ginocchio di Bulgarelli che cedeva nel contrasto con un avversario, lasciando la sua squadra in dieci. Trascorsero altri sette minuti e al 42’, nel tramonto dei mari del Nord, tramontò anche l’Italia: la palla giunse a Pak Doo-Ik, che dal limite dell’area, leggermente decentrato a destra, incrociò un tiro verso la porta azzurra. Enrico Albertosi si protese verso il radente, ma più la sua mano sembrava avvicinarsi al pallone, più questo sembrava allontanarsi, fino a chiudere la sua corsa in fondo alla rete. Incredibile: un dentista (non lo era, fu una leggenda metropolitana a dargli quella qualifica) aveva segnato alla grande Italia!
La partita finì qui, l’impensabile si materializzò, il restante periodo di gara vide solo tanta confusione azzurra e tentativi frustrati da piccoli giocatori che erano diventati giganti. Il postpartita fu tipicamente italiano, tra accuse reciproche, risibili ipotesi di complotto, pomodori e ortaggi vari che accolsero la comitiva italiana al ritorno sul suolo patrio.
Da quel 19 luglio inglese, nell’immaginario collettivo “Corea” divenne, ed è ancora, sinonimo di vergogna sportiva. Ma è anche vero che fu, forse, proprio in conseguenza di questa sconfitta che l’Italia calcistica poté finalmente rinnovarsi nel suo movimento, diventando, ci piace immaginarlo, il primo mattone su cui costruire le basi per successi immediati (Campione d’Europa 1968, Vice Campione del Mondo 1970) e futuri.
Raffaele Ciccarelli
© Riproduzione Riservata
un italia un po defrollata