Milan-Barcellona 1959
La lezione di calcio degli Azulgrana
Era un pomeriggio mite del primo autunno lombardo, a Milano. Le nebbie che quel mattino del 4 novembre 1959 avevano sollevato i loro veli l’avevano illuminata di un sole pallido, risvegliando una città immersa in un’atmosfera elettrica. Ovunque si annusava nell’aria il grande evento che si sarebbe svolto quel pomeriggio. La frenesia della “Milano da bere” sembrava ancora più accelerata, quasi a voler abbreviare il tempo dell’attesa.
Quel giorno, infatti, lo stadio di San Siro avrebbe ospitato Milan-Barcellona, ottavo di finale dell’ancor giovane Coppa dei Campioni. All’epoca, per competere in quella che sarebbe diventata la più importante competizione per club, occorreva aver vinto il campionato nazionale. Il Milan ne aveva acquisito il diritto in virtù della conquista del titolo tricolore vinto, nella stagione precedente, con una squadra che viveva degli ultimi bagliori di grandi campioni quali Nils Liedholm e Juan Alberto Pepe Schiaffino, due fuoriclasse di livello mondiale, cui si era aggiunto l’estro offensivo di José Mazzola Altafini. Era stata una lotta accanita con la Fiorentina, un lungo testa a testa risolto solo a tre giornate dal termine, quando la Viola fu battuta nello scontro diretto casalingo per 3-1 e il settimo scudetto si era concretizzato nella bacheca milanista.
Una stagione travagliata
Eppure la nuova stagione non era iniziata sotto i migliori auspici, con la minaccia di dimissioni del presidente Andrea Rizzoli, contro una decisione della CAF che aveva solo implicazioni morali (all’epoca questo bastava). Oltre a una situazione societaria alquanto destabilizzante, era in atto anche un non più rinviabile ricambio generazionale che vedeva il suo presente affidato ad una squadra sostanzialmente immutata, con giovani di belle speranze e dal promettente futuro da inserire.
Giuseppe Gipo Viani, antesignano della figura del manager calcistico, aveva operato solo pochi acquisti, ma molto mirati: Mario David per la difesa, Pier Luigi Ronzon, Paolo Barison e Gianni Rivera per esaltare il gioco offensivo. Pur fondandosi ancora sull’esperienza del Barone Liedholm e di Cesare Maldini in difesa, quel Milan – confortato dalle prove di alcuni suoi giocatori nelle Nazionali giovanili – aveva deciso di puntare su di loro, promuovendo nel giro della prima squadra virgulti quali Sandro Salvadore, Giovanni Trapattoni e lo stesso giovanissimo Rivera.
Decisione encomiabile e di prospettiva, che però mal si sposava, vista la poca esperienza dei protagonisti, con l’imminenza degli eventi e la necessità di un calendario internazionale che metteva di fronte grandi squadre con campioni affermati. Era comunque una politica di ringiovanimento tesa anche a fare di necessità virtù, a evitare spese folli in un calcio già allora sopra le righe. Logico che, in questa situazione, le dichiarazioni di Luigi Cina Bonizzoni, il tecnico dell’epoca, fossero improntate all’apparente soddisfazione per l’organico messogli a disposizione e a una piena condivisione della politica societaria, ma che alla fine le sue speranze di gioco e successo fossero fondate sulle “vecchie volpi”, rappresentate appunto da Liedholm e Schiaffino.
L’allenatore era ben conscio della concorrenza interna che si era rafforzata per tirare giù dal trono lui e il suo Milan. Ecco che, quasi a presagire le difficoltà che avrebbe incontrato nell’arengo di casa, l’obiettivo diventava vincere la Coppa dei Campioni, condito da un prudente: «Naturalmente se gli altri ci lasceranno vincere». Nonostante la competizione internazionale fosse solo alla quinta edizione, era infatti già molto ambita e annoverava al via il meglio del calcio europeo dell’epoca. D’altra parte era stato proprio questo l’obbiettivo del suo creatore, quel Gabriel Hanot, già calciatore nei primi anni del secolo, in seguito diventato giornalista e direttore de L’Équipe. Un francese, naturalmente, come francesi erano stati i creatori delle Olimpiadi e dei Campionato del Mondo ed Europei di Calcio.
La sua idea nasceva dalla necessità di mettere a confronto i migliori club d’Europa per capire quale fosse il più forte, tra Real Madrid, Milan, Honvéd di Budapest (allora il calcio ungherese era tra i più importanti del Vecchio Continente), Wolverhampton. La competizione, fino a quel momento, era stata appannaggio delle Merengues che avevano vinto tutte le precedenti edizioni. Un domino incontrastato che, per la prima volta, sarebbe stato seriamente a rischio a causa della presenza, quell’anno, delle camisetas azulgrana del Barcellona.
Una partita a senso unico
Ed era proprio il Barcellona, quel 4 novembre 1959, l’avversario del Milan. Non ci fu, e non ci poteva essere partita: i catalani vantavano un tasso tecnico molto vicino all’eccellenza. Il loro punto di forza era rappresentato da un quintetto offensivo di assoluto valore mondiale, composto da El Arquitecto Luis Suárez, Abrelatas Eulogio Martínez, László Kubala, Evaristo de Macedo, Zoltàn Czibor. A dirigerli il grande Helenio Herrera, El Mago, che dalla stagione successiva avrebbe infiammato le platee calcistiche italiane dalla panchina dell’Inter con duelli rusticani soprattutto contro il Milan di Nereo Rocco, il mitico Paron.
Tanta potenza, unita ad un senso estetico già all’epoca marchio di fabbrica di quella squadra, si scaricò tutta sul prato di San Siro, travolgendo le speranze dei rossoneri e dei sessantamila accorsi nella segreta speranza di veder trionfare i loro colori, ma presto rassegnati a godersi lo spettacolo calcistico offerto dagli avversari.
Niente può sintetizzare meglio l’essenza di quel 2-0 finale (grazie a due gol in rapida successione di Martí Vergés e di Luisito Suárez) e la superiorità del Barcellona delle parole del grande giornalista Bruno Roghi, direttore del Corriere dello Sport: «… tocco di palla (secco e morbido a seconda delle esigenze, frutto evidente di una scuola di insegnamento tanto severo quanto perspicua); senso di passaggio eseguito da tutte le posizioni utili e spesso nei frangenti di gioco apparentemente confuso; velocità ora scattante e ora continua, sì da rendere nitido e tempestivo l’anticipo coordinamento dei reparti in chiave di elasticità per cui il fronte di difesa si trasferisce e quasi si immedesima nel fronte d’attacco… La somma di queste caratteristiche e di questi meriti definisce la personalità stilistica della squadra catalana». E ancora: «…vedetta del calcio internazionale, il Barcellona ha dimostrato che la sua fama non è usurpata: infatti ha giostrato al livello dell’arte (almeno nelle fasi più emotive della sua partita)… Ha dato al Milan un distacco di reti che, senza l’intervento di un miracolo nella partita di ritorno, segna fin d’ora l’esclusione della squadra milanista dal torneo». Il miracolo, però, non ci fu, anzi al Camp Nou per i rossoneri fu disfatta totale, come dimostra l’eloquente 5-1 finale.
Forse è vero che per costruire le grandi vittorie occorre passare attraverso dolorose sconfitte. Il Milan fece tesoro di quell’amara esperienza, in qualche modo ne fece la base per i futuri successi internazionali che iniziarono ad arrivare già di lì a poco.
Sull’ossatura di quella squadra, e con l’esperienza acquisita, solo quattro anni dopo i rossoneri si issarono infatti sulla vetta d’Europa, iscrivendo per la prima volta il loro nome nell’albo d’oro della competizione. La sfida con gli Azulgrana si sarebbe ripetuta con esiti alterni in futuro, mettendo a confronto non più maestri e allievi, ma due riconosciute potenze del calcio mondiale.
Raffaele Ciccarelli
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