Yannick Noah
Il profeta del tennis fantasia
NBA, United Center, 6 novembre 2007. I Chicago Bulls ospitano i Los Angeles Clippers. Durante il primo quarto, a 3′ 56″ sul cronometro, un atleta con la casacca bianca numero 13 e dall’acconciatura particolare viete accolto dal suo primo applauso sul parquet casalingo. Il ragazzo è un francese: Joakim Noah.
Noah? Sì, proprio Noah, come il tennista. Come il grande Yannick. O meglio, come suo padre. I talenti spesso si coltivano in famiglia.
Un predestinato, si dirà. Predestinato non proprio, ma sicuramente un ottimo giocatore. Non un fenomeno, ma un elemento fondamentale. Già, perché forse di fenomeni, la stirpe Noah ne aveva appena visto passare uno.
Yannick nasce a Sedan il 18 maggio 1960, dall’incontro di due culture differenti: madre francese, di mestiere insegnante, e padre camerunese, calciatore professionista.
Lo sport diventa dunque una costante nell’infanzia di Yannick, istruito dalla figura paterna ad una cultura agonistica che lo porterà ai vertici. È però dalla madre che eredita la passione per il tennis: comincia giovanissimo, in Camerun, dove si è stabilmente trasferito in seguito all’infortunio che, nel 1963, aveva chiuso anticipatamente la carriera del padre Zacharie.
Una storia sportiva, quella di Noah, contraddistinta da due momenti fondamentali.
Pietre miliari
Wimbledon, 1977. Prelevato con grazia dagli osservatori della Federazione francese, viene subito gettato nella mischia. Il ragazzo esce trionfante dal manto erboso più celebre del mondo tennistico: il campionato è quello juniores, ma la vittoria gli segnerà la vita più di qualsiasi altro Grande Slam.
La seconda data fondamentale è il 1983, dall’altra parte della Manica, a Parigi. Yannick Noah si presenta in madrepatria con tredici titoli sparsi per il mondo all’attivo. Non proprio uno sconosciuto, insomma, ma gli manca ancora un titolo che lo consacri definitivamente tra i grandi. Quale palcoscenico può essere migliore del Roland Garros?
La Francia non vede vincere un connazionale da parecchi anni, trentasette per l’esattezza, e affida al suo pupillo la speranza di interrompere questo digiuno.
Noah arriva come numero 6 del mondo, avendo davanti di una sola posizione il vincitore dell’edizione precedente, lo svedese Mats Wilander. La scalata sembra persino più facile del previsto per Yannick, che nei primi quattro turni si libera dei modesti avversari senza perdere neppure un set. Ai quarti comincia una ripida salita, almeno sulla carta: ad attenderlo c’è infatti il numero 3 del ranking, il ceco Ivan Lendl. Non c’è gara. Lendl esce frastornato dai colpi spettacolari di Noah. 7-6, 6-2, 5-7, 6-0 è lo score a favore del transalpino.
La semifinale, stando al tabellone, avrebbe dovuto segnare la fine sicura dell’Open parigino per il francese. Il numero 1 al mondo Jimmy Connors però cede inaspettatamente contro Christophe Roger-Vasselin, che si proietta così alla sfida con Noah. Il sogno di gloria del “giustiziere” di Connors viene spazzato via da un temporale. Già, perché Yannick sferra colpi come saette e corre sul campo alla velocità della più tremenda bora triestina. 6-3, 6-0, 6-0, e tutti a festeggiare per una finale meritata.
La finale
5 giugno 1983, inizio estate. La brezza che muove la rete non è tanto opera di Madre Natura, quanto dei sussulti dei diciottomila spettatori sugli spalti. Yannick affronta il già citato Wilander. È una sfida su due fronti. Da un lato l’orgoglio patrio, dall’altro la voglia di rovinare la festa agli svedesi che, da Björn Borg in avanti, avevano trovato nel Roland Garros un banchetto troppo accessibile.
Noah entra per secondo, con calzoncini bianchi, felpa rossa e fascia tra i capelli cespugliosi. Il pubblico si infiamma. Ed è forse questo l’attimo più avvincente della gara, perché il resto diventa pura istituzione. Un incontro a senso unico.
Yannick batte l’ultimo servizio e si butta a rete, il suo territorio di caccia. Wilander risponde lungo, a scavalcare. Troppo lungo. Noah si lascia cadere nella terra rossa e alza le braccia al cielo. Risultato finale: 6-2, 7-5, 7-6.
Il grande Yannick in seguito metterà in tasca tanti altri trofei (venticinque in totale), rimanendo anche per diciannove settimane in testa al ranking, nel 1986, ma quel 5 giugno resterà il suo capolavoro.
Spregiudicato, spettacolare, ma al contempo privo di eccelsa tecnica, il francese ha combattuto sempre con naturalezza ed entusiasmo, privilegiando la giocata ad effetto al colpo semplice, preferendo una volée di rovescio ad un dritto lungo linea, correndo come un dannato per il campo senza risparmiare le suole delle scarpe. Il suo punto di forza è stato senz’altro il servizio, tradizionale nella meccanica, ma imprendibile in effetto e potenza; la risposta alla battuta avversaria è stata viceversa la sua più grande lacuna.
Il “colpo Noah”
Parole e giudizi che rischiano di risultare superflui, perché, in realtà, Noah è assurto alla gloria del mondo con una giocata del tutto particolare. Il colpo Noah, per l’appunto.
La situazione tipo per l’esecuzione del suddetto tiro prevedeva che il giocatore, a rete in quel momento, venisse superato da un lob, un pallonetto per intenderci. A questo punto, anziché rincorrere e superare la pallina come tutti i comuni mortali, Noah preferiva colpirla sotto le gambe, spalle all’avversario.
Ripreso in epoca successiva e con maniacale perfezione da Roger Federer, il colpo Noah viene tuttora rivendicato da vari tennisti precedenti. Rivendicazioni forse legittime, ma vane. Nessuno quanto Yannick ha saputo fare di questo numero funambolico una giocata essenziale nell’economia del match. Un colpo da consegnare alla storia.
La carriera nel tennis di Yannick Noak non si chiude con l’ultimo incontro nel 1990. Continua da capitano non giocatore della Francia in Coppa Davis, e già nel 1991 il trofeo torna in mani transalpine. Il suo carisma in campo viene dunque prestato alle nuove generazioni.
Un carisma che lo ha portato ai vertici mondiali nonostante le mille difficoltà. Che lo ha portato ad imporsi in uno sport sostanzialmente da bianchi, pur essendo di colore. Anche se poi, ad onor del vero, Noah è stato sostanzialmente un campione di tennis prima che un afro-francese, e non ha mai voluto dare alle sue vittorie una valenza razziale. Il che non significa aver rinnegato le sue origini, specie nei momenti in cui sono state messe in discussione. Come quando, appena finito un match, pretese pubbliche scuse per gli insulti ricevuti dall’avversario, l’israeliano Amos Mansdorf.
Noah, un vincente nato. Dopo il ritiro, anche un cantante acclamato, e persino uno psicologo sportivo al servizio di una campionessa del tennis femminile come Amélie Mauresmo.
Un personaggio globale, istrione a volte, ma di grande professionalità. Un genio ribelle, un trascinatore severo, figlio di un’educazione sportiva a volte esasperata. Non il migliore di sempre, ma a suo modo indispensabile per la storia del tennis. Questo è Yannick Noah.
E allora non meravigliamoci troppo se guardando una partita di Joakim vedremo una schiacciata che ci ricorderà uno degli smash del padre per prestanza ed efficacia. Nella famiglia Noah, la competitività è tradizione.
Mattia Pintus
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